Nel 2016 è uscito il primo film la cui sceneggiatura è stata scritta interamente da un computer. Possiamo dire che esiste già una macchina che crea storie? Una riflessione di Cristian Vázquez apparsa su Letras Libres, che ringraziamo.
di Cristian Vázquez
traduzione di Carla Pugliese la Corte
1.
Quasi un anno fa, il progetto La gente anda dicendo – uno spazio sui social network che condivide frasi curiose ascoltate per strada – pubblicò l’esclamazione di una bambina di 6 anni:
«GUARDA, MAMMA, UNA MACCHINA CHE FA STORIE».
BIMBA DI CIRCA 6 ANNI A SUA MADRE, PASSANDO DAVANTI A UNO STAND IN CUI SI VENDONO MACCHINE DA SCRIVERE. FIERA DEL PARQUE CENTENARIO, CIUDAD AUTÓNOMA DE BUENOS AIRES. DOMENICA.
Viene voglia di andare a cercare questa bambina per stringerla in un abbraccio, nella speranza che ci contagi un po’ col suo candore. Quel che è certo è che le macchine da scrivere, così come i mezzi di comunicazione, internet e molti altri, non fanno storie: le trasmettono soltanto, le fanno circolare. Ma senza saperlo questa bambina ha espresso uno dei tanti desideri dell’essere umano che fino a poco tempo fa sembrava argomento esclusivo dei racconti di fantasia o di fantascienza e che oggi ci si presenta quasi come una realtà.
2.
Nel romanzo La città assente, Ricardo Piglia immaginava che intorno agli anni Venti del Novecento Macedonio Fernández avesse inventato una macchina che raccontava storie. «Il sistema era piuttosto semplice, sembrava un fonografo in una cassa di vetro, pieno di cavi e di magneti». Nell’aspetto forse non era molto differente dalla macchina che il bambino aveva visto allo stand della fiera. Era stato realizzato come una macchina per tradurre, ovvero, ciò che oggi internet mette a disposizione di chiunque.
Una sera inserirono nella macchina «William Wilson» di Poe per farglielo tradurre. Tre ore dopo iniziarono a uscire i nastri di telescrivente con la versione finale. Il racconto si ampliò e si modificò fino a diventare irriconoscibile. Si chiamava «Stephen Stevensen». […] Volevamo una macchina per tradurre e abbiamo una macchina che trasforma le storie. Ha preso il tema del doppio e l’ha tradotto. Le riaggiusta come può. Utilizza quello che c’è e quello che sembra perso, lo restituisce trasformato in qualcos’altro. Così è la vita.
Un po’ più avanti il narratore dà qualche dettaglio in più.
La macchina aveva captato la forma della narrazione di Poe e ne aveva cambiato l’aneddoto, quindi era il caso di programmarla con un insieme variabile di nuclei narrativi e lasciarla lavorare. La chiave, disse Macedonio, è che a mano a mano che narra, impara. Imparare vuol dire che ricorda quel che ha già fatto e ogni volta ha più esperienza. Non farà necessariamente storie sempre più belle, ma saprà quali storie ha già fatto e forse finirà per costruirgli una trama comune.
3.
Il romanzo di Piglia è stato pubblicato nel 1992. Venticinque anni dopo, in un certo qual modo, quella macchina è già realtà. La sceneggiatura del cortometraggio Sunspring – presentato all’ultimo Sci-Fi London, un festival del cinema di fantascienza che si svolge ogni anno ad aprile nella capitale britannica – è stato scritto interamente da un computer.
I creatori del film sono Oscar Sharp, cineasta, e Ross Goodwin, ricercatore in ambito di intelligenza artificiale. L’idea gli venne a partire dalla tecnologia di previsione dei testi propria dei cellulari. Questo sistema, così come la macchina di Macedonio, impara mano a mano che lavora dall’esperienza di ciò che è già stato realizzato da qualcun altro. Sharp e Goodwin si chiesero che cosa sarebbe successo se oltre agli SMS o ai messaggi WhatsApp, si fossero introdotte altre informazioni. Sceneggiature di film di fantascienza, per esempio. Decisero di provare. Inserirono 160 copioni reperiti su internet in una rete neurale ricorrente, e così ottennero una sceneggiatura nuova (nuova?). Girarono in due giorni. Questo è il risultato (si possono attivare i sottotitoli, solo in inglese, almeno per ora):
4.
È chiaro che il risultato finale dell’esperimento è, per certi versi, delirante. La sceneggiatura manca di una trama logica e comprende molte indicazioni senza senso, come per esempio: «Lui è fermo fra le stelle e seduto per terra». Ma per altri versi, finisce con l’essere – come segnala l’articolo della rivista Ars Technica che diffuse il film sul web – «uno specchio della nostra cultura». Il computer, di fatto, non ha inventato niente: tutto quello che dice era stato già scritto precedentemente da esseri umani. Alcune frasi si ripetevano in modo quasi identico: I don’t know what you are talking about («Non so di che cosa stai parlando»), What do you mean? («Che intendi dire?»), What the hell is going on? («Che diavolo sta succedendo?»). La macchina le ripete perché nei film compaiono più e più volte.
Inoltre: quando Sharp e Goodwin ingaggiarono tre attori e una troupe cinematografica per girare il film, tutti diedero per scontato che la trama si articolasse in una specie di triangolo amoroso fra i personaggi. Tuttavia, niente nella sceneggiatura lasciava intendere che si trattasse di questo. Siamo così abituati a questo tipo di storie che si impongono quasi senza che ce ne rendiamo conto.
Verso la fine dell’articolo citato, l’autore segnala che Sharp e Goodwin, intervistati, a volte fanno riferimento a Benjamin (il nome che il computer scelse per sé stesso) con il pronome personale he e in altri casi con it. Cioè, in alcuni casi era come se parlassero di una persona («lui») e in altri come se si trattasse di una cosa («esso»). Sorse dunque il dubbio di come dovessero considerare Benjamin: se come «l’autore» dell’opera o solo come uno strumento. Un autore, secondo Sharp e Goodwin, «deve poter creare qualcosa con un apporto originale, con la propria voce, anche se si tratta di un cliché. Ma Benjamin crea solo sceneggiature basate su ciò che altra gente ha scritto, e in questo modo, per definizione, non ha una voce veramente originale. È solo un puro riflesso di ciò che hanno detto altri». In conclusione, decidono che la macchina è a metà strada fra l’autore e lo strumento, «fra lo scrittore e il rigurgitatore», e che perciò c’è bisogno di «una parola nuova» per definirla.
5.
Tuttavia, ciò che fa Benjamin è la stessa cosa che facciamo noi uomini: creare cose nuove a partire dal materiale che altri hanno già sviluppato prima. Ma piuttosto che elaborare 160 sceneggiature con una manciata di algoritmi, lavoriamo con una quantità incommensurabile di informazioni – tutte le nostre esperienze, tutto ciò che chiamiamo «cultura» – e con le reti neurali più straordinarie che si conoscono: quelle del cervello umano. La differenza è solo di grado. Ciò che crediamo una voce distintiva o un apporto originale, non è nient’altro che il risultato di un processo tanto complesso da farci perdere la cognizione del modo in cui abbiamo rielaborato la materia prima.
Se non ci estingueremo prima – obiettivo per il quale sembriamo impegnarci ogni giorno – è probabile che noi esseri umani finiremo col realizzare un’intelligenza artificiale capace di pensare come noi. Allora, il sogno di creare una macchina che inventi storie sarà diventato, a tutti gli effetti, realtà. È perfino possibile che quel bambino che si meravigliava davanti alle macchine da scrivere allo stand di una fiera sarà vivo per sperimentarlo.
© Cristian Vázquez, 2016. Tutti i diritti riservati
Cristian Vázquez (Buenos Aires, 1978) è giornalista e scrittore. Ha pubblicato il romanzo breve Támesis (2007) e la raccolta di racconti Partidas (2012).
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