Pubblichiamo oggi un’intervista di Carlos Alberto Gamissans allo scrittore messicano Juan Villoro, accompagnata da due belle notizie: le crónicas di ¿Hay vida en la Tierra? Entreranno presto a far parte del catalogo SUR, e questa sera Juan Villoro ci farà compagnia presentando l’ultimo titolo di Cortázar, Correzione di bozze in Alta Provenza, alla libreria Todo Modo di Firenze, qui tutte le informazioni. L’intervista è apparsa su PliegoSuelto, che ringraziamo.
«Paradossi della vita postmoderna: intervista a Juan Villoro»
di Carlos Alberto Gamissans
traduzione di Sofia Mangano
Diceva Roberto Bolaño che il Messico è di per sé un genere letterario. Forse non aveva torto. Si è scritto tanto su questo paese nordamericano, e uno degli autori che lo ha fatto con più arguzia è probabilmente Juan Villoro (Città del Messico, 1956). Lo abbiamo intervistato in merito al suo ultimo libro, ¿Hay vida en la tierra? (Anagrama), composto da cento articoli brevi sui prodigi della quotidianità. Capace di solcare con la stessa scioltezza i terreni della realtà e della fiction, del giornalismo e della letteratura, scrive testi che suscitano riflessioni sulla vita moderna e che hanno anche il pregio di rendere risibile ciò che è sgradevole, grazie al suo particolare senso dell’umorismo e all’uso dell’ironia.
In ¿Hay vida en la tierra? racconti di abitudini messicane, come arrivare in ritardo a una riunione o rimandare indefinitamente la soluzione di problemi. Alcune di queste si possono applicare anche alla Spagna. Quali differenze culturali hai notato tra Città del Messico e Barcellona?
È difficile parlare di queste differenze senza essere manicheo. Te ne racconto un paio, cercando di non semplificare troppo. In America Latina di solito parliamo al telefono anche solo per una semplice conversazione. Quando vivevo a Barcellona, io e Roberto Bolaño ci telefonavamo per raccontarci un sogno, ricordare qualche attrice della nostra adolescenza, condividere una barzelletta e cose di questo tipo. Ci sorprendeva che gli amici spagnoli si innervosissero con questo genere di telefonate, che per noi potevano durare ore. In Spagna ci si telefona per mettersi d’accordo su qualcosa. Il telefono non è un luogo di riunione come in America Latina.
Un altro esempio è la cultura della diffidenza. In Messico si diffida a priori degli sconosciuti. Quando un carpentiere o qualcuno che lavora con te fa il proprio dovere, dici: «Si è guadagnato la mia fiducia». Invece in Spagna la fiducia si dà per scontata, il che è molto più piacevole. Si assume che uno farà ciò che promette e se viene meno perde la fiducia. Quando sono tornato in Messico ho dovuto spiegare a mia figlia di quattro anni che ero passato da un luogo in cui la fiducia si può perdere a un luogo in cui la fiducia si deve guadagnare.
Dei modi latinoamericani apprezzo l’intimità sentimentale quasi istantanea che si crea in un rapporto di amicizia. In Spagna puoi essere amico di qualcuno senza conoscere troppo la sua vita privata. In Messico è difficile prescindere dalla vita privata.
Durante il tuo percorso hai coltivato la cronaca, il racconto, il romanzo, l’editoriale, ecc. Credi nella necessità della separazione tra i generi o sei un sostenitore dell’ibridazione?
La cosa divertente dei generi letterari è che sono differenti. Non mi interessa che una mia opera teatrale sembri la messa in scena di un racconto o di una conferenza. Esistono i vasi comunicanti, ovviamente. Mi interessa di più, invece, non confondere o mescolare i generi, cosa molto di moda, ma avvalermi, in ognuno dei generi che pratico, degli insegnamenti che mi hanno lasciato quelli che non pratico in quel momento. Proprio come un allenatore dirige la partita sfruttando il giocatore che era un tempo, il romanziere trae vantaggio dal saggista che in quel momento se ne sta zitto ma giudica, e viceversa.
Sulla scia di autori come García Márquez o Josep Pla, ti sei cimentato sia nel giornalismo che nella letteratura. Credi che stiamo vivendo un’epoca di maggiore unione tra le due discipline o che, al contrario, si stiano distanziando sempre di più?
Il prestigio della crónica è aumentato. García Márquez scrisse per la stampa testi magistrali che il mondo conobbe solo quando lui raggiunse la fama come romanziere. Quando ho iniziato col giornalismo, nessuno parlava di cronaca. Scrivevamo note o reportage. Poco a poco è aumentata l’autorevolezza narrativa del genere, che è di eccezionale qualità fin dai tempi di Daniel Defoe (1660-1731). La cosa strana è che al giorno d’oggi è più facile organizzare un congresso sulla crónica che pubblicarne una. Vengo abitualmente intervistato da persone che hanno borse di studio all’estero per studiare il genere e ricevono per questo molti più soldi di quelli che noi cronisti mai otterremo col nostro lavoro. Paradossi della vita postmoderna.
Secondo me, il futuro del giornalismo così come è stato inteso finora, è minacciato dalla perdita di credibilità dei mezzi di comunicazione tradizionali e dalle difficoltà nell’adattarsi al mondo digitale. Quali sono le sfide principali per questa professione nel XXI secolo?
Il giornalismo narrativo deve recuperare la fiducia nelle sue risorse principali. Ci troviamo davanti a un fenomeno simile a quello sperimentato dalla pittura con l’arrivo della fotografia. Il ritratto fotografico suscitò negli artisti l’interesse per lo studio di aspetti che la fotografia non poteva offrire: l’impressionismo, il cubismo, l’espressionismo e perfino l’iperrealismo sono parte di quel processo.
L’informazione online è molto utile, ma non possiamo rinunciare a raccontare storie in cui le notizie pubbliche si incarnino in destini privati. La cronaca è la maniera migliore di mettere in relazione collettivo e individuale. Sfortunatamente, il vortice della velocità e l’ossessione per la brevità del giornalismo digitale sembrano opporsi a questo, ma si tratta di una tendenza passeggera. È perfino possibile che le piattaforme digitali siano d’aiuto in questo compito, permettendo a qualcuno di caricare un reportage lunghissimo che possa essere scaricato o letto dagli interessati. Nessuno ti pubblica una cronaca di trenta pagine, ma niente ti impedisce di metterla su un blog.
Le due volte che ti ho incontrato personalmente, alla presentazione del tuo ultimo libro e a quella del saggio Librerías di Jorge Carrión, sono rimasto impressionato dalle tue doti oratorie. Sei un sostenitore dell’improvvisazione o parti sempre da un copione prestabilito?
Credo che la conferenza si debba produrre davanti agli ascoltatori. Se si tratta di leggere un testo, si può chiamare un attore. Inoltre, chi impara di più in una conferenza è lo stesso oratore. Parlare in pubblico è un modo di studiare le tue stesse idee. Ovviamente questo comporta dei rischi. Ho da poco rappresentato per la prima volta il monologo teatrale intitolato Conferencia sobre la lluvia, in cui un uomo pretende di tenere una conferenza sulla relazione tra la poesia d’amore e la pioggia, e finisce perdendosi in deliri mentali e facendo una confessione sentimentale provocatoria. Magari un giorno mi succederà lo stesso.
Qualcuno ha detto che i telefoni cellulari hanno distrutto la letteratura: Romeo avrebbe inviato un whatsapp a Giulietta e tutto si sarebbe sistemato senza spargimenti di sangue. Che rapporto hai con le nuove tecnologie?
Ho un ottima relazione primitiva con la tecnologia. Le uso poco per non diventarne dipendente. Ci troviamo di fronte a protesi culturali che provocano assuefazione e overdose. In piccole quantità stimolano, in eccesso ti fanno spegnere.
Dopo aver letto ¿Hay vida en la tierra? si arriva alla conclusione che non c’è niente di più straordinario delle casualità. Ci sono alcune storie così incredibili che sembrano frutto dell’immaginazione più libertaria e della casualità più improbabile. Ti sei concesso licenze letterarie o si basa tutto su esperienze reali?
Mi sono concesso delle licenze solo per unire storie avvenute in momenti distinti, cambiare i nomi di qualche personaggio, riassumere un po’ gli avvenimenti o dar loro un altro ordine. Sono procedimenti simili a quelli del fotografo che, senza cambiare la realtà, la ridefinisce attraverso l’inquadratura, la prospettiva, la composizione o i giochi di luce. Quando racconti un fatto pubblico sei obbligato a non cambiare nulla. Quando racconti scene della vita privata puoi cambiare il colore dei calzini, se ciò va a favore di un aggettivo.
Per concludere, cosa diresti ai principianti che muovono i primi passi nel mondo della scrittura?
Che il valore letterario non sta negli avvenimenti del mondo, ma nel modo di guardarli. Con la dovuta attenzione, la storia di un uomo che non può tornare a casa diventa l’Odissea.
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