Giovedì 29 aprile, nell’ambito del corso di laurea magistrale in traduzione specialistica, si è tenuto un seminario dal titolo “L’editoria italiana e le letterature di lingua spagnola” presso lo IULM di Milano. Coordinato da Francesco Fava, che ha curato il volume Tradurre un continente. La narrativa ispanoamericana nelle traduzioni italiane, di cui abbiamo parlato qui e qui, l’incontro ha visto la partecipazione di Gabriele Bizzarri, professore di Letteratura spagnola presso l’Università di Padova, Stefano Tedeschi, professore di Letteratura Ispanoamericana dell’Università Sapienza di Roma, Lorenzo Ribaldi per la casa editrice Nuova frontiera, Claudia Tarolo di Marcos y Marcos, Livio Santoro di Arcoiris, e del sottoscritto in qualità di traduttore e di curatore, insieme a Giulia Zavagna, di questo blog. Erano presenti anche lo scrittore argentino Carlos Dámaso Martínez, di cui sono usciti in Italia quattro romanzi pubblicati da Arcoiris nella collana Gli Eccentrici, e lo scrittore e traduttore inglese Tim Parks, che insegna presso lo IULM e di cui ricordiamo solo le traduzioni di Calvino, Moravia e Tabucchi.
Senza avere la pretesa di riassumere i temi toccati dai singoli oratori e poi ripresi nella tavola rotonda e nel dibattito – si è spaziato dall’identità latinoamericana all’incremento di traduzioni e pubblicazioni di opere provenienti dal subcontinente, confermato dalle statistiche e dai grafici forniti da Tedeschi, alle difficoltà che incontrano gli editori che hanno deciso di dedicargli il loro catalogo o una parte importante delle loro pubblicazioni –, crediamo utile pubblicare l’intervento iniziale di Gabriele Bizzarri, che ringraziamo.
Raul Schenardi
La “stravagante confraternita” dei nuovi scrittori latinoamericani
di Gabriele Bizzarri
La letteratura ispanoamericana contemporanea, dopo aver proiettato, nella seconda metà del secolo scorso, un’immagine di sé particolarmente omogenea, nitida e persistente, sembra vivere attualmente un’epoca di frantumazioni e sfilacciamenti, la cui scomposta vitalità tende a sfuggire ai tentativi di sistematizzazione, nonché sembra condannata ad un ruolo vicario, a risuonare a mezza voce, balbettante e discorde, dinanzi al ricordo robusto della generazione anteriore.
Approfittando della convergenza che questa giornata di studi opportunamente propone tra studiosi ispanoamericanisti, editori, promotori culturali e traduttori, proverò a tracciare un plausibile percorso di orientamento all’interno di quella che, a prima vista, rischia di assomigliare ad un’anonima nebulosa di testi, dotata di un tasso piuttosto basso di specificità culturale, con la speranza che possa contribuire, in dialogo con le altre voci qui presenti, alla costruzione dell’“immagine tradotta” dell’odierna America Latina delle lettere, le cui tracce diffuse si prestano a confondersi e disperdersi nel babelico idioletto comune di una scrittura oggigiorno sempre più tendente alla de-territorializzazione.
L’operazione risulta particolarmente scivolosa quando si prova a mettere le mani nelle sabbie mobili di un canone tutt’altro che stabile, ancora indeciso circa il riconoscimento della dominante intorno alla quale riconoscersi sistema e cominciare a far ruotare le sue variazioni. Quando poi, come nel caso della letteratura ispanoamericana degli ultimi vent’anni, in modo programmatico, molti scrittori riconoscono come unico polo magnetico del proprio operato la volontà di cancellare i segni della provenienza, respingendo l’eredità di quel poderoso corpus di narrazioni dell’identità periferica che a partire dagli anni ‘70 aveva creato il “caso” letterario “America latina”, giocando a sfumare la riconoscibilità localista delle loro voci, l’orientamento del lettore alla scoperta di un mondo Nuovissimo, che si dibatte incerto tra fantasmi irrisolti del discorso postcoloniale e velleità da global novel, sembra particolarmente delicato.
Se come segnala il volume coordinato di Francesco Fava Tradurre un continente, la sfida di chi “traduceva” la grande letteratura ispanoamericana del boom era quella di non addomesticare una differenza culturale promossa dai testi in modo disinibito e manifesto appiattendola o banalizzandola in figura dell’esotismo, oggigiorno si registra l’imbarazzo di allestire lo scaffale dedicato alla “letteratura ispanoamericana” attingendo da un repertorio di testi che ostentano, viceversa, i marchi dell’irrimediabile imbastardimento delle culture e delle tradizioni. Che cosa tradurre, trasferire, di un originale che, almeno apparentemente, rifiuta di parlare una lingua originale e mimetizza la propria provenienza? E come farlo? Forse è necessario rinunciare alle etichette e accettare di burlarsene come fa Roberto Bolaño quando ironizza sui ridicoli tentativi di critici ed editori di affiliare l’irriducibile distanza della prosa di Arcimboldi a parametri convenzionali. La voce del nuovo scrittore latinoamericano, come quella del mitico romanziere di 2666, può essere tranquillamente e impunemente scambiata per quella di uno scrittore africano, giapponese, ungherese, “hasta malayo”? O forse, correndo il rischio della mistificazione, è necessario orientare le scelte traduttive e le politiche editoriali rovistando oltre la superficie alla ricerca dei frammenti elusivi di un rinnovato discorso latinoamericano o latinoamericanista all’interno del panorama attuale?
Nel 2009, Jorge Volpi, uno scrittore “messicano che non sembra messicano”, vince il premio Casa de América per la saggistica con El insomnio de Bolívar, un testo che ruota intorno alla vertigine dell’inconsistenza del Continente, un patetico ologramma, un miraggio coltivato ad arte da letterati di un’altra era e accademici ispanoamericanisti, della cui preservazione le nuove leve non potrebbero far niente di meglio che disinteressarsi, svincolandosi dal peso di sostenere un’aspettativa che si declina sia come ansia dell’influenza rispetto al boom, sia come tributo al bisogno “orientalista” del mercato editoriale internazionale. Nello scenario postapocalittico che proviene dallo smantellamento “dell’agreste e poderoso territorio letterario che alcuni chiamano ancora America Latina”, Volpi individua e nomina tre tendenze intorno alle quali si attesterebbe la produzione della “stravagante confraternita” dei nuovi scrittori, accomunati appena dall’impellente necessità di fuggire dalla solitudine di Macondo e dal suo immaginario incestuoso. Alla destituzione delle due vacche sacre della generazione del boom (il realismo magico con il suo fervore indigenista, e l’impegno rivoluzionario, ormai nient’altro che una cartolina sbiadita da mercatino hippy), corrispondono percorsi di ricerca che cooperano all’impresa di decostruire il simulacro dell’identità latinoamericana, accettando i rischi della standardizzazione dell’esperienza. Sulle rovine dell’America di un tempo fioriscono allora: 1) un nuovo realismo urbano del tutto depoliticizzato che si concentra sulle vicende minime e private di una generazione disincantata che si muove incerta tra le macerie della globalizzazione; 2) un coacervo di narrazioni iperattivamente cosmopolite che rifiutano di parlare della Patria o anche soltanto di sceglierla come ambientazione o scenario dell’azione; ed infine, 3) un genere più consistente e riconoscibile in quanto tale, il romanzo del narcotraffico, che Volpi tratta come una nuova forma di esotismo, quasi un realismo magico di nuovo conio, in cui la spettacolarizzazione di una violenza tutta locale diventa maschera del sottosviluppo particolarmente adatta ad ottenere il brevetto del “latino doc” e, dunque, ad essere comodamente consumata dal mercato.
Per quanto riguarda le primi due tendenze, entrambe, a mio modo di vedere, sono figlie di un testo capitale, un vero punto di svolta per riflettere sul modo in cui la letteratura latinoamericana concettualizza il proprio ruolo nel dialogo culturale dell’attualità: mi riferisco, ovviamente all’antologia di racconti Mcondo, e alle ficcanti provocazioni del prologo-manifesto in cui Alberto Fuguet e Sergio Gómez fondano lo spazio immaginario della megalopoli latina, “sovrappopolata, inquinata e costellata da Mcdonald’s, computer McIntosh e mastodontici malls”, abdicando implicitamente alla responsabilità di una risposta culturale forte ad arginare l’invasione. L’operazione appare al contempo necessaria e problematica: se da un lato, in virtù dell’intertestualità implicita attivata dal titolo, si corregge l’immagine uniforme di un continente quintessenziato nel ricordo di un villaggio rurale e “folklorico”, dando visibilità letteraria all’altra America, “postmoderna, globalizzata, che si esprime fluentemente in inglese ed ha quotidianamente a che fare con i giocattoli e le diavolerie della cultura pop statunitense”, rendendo così giustizia all’intuizione di Néstor García Canclini che descrive il Continente come luogo della compresenza simultanea di temporalità parallele, dall’altro, si risponde ad una visione essenzialista e parziale con una reductio ad essentiam di segno uguale e contrario che, come nota Diana Palaversich, cancella con un atto di giustizia massimalista la presenza ancora maggioritaria, di un Macondo povero, indigeno, sottosviluppato, divulgando il miraggio, svergognatamente politicizzato in senso neoliberale, di un’America capace di viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda del “vecino del norte”.
Per tutte queste ragioni, nel bene e nel male, la mancata traduzione in Italia dell’antologia rappresenta un mistero ed una lacuna che andrebbe colmata. Tra l’altro, come dicevo, un oculato posizionamento editoriale giustificherebbe la presenza nei cataloghi di una serie diversissima di testi, ne orienterebbe la lettura inserendola in un opportuno contesto di riflessione. Afferirebbero ad una genealogia mcondista non solo le narrative urbane degli scrittori apparsi nell’antologia del ‘96, dallo stesso Fuguet (pubblicato da La Nuova Frontiera e Marcos y Marcos) a Santiago Gamboa (massicciamente presente nei cataloghi Guanda ed e/o), ma anche il nichilismo del realismo sucio messicano (Guillermo Fadanelli per Marco Tropea), e le inconsistenti peregrinazioni dei giovani neoliberali per le strade della megalopoli latina s’incrocerebbero con le fughe cosmopolite di scrittori d’ispirazione assai diversa, e assai più robusta, come lo stesso Jorge Volpi, David Toscana, Ignacio Padilla o Andrés Neuman che, stanchi dell’uniformità standardizzata di Mcondo almeno quanto delle convenzioni pittoresche di Macondo, decidono di ristorare il loro immaginario in scenari mirabilmente lontani nel tempo e nello spazio dall’America latina contemporanea, sognando la storia europea e le sue intatte profondità.
A mio avviso, il segno più interessante ed esteticamente godibile dell’intera esperienza Mcondo è da ricercarsi nell’opera, pur diversissima, di Edmundo Paz Soldán e Rodrigo Fresán che, negli anni, hanno sviluppato un’opera giocosamente postmoderna, intertestuale e metaletteraria che, in entrambi i casi, rende al meglio giustizia al segno culturale dell’antologia avendo il coraggio di tematizzare esplicitamente l’irrisolto legame con i modelli letterari del boom e le grandi narrazioni dell’identità locale, di cui nei loro testi si ripropone il segno, come virgolettato, equidistante tra parodia e nostalgia (di Fresán Mondadori e Einaudi, hanno pubblicato, rispettivamente, I giardini di Kensington e Esperanto, ma entrambi risultano fuori catalogo. Di Paz Soldán, presso Fazi, sono usciti sia La materia del desiderio che, quest’anno, Río fugitivo).
Ragionando sulla narconovela e sulla sua presenza piuttosto massiva, o forse soltanto più concreta perché più facilmente individuabile, nei percorsi odierni di diffusione della letteratura latinoamericana in Italia, non si può fare a meno di sottoscrivere l’impressione di Volpi, soprattutto in considerazione dell’evidente supporto ad effetto trainante che garantisce a questo genere il rimbalzare massmediatico di notizie di cronaca dalle regioni calde del conflitto, che rischia di favorire un automatismo di riconoscibilità, ingolfando pericolosamente lo spazio di rappresentazione dello specifico latinoamericano con il riflesso (condizionato) di una porzione, per altro particolarmente degradante, di un vissuto assai più complesso e articolato. C’è però da dire che il fantasma della serialità e del luogo comune risulta in parte arginato dalla natura sperimentale di buona parte della scrittura dei narconovelistas, che tendono a maneggiare e ibridare in modo non ingenuo convenzioni diverse come quelle del poliziesco (Elmer Mendoza, tradotto in Italia da La Nuova Frontiera), del romanzo storico (Juan Gabriel Vázquez, per Feltrinelli) o il fantastico millenarista da feuilleton nel caso di Mario Mendoza (Satana, Einaudi). Tra l’altro, lo spostamento del polo di gravitazione del fenomeno narcos dalla Colombia al Messico si è rivelato particolarmente felice dal punto di vista letterario, favorendo l’esplorazione della Frontiera che, attualmente, via Roberto Bolaño, sembra aver sostituito la selva come luogo di concentrazione simbolica, hot spot, della riflessione sull’identità culturale, sostituendo all’idea della solitudine, dell’insondabile distanza, quella di un problematico contatto tra nord e sud del mondo, di cui la trilogia narrativa di Yuri Herrera si erge ad ambiguo monumento (i primi due romanzi sono usciti per i tipi de La nuova Frontiera, mentre l’ultimo per Feltrinelli).
Rimane adesso da riflettere su un gruppo di testi visibilmente eccentrici, esclusi dalla tripartizione di Volpi, intorno ai quali proverò a costruire una tipologia che, a mio modo di vedere, è anche quella più sostanziale ed interessante per tastare il polso della ricerca letteraria ispanoamericana attuale. Si tratta di una serie di opere che, lontane sia dall’ansia di sprovincializzazione delle genealogie mcondiste che dal nuovo specchietto per le allodole del riconoscimento identitario offerto dall’equivalenza America Latina = narcotraffico, si attesta sulla messa a punto di un nuovo sperimentale linguaggio per articolare la categoria della diversità culturale, lontano dai rischi dei miti collettivi e degli affreschi agglutinanti.
Mi riferisco ad un nutrito “corpus deforme” di narrazioni che, scavalcando il postmoderno nella rivendicazione di un’eredità d’avanguardia, posizionano strategicamente al centro della rappresentazione un delirante catalogo di deviazioni, devianze, aberrazioni e abiezioni, svisamenti inquietanti dalle norme della convivenza civile e dell’accettabilità naturale, attraverso il quale si propone il riscatto dell’eccezione, della scoria, del detrito simbolico, a minacciare la fotogenica e ordinata trasparenza della città neoliberale, a questionare e decostruire l’assimilazione indebita dell’America latina agli standard del sistema impero, preservando la sua eccentricità come un potenziale esplosivo.
L’intenzione profonda di questi testi sembra essere apertamente politica e, Dio ce ne scampi, addirittura pare tornare a lavorare per via metaforica con il logoro luogo comune dell’identità periferica, adesso associata ad un segno individualizzante, una bolla vittimaria di esclusione dal grande miraggio della globalizzazione, di cui ci si appropria come gesto di resistenza e rifiuto. L’impressione di trovarci di fronte ad una serie di proposte identitarie di nuovo conio che, senza azzardarsi a formulare esplicitamente scivolose definizioni collettive e puntando piuttosto i riflettori su gruppi marginali, arie settoriali di dissidenza o, addirittura, singoli individui alle prese con le loro irripetibili anomalie, propone una rinegoziazione problematica dei rapporti di forze, solo apparentemente pacificati, che legano l’America latina al resto del mondo, diventa certezza nelle opere della scrittrice cilena Diamela Eltit, di cui la casa editrice Atmosfere ha recentemente pubblicato il romanzo Imposto alla carne, mentre il resto del suo catalogo resta, per adesso, invisibile in Italia. La sua opera prima s’intitola emblematicamente Lumpérica: il neologismo, che proviene dal collasso della parola lumpen (che significa straccione, persona appartenente al sottoproletariato) sulla parola America, iscrive nell’identità collettiva del continente il segno di una vocazione alla marginalità che è anche rivendicazione di un’inafferrabilità libertaria, resistente ad ogni tentativo di mappatura e controllo, e orienta il significato della performance della protagonista, una mendicante che, di notte, esibisce la sua diversità in una delle piazze centrali di Santiago, illuminata dai neon colorati delle pubblicità dei prodotti commerciali dell’impero. La riflessione di Diamela Eltit sulla marginalità, esplorata in tutte le sue forme, dalla schizofrenia alla prostituzione, culmina ne El cuarto mundo, il cui titolo pare invitare il lettore della globalizzazione alla scioccante scoperta di una nuova America che si erge a frontiera di uno straniamento quanto mai necessario, dando un nome particolarmente connotato alla cronaca di un parto deforme e mostruoso, dinanzi al quale non è forse illecito dissotterrare il fantasma dell’ultimo dei Buendía.
Pedro Lemebel, anche lui cileno, morto a febbraio di quest’anno, presente in Italia nel catalogo di Marcos y Marcos con il romanzo camp dal sapore puigiano Ho paura torero e con il volume antologico Baciami ancora forestiero è in realtà l’autore di un’opera chiave per la comprensione di questi meccanismi: in Loco afán. Crónica del sidario, Lemebel costruisce l’immagine sconvolgente di una periferia di trasgressioni innominabili alle norme della cittadinanza standard, e la colloca al centro della sua ricognizione cronachistica della città latinoamericana, che risulta trasfigurata dall’operazione, trasformata in un covo di resistenza alla réclame dell’uniformità neoliberale: rovistando tra i rifiuti, la sua prosa vertiginosa e barocca svela il volto meno fotogenico di Santiago, un lazzaretto e un indecoroso postribolo della sessualità invertita in cui campeggiano orgogliosamente i corpi infettati dall’aids delle prostitute travestite del sottoproletariato.
La malattia sembra costituire un territorio d’indagine particolarmente propizio per sondare le nuove frontiere della diversità e mostrare, in controluce, la violenza diffusa e sistematica delle istanze di normalizzazione e di “cura” che provengono da istituzioni di controllo sempre più invisibili, sempre meno leggibili come tali. In un magnifico racconto di Diamela Eltit, due pazienti terminali diventano le vittime della missione di salvezza della Medicina, che allestisce intorno a loro un’inquietante congiura di discorsi analitici, farmaci e apparecchi di misurazione che assomiglia ad un martirio: il titolo del racconto è Las colonizadas. Frequentano ossessivamente quest’ambito anche Lina Meruane, di cui la Nuova Frontiera ha da poco pubblicato il romanzo Sangue negli occhi e che, oltre allo splendido, ancora inedito in Italia, Fruta podrida, ha anche al suo attivo un saggio di grande densità culturale dedicato al discorso della malattia nella letteratura ispanoamericana contemporanea (Viajes virales). Ed infine, uno degli scrittori più interessanti della nuova generazione, Mario Bellatin, che in Salón de belleza consegna alla pagina letteraria il diario dell’ambiguo gestore di un centro estetico che, improvvisamente, si trasforma in hospice per pazienti terminali e in cui si stabilisce un regime decadente che trasgredisce tutte le indicazioni della biopolitica, sfumando fino a renderle irriconoscibili le categorie di normalità e devianza, di salute e malattia. Il testo è stato puntualmente tradotto per i tipi de La Nuova Frontiera. Ma davvero varrebbe la pena di inspessire la consistenza del corpo tradotto di questo autore, anche in considerazione del fatto che la sua opera vive come un organismo unitario che respira all’unisono e i cui frammentari tessuti tendono a dialogare illuminandosi a vicenda. La perla assoluta del suo catalogo, a mio avviso, è il romanzo breve Flores, in cui attraverso una serie di variazioni sul tema della deformità del corpo (a cui vengono associate indicibili perversioni morali, sottili crudeltà e pratiche sessuali raffinatamente abiette), si allestisce un florilegio di elegantissimi mostri che costituisce la perfetta mise en abyme del gruppo di testi su cui stiamo ragionando, che lavorano in modo esperto con le più diverse categorie dello straniamento. L’epigrafe che incornicia il giardino deviante recita così:
Ricordo quando mi recai da un anziano e stimato medico omeopata. Mi ci portò mio padre quando ero ancora un bambino. A quel tempo usavo già una mano ortopedica. Il medico la afferrò per controllarmi il polso. Io ero così intimorito che non feci nulla per farlo ravvedere dal suo errore. L’eccellente dottore attanagliò con forza il polso di plastica. Nonostante ciò non mi diede mai per morto. Al contrario, mentre contava quelle che avrebbero dovuto essere le mie pulsazioni, dettava a voce alta alla sua assistente la ricetta che avrebbe curato tutti i miei mali.
Dal diario del premio Nobel per la Fisica, 1960
Iscrivendo ironicamente nel testo il segno autobiografico della propria identità problematica e scomposta (Bellatin nasce privo del braccio destro), l’autore offre all’auscultazione scientifica del Medico, alla valutazione uniformante dell’analista culturale, uno spazio di diversità maliziosamente resistente a ogni forma di colonizzazione.
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