È molto comune, in certi contesti, leggere ad alta voce per altre persone. Farlo per sé stessi, invece, è una pratica decisamente poco diffusa, nonostante possa portare diversi benefici e non poche scoperte. L’articolo, uscito originariamente su Letras Libres, viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore. Buona lettura!
di Cristian Vázquez
traduzione di Lidia Donat
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L’aneddoto raccontato da Sant’Agostino nelle sue Confessioni, in cui descrive la sorpresa che a quel tempo (la fine del IV secolo) suscitava veder leggere silenziosamente Ambrogio, vescovo di Milano, è ben noto/molto famoso. «Quando leggeva, l’occhio correva lungo le pagine e l’intelletto scrutava il significato delle parole, ma voce e lingua stavano a riposo». È chiaro che si trattava di una bella novità. Il lettore veniva contagiato dal suo silenzio perché «chi avrebbe osato disturbare tale raccoglimento?», dice Agostino. «Poi ce ne andavamo», aggiunge, «pensando che, in quei pochi momenti dedicati allo studio e liberi dal tumulto degli affari altrui, egli non volesse essere richiamato ad altro».
Oltre a descrivere la concentrazione di quell’uomo, Agostino si interroga sulle sue ragioni:
Forse […] voleva evitare (leggendo così) che qualche ascoltatore attento e interessato davanti a passi alquanto oscuri lo ponesse nella necessità di spiegarglieli o di entrare in discussioni su punti difficili; il tempo impiegato in questo compito sarebbe andato a scapito dei libri che si era proposto di leggere; però un motivo ragionevole di questa tacita lettura poteva essere quello di risparmiare la voce che molto facilmente gli si affiochiva. Del resto, qualunque ne fosse la causa, non poteva che essere buona in tal uomo. [1]
Ai giorni nostri, più di sedici secoli dopo, sembra strano il contrario: vedere qualcuno che legge per sé stesso ad alta voce. Talvolta è una pratica legata a una ridotta capacità di lettura. Quando una persona sta imparando a leggere (o sta imparando un’altra lingua), pronuncia con fatica i suoni che – lo ha appena scoperto – corrispondono alle lettere che adesso vede scritte, un po’ come chi esegue i passaggi di un trucco di magia ignorandone però l’effetto finale, si stupisce che tale successione di suoni abbia dato luogo a una parola che conosce.
Ma se le persone sanno già leggere, ha senso che leggano ad alta voce per sé stesse? Forse sì. Come Sant’Agostino, chiediamoci perché.
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Secondo alcuni studi scientifici leggere ad alta voce è un esercizio migliore, per il cervello, che leggere in silenzio. È quanto assicurano i ricercatori giapponesi che, una quindicina d’anni fa, hanno elaborato la cosiddetta terapia dell’apprendimento. Secondo loro la lettura ad alta voce, insieme alla risoluzione di semplici operazioni aritmetiche, porterebbe numerosi benefici alla salute mentale degli anziani, poiché il cervello lavora in maniera differente quando leggiamo pronunciando le parole rispetto a quando lo facciamo in silenzio. La lettura ad alta voce comporta una maggior attivazione di entrambi gli emisferi cerebrali, e tale scoperta – sul lungo periodo – potrebbe essere fondamentale per capire l’apprendimento dei bambini che hanno problemi a leggere e a scrivere.
Tuttavia, studi successivi condotti da neurologi italiani hanno dimostrato che per il cervello leggere ad alta voce o leggere in silenzio è la stessa cosa. È probabile che la scienza abbia ancora molto da analizzare e da scoprire su questo tema.
Per quel che mi riguarda, comunque, la lettura ad alta voce mi aiuta a mantenere la concentrazione quando intorno c’è troppo rumore. Per esempio sui mezzi pubblici, nelle sale d’aspetto e in tutti gli altri luoghi in cui abbiamo a disposizione il bene più prezioso per la lettura, il tempo, ma le condizioni sono lungi dall’essere ideali. In simili casi cerco di immergermi nel testo pronunciandone le parole. Piano, ovviamente, solo per me. Talvolta mi domando se chi mi circonda mi guardi con la tenerezza con cui si osserva qualcuno che sta imparando a leggere o con la perplessità con cui Agostino scrutava il suo amico Ambrogio.
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Vi è un tipo particolare di lettura ad alta voce: quella che facciamo dei nostri testi. Si tratta, in questo caso, di uno strumento efficacissimo per la correzione, dato che i suoni permettono di individuare difetti come le allitterazioni, le rime involontarie, le cacofonie, le frasi troppo lunghe e l’eccesso di subordinate. Aiuta anche a confermare la naturalezza dei dialoghi e, in generale, a farsi un’idea molto più chiara del ritmo della narrazione. Leggere il proprio testo ad alta voce è quasi come ascoltarlo letto da qualcun altro. È quasi come entrare in un testo sconosciuto.
Uno dei primi racconti di Flannery O’Connor si intitola «Il raccolto». La geniale scrittrice statunitense lo scrisse quando aveva vent’anni. Narra la storia di una donna che si siede a scrivere un racconto. In un passaggio dice:
La signorina Willerton era una grande sostenitrice di quella che chiamava «arte fonetica». Affermava che l’orecchio sapeva leggere quanto l’occhio. Le piaceva esprimersi in quel modo. «L’occhio forma un’immagine», aveva detto a un gruppo di ascoltatrici della United Daughters of the Colonies, «che può esser dipinta in astratto, e il successo di un progetto letterario» (la signorina Willerton adorava quell’espressione, «progetto letterario») «dipende dall’astrazione che crea nella mente e dalla qualità tonale» (la signorina Willerton adorava anche l’espressione «qualità tonale») «che l’orecchio registra». [2]
La scrittrice argentina Tatiana Goransky porta questo precetto dell’«arte fonetica» quasi all’estremo (e dico «quasi» perché non so quale sia l’estremo). Di recente, in un’intervista, mi ha raccontato che, mentre lavorava a un romanzo, le sue sessioni di scrittura cominciavano con un esercizio: leggere ad alta voce tutto quello che aveva scritto fino a quel momento. Tutto. Dalla prima pagina. Il che è dovuto senza dubbio al fatto che Goransky si occupa, oltre che di scrittura, anche di musica: è una cantante jazz.
«Per me cantare e scrivere sono maniere diverse di raccontare una storia», spiega. «E per questo scrivo in maniera molto musicale. Lavoro sui testi come fossero spartiti. Leggo più volte ad alta voce tutto il testo, e a mano a mano controllo la cadenza e il ritmo. Se qualcosa non funziona, ci torno sopra e la riscrivo. Ad alta voce: bisogna leggere un testo quasi come se fosse uno spartito musicale. Da quando ho cominciato a fare così, la correzione dei miei testi si è rivelata molto più facile. Inoltre, la rilettura ad alta voce crea una distanza con il testo e ti fa scoprire cose nuove. È un po’ la stessa cosa che succede con le persone che amiamo o vediamo molto spesso. Abbiamo una sorta di immagine mentale dell’altro, e mi sembra importante non accontentarsi di questa immagine fissa, perché le persone cambiano. E anche i testi».
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Tutto ciò porta inevitabilmente a una domanda: se la musicalità dei testi è così importante, se lo sono la cadenza e il tempo, il ritmo, le armonie e la melodia, e se per prestare attenzione a tutte queste cose gli autori devono leggere ad alta voce, non dovremmo leggere sempre ad alta voce? Leggendo in silenzio, come quel vescovo di Milano, non staremo trascurando un aspetto essenziale della letteratura? Ciò è più evidente nella poesia, dove la musicalità e i suoi correlati sono essenziali. La poesia, ne sono convinto, non si può non leggere ad alta voce. E la prosa?
Un amico ricorda un fatto banale che per lui fu una scoperta e una sorta di rivelazione allo stesso tempo: il passaggio del racconto «La lotteria a Babilonia», di Borges, dove si dice che «c’era una latrina segreta chiamata Qaphqa», lo aveva dovuto leggere ad alta voce per capire l’allusione. L’orecchio sa leggere quanto l’occhio, ha scritto Flannery O’Connor a vent’anni, ma talvolta fa addirittura meglio: l’orecchio è molto più perspicace dell’occhio nel rendersi conto che Qaphqa è un modo diverso per dire Kafka. Chissà quante altre scoperte ci aspettano in testi che abbiamo percorso con gli occhi, ma la cui qualità tonale continua a rimanere un autentico segreto.
© Cristian Vázquez, 2019. Tutti i diritti riservati.
[1] Sant’Agostino, Confessioni, Rizzoli, Milano 1994, p. 158, trad. di Carlo Vitali [n.d.t.].
[2] Flannery O’Connor, Tutti i racconti, Bompiani, Milano 2015, pp. 40-41, trad. di Marisa Caramella e Ida Omboni [n.d.t].
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