Pubblichiamo oggi la quinta e ultima parte del lungo saggio di Francesco Varanini su José Lezama Lima e il “barocco americano”. Le parti precedenti si possono leggere qui.
Ondate in successione / 5
di Francesco Varanini
Il 16 gennaio 1957 presso Centro de Altos Estudios del Instituto Nacional de Cultura, all’Avana, Lezama apre il ciclo di conferenze dedicate alla Expresión americana. Immaginiamo il silenzio nella sala. La voce inconfondibile, rasposa per la consuetudine con i sigari, segnata da pause asmatiche, inizia ad affabulare: «Sólo lo difícil es estimulante». Poi, a conferma dell’affermazione, si immerge en lo difícil.
«Sólo lo difícil es estimulante; sólo la resistencia que nos reta es capaz de enarcar, suscitar y mantener nuestra potencia de conocimiento, pero, en realidad, ¿qué es lo difícil? ¿lo sumergido, tan sólo, en las maternales aguas de lo oscuro? ¿lo originario sin causalidad, antítesis o logos? Es la forma en devenir en que un paisaje va hacia un sentido, una interpretación o una sencilla hermenéutica, para ir después hacia su reconstrucción, que es en definitiva lo que marca su eficacia o desuso, su fuerza ordenancista o su apagado eco, que es su visión histórica».
Al momento, non siamo in grado di seguirlo. La consapevole accettazione de lo difícil impone di affrontare la resistencia. Nel momento in cui il poeta inizia a parlare il discorso non può che essere oscuro, non può essere chiaro a chi ascolta, perché non è chiaro neanche a Lezama che parla. Lezama riparte dall’origine, ci mostra lo svolgersi e l’articolarsi del suo pensiero. L’autore stesso sta osservando il tema, parlando si propone si sgarbugliare la matassa.
La parola può essere intesa solo soffermandosi su di essa, aspettando che la voce, aggiungendo al suo discorrere un’altra ondata, un’altra immagine, ci chiarisca l’oscurità, illumini di nuova luce il paesaggio.
Il luogo di maggiore densità, di maggiore originalità del testo sta, credo, nella seconda conferenza, dettata il 18 gennaio: La curiosidad barroca.
Dove sta il barocco? C’è un barocco freddo e un barocco bollente. Ci sono «los ejercicios loyolistas»; c’é «la pintura de Rembrandt y el Greco, las fiestas de Rubens»; «la matemática de Leibniz»; «la ética de Spinoza».
Fin al punto, commenta Lezama, che «algún crítico excediéndose en la generalización afirmaba que la tierra era clásica y el mar barroco». Col che, aggiunge ironico, si arriva al massimo dell’arroganza, dato che sono barocchi i galeoni ispanici che «recorren un mar teñido por una tinta igualmente barroca».
A Lezama, in fondo, non interessa il barocco in sé. Interessa il barocco in quanto culla dell’espressione americana.
Da poeta, da artista della parola, certo, interessa a Lezama chiedersi come la lingua spagnola, messa alla prova da nuove immagini, da un nuovo paesaggio, rinasce in America.
Ma subito, allargando lo sguardo, ci propone un salto logico. La lingua si sposa indissolubilmente con il tema e con la scena. E dunque la lingua non è che un’articolazione di una cultura. Di cultura in senso lato Lezama parla quando afferma la sua visione de lo americano come superamento de lo europeo. Se in Europa il barocco finisce per essere la forma espressiva della Controriforma, dunque, «podemos decir que entre nosotros el barroco fue un arte de la contraconquista». «Adquisiciones de lenguaje», certo, ma anche «nuevos módulos para la plegaria», nuove forme di religiosità; «muebles para la vivienda», mobili per la casa; «maneras del saboreo y del tratamiento de los manjares», arte culinaria.
Lezama ci propone così l’immagine del Señor Barroco. Le durezze della Conquista sono ormai lontane, il Signor Barroco – il possidente terriero, il canonico – criollo, nativo americano, vive con holgura, desahogo e bienestar, godendo della propria sete di conoscenza, e al contempo della propria erudizione. Porta con sé tutta la cultura europea, ma per riviverla senza angustie nel Nuovo Mondo, avendo sotto gli occhi un nuovo paesaggio, gustando nuovi cibi.
Poi, Lezama si addentra nel terreno dell’arte. Non trascura i grandi geni letterari – l’Inca Garcilaso, Don Carlos de Siguenza y Góngora, Sor Juana Inés de la Cruz. Ma poi, sorprendentemente – e raggiungendo per questa via il cuore della sua riflessione sul barocco –, lasciando da parte gli artisti della parola, ci propone le figure di due artigiani, di due artisti della pietra.
Nella «masa pétrea», nella massa pietrosa degli edifici della Compagnia di Gesù, l’indio Kondori, di cultura quechua, riesce ad inserire simboli incaici del sole e della luna rappresentati con «poderosa abstracción», ma anche animali, piante, studiati dal vivo, «con delicadeza y alucinada continuidad». [José Kondori, scultore e forse anche architetto, autodidatta, originario de Mojos (Bolivia). La sua figura storica è scarsamente documentata. La sua fama è specialmente legata al Portale della chiesa di San Lorenzo, a Potosí (1728-1744)]. Kondori mischia i retaggi dell’America precolombiana con i retaggi della cultura europea, la natura e la cultura, simboli e vita quotidiana. Sirene, ma anche l’indio che suona la chitarra. «La hoja americana con la trifolia griega, la semiluna incaica con los acantos de los capiteles corintios, el son de los charangos con los instrumentos dóricos y las renacentistas violas de gamba».
«Poderosa abstracción», «opulenta energía». Lezama sta descrivendo la cattedrale di San Lorenzo, a Potosí – gran centro minerario, nel 1600 la più grande città delle Americhe dopo Città del Messico. Non a caso el Quijote giustappone «el tesoro de Venecia» e «las minas del Potosí», simboli delle ricchezze dei due mondi. E lo stesso è ribadito da Góngora, nella Toma de Larache: «De cuanta Potosí tributa hoy plata».
Lezama ci invita a figurarci lo sconcerto, «en adivinar la reacción» dei padri gesuiti di fronte al portale scolpito da Kondori. I gesuiti cercavano con le loro cattedrali la più pura «expresión de la piedra», e Kondori impone loro questo gioco estremo «de ornamentos y volutas». E Lezama, ancora, ci fa osservare come Kondori si tiene lontano dal pomposo, dall’enfatico. «Grandes ángeles cuyos rostros de indios reflejan la desolación»: nei volti dei grandi angeli dai tratti somatici amerindi si coglie il riflesso della desolazione «de la explotación minera»: indios eredi della tradizione incaica, ma anche manodopera abbruttita dal lavoro in miniera.
Siamo ora qualche migliaio di chilometri più a est: se Potosí, il gran centro produttivo del Virreinato del Perú, è la capitale spagnola dell’argento, Ouro Preto («oro nero») è, nell’Impero Portoghese, la capitale dell’oro. Qui ciò che Kondori ci aveva mostrato, lo ritroviamo portato al culmine, al «triunfo prodigioso».
L’Aleijadinho «llega como el espíritu del mal, que conducido por el ángel, obra en la gracia». Nascosto alla vista da un mantello e da un cappello dall’ampia ala, fantasmal, spettrale, oscuro, si muove nella notte in groppa al suo mulo. Ossessionato dal bisogno di occultare il corpo deforme – in portoghese aleijado è «storpio» –, ma ossessionato anche dal bisogno di dar forma alla pietra. Sotto i colpi febbrili del suo scalpello la materia prende forma, e immagini vengono alla luce nel buio. Chiesa dopo chiesa, «inmensas pilas bautismales» ornate con foglie spiraliformi, che ascendono in angeli grassocci, «púlpitos laberínticos» per imprigionare lo Spirito Santo. La sua allucinazione sembra voler colmare la città. Lui stesso è, potremmo dire «el misterio generatriz de la ciudad».
Sua madre è una negra, schiava, suo padre un architetto portoghese. Anch’egli è architetto, oltre che scultore. Quando è già uomo maturo, «el destino lo engrandece con una lepra». La lebbra lo porta a rompere con la vita galante e tumultuosa, a nascondere il proprio aspetto deturpato, a dedicarsi anima e corpo al lavoro di dar vita alla pietra. [Antônio Francisco Lisbôa (1738-1814), grande architetto e scultore, è più conosciuto come el Aleijadinho.]
Così come l’arte dell’indio Kondori rappresenta, «en forma oculta y hierática», la sintesi del español e dell’indio, l’arte dell’Aleijadinho rappresenta «la unión en una forma grandiosa de lo hispánico con las culturas africanas». Come l’indio Kondori rappresenta la «rebelión incaica», l’Aleijadinho simboleggia la «rebelión artística del negro».
A loro – a Kondori e all’Aleijadinho – dobbiamo «la gran hazaña del barroco americano», le grandi gesta, le memorabili imprese del barocco americano. Il barocco – che è la forma che prende forma, «sucesión de oleaje», rayo, sguardo che illumina il mondo in un nuovo paesaggio –, il barocco americano, è nuovissimo frutto mestizo: Kondori e l’Aleijadinho, culture amerindie e culture africane. La Villa Rica de Potosí, perla dell’impero spagnolo, e Ouro Preto, vanto lusitano, rappresentano la colonia europea che si trasforma in novità americana.
Ma non basta: Lezama ci obbliga a soffermarci ancora sui due scultori. Perché nessuno meglio di loro può parlarci di un barocco che è «prender forma». Non a caso sia Kondori che l’Aleijadinho lavorano una pietra blanda, pietra che è, appena estratta dalla cava, tenera. La destrezza dei grandi artigiani è portata all’estremo dalla qualità del materiale: la pietra tenera esige gesti leggeri, Kondori e l’Aleijadihno lavorano come intagliando legno, o modellando creta.
Immaginiamo i due artisti lavorare «entre sueños». La piedra morbida, ben diversa dalla roca – roccia, fissa matera di contrasto, fondo di immobilità – sprigiona immagini. Non roca, ma rosca, spirale dei possibili sensi. Nella expresión americana ciò che conta è la «forma en devenir». Poesia allo stato nascente, essenza mitopoietica, creazione allo stato puro. L’artista cerca l’assoluta libertà, e per questo vince la resistenza del materiale.
Ma – sempre successione di ondate – Lezama ha ancora altro da aggiungere, altri motivi per considerare l’arte del Aleijadinho «la culminación del barroco americano».
Avevamo vista Góngora incapace di vivere nella notte, incapace di andare fino in fondo, la sfida de lo difícil. E al contempo San Juan de la Cruz immerso «en las maternales aguas de lo oscuro», ridotto ad intendere la notte come protezione, fuga dal mondo, incapace di illuminare le tenebre.
Ed ecco ora, invece, l’Aleijadinho: «vive en la noche», desiderando di non essere visto. Arriva in segreto, con il suo mulo, dopo il crepuscolo, a rendere viva, con la sua arte americana, la «piedra hispánica». Arriva come spirito del male, ma guidato dall’angelo opera nella grazia. «Son las chispas de la rebelión, que surgidas de la gran lepra creadora del barroco nuestro, está nutrida, ya en su pureza, por las bocanadas del verídico bosque americano». Sono scintille della ribellione, che sorta dalla gran lebbra creatrice del barocco nostro, è nutrita, nella sua purezza, dal soffio di vento del bosco americano.
Ecco la «prova decisiva»: quando un «esforzado de la forma» riceve in eredità lo stile di una grande tradizione, «lejos de amenguarlo», lo restituisce accresciuto. Di nuovo, parlando di Kondori e dell’Aleijadinho, Lezama parla di sé.
Primi giorni di ottobre, 1936. María Zambrano, filosofa spagnola già nota, trentaduenne, in viaggio sulla Santa Rita, una nave che trasporta frutta, diretta verso il Cile. «Y en la inmensidad apareció, con la fragancia con que todo lo real debería aparecer, naciente da la inmensidad marina, la ciudad de la Habana; y como todo lo verdaderamente real, lo hizo al modo de una respuesta. Como un cumplimiento que actualizara una larga expectativa». Poche ore dopo, María è seduta a tavola. Al suo fianco siede un giovane dagli occhi intensi. È Lezama a ventisei anni: poeta in pectore, non ha ancora pubblicato un verso. Iniziano a conversare di poesia e di filosofia. «El destino se había presentado irrevocable». «Todo sucedió con naturalidad, con esa ligereza con que lo real viene a nuestro encuentro». Lezama, con il suo linguaggio immaginifico, preferisce dire: azar concurrente, caso coincidente. Come il caso, o destino, che fa incontrare Góngora e l’Inca Garcilaso a Córdoba, Cervantes e Mateo Alemán in carcere.
Tre anni dopo – vissuta in patria la drammatica vicenda della guerra civile – María è di nuovo all’Avana. E questa volta per fermarsi. L’inquietudine e le vicende personali la portano a viaggiare in Messico e a Puerto Rico. Ma la sua città è l’Avana, il luogo più segreto della Cuba secreta, dove vivrà fino a quando, nel 1953, si trasferisce a Roma.
L’8 novembre del 1953 è seduta vicino alla finestra, nella sua casa di Piazza del Popolo.
«Caro amico Lezama, credevi che non ti avrei scritto, o che la tua lettera fosse andata persa?»
Lezama le ha spedito la sua raccolta di saggi, Analecta del reloj (che comprende La sierpe de Don Luis de Góngora).
Leggendo i tuoi saggi tutti insieme, «este libro tuyo es luz y sombra», mi sono subito resa conto che «estaba gozandome en lo que tienes de teólogo». Mi sono resa conto che la tua poesia «anda persiguiendo a si misma, quiero decir su propia substancia – la eterna substancia de poesía de la cual fueron hechos los Dioses». E il tuo pensiero, in un cammino parallelo, «anda en busca de definiciones». La quarantennale conversazione epistolare tra i due amici resterà normalmente legata ad un formale usted – ma qui María non può trattenersi: è passata senza imbarazzo ad un intimo tu.
María non può far a meno di parlare di «eros intelectual», e non può fare a meno di chiamare in causa le reciproche biografie. «Così come mi sono vista ormai tanto tempo fa come una colomba che non ha altro che il proprio senso dell’orientamento», «te veo a ti ahora, te he visto hace un instante», «quando l’arancione del ponente incendiava i muri del Pincio, in questo modo»: «teologo, si ¡que feliz hubieras sido!»
Lezama risponde con lettera datata «Febrero y 1954». «El acto naciente, la separación del germen y el acto, en que forma la poesía y su sentido nos ayudan a pasar el muro…» E poi: «Le agradezco mucho su fina intuición, de verme como teólogo, pues en realidad cada día me acerco a la poesía con esa cualidad que usted sorprende en mí».
María, oppressa da dolorosi impegni familiari, torna a scrivere solo dopo un anno, il 5 febbraio 1955. «Solo due righe, perché non ce la faccio a star dietro a tutto, per chiederle di mandarmi presto due o tre poemi». Perché «la Boteghe Oscure, Revista muy importante que se publica en ingles, frances, italiano, va ahora a abrir una seccion en español».
Lezama risponde a stretto giro di posta, in quello stesso febbraio. Ora è lui a passare inopinatamente al tu, dichiarando il suo desiderio, la speranza di vedere di nuovo di persona María, e cioè il suo ritorno a Cuba – «háblame de tu regreso, por Dios». E allega, tornado all’usted, «los poemas que me pide, dos breves, y uno más extenso. Escoja Ud. entre esas naderías, si le satisfacen». In agosto, è di nuovo Lezama a farsi vivo. «Mi querida y buena amiga ¿Cómo la ha tratado este estío romano? Van pasando los día y va tomando cuerpo la nostalgia por volverla a ver, por sentirla de nuevo entre nosotros». E aggiunge; «¿Recibió los poemas que le envié?»
María risponde: «¿Cómo es posible que yo no le haya escrito agradeciéndole el envío de sus tres poemas? Si ha sido, perdóneme». E aggiunge che il numero della rivista, con il poema di Lezama (e anche con un suo saggio), è già in bozze.
Ma ecco la poesia emergere – come Lezama ben sa, come vuole che sia – da un dettaglio; dall’azar concurrente; dalla vivencia oblicua, esperienza obliqua; dalle excepciones morfológicas. María scrive a macchina. Scrive di fretta, a volte si scusa per non aver corretto errori. Lezama risponde a penna, con la sua scrittura minuta ed elegante, veloce, intimamente connessa al pensiero.
Lei scrive: «Yo le mandaré Botteghe oscure». E lui risponde: «No he recibido la Botella Oscura». Così, ogni volta, invariabilmente, Lezama reinventa. Eppure, è certo che la sua sapienza etimologica gli rendeva noto il senso dell’italiano bottega. Qui sta appunto il nucleo genetico della poesia di Lezama, del suo barocco originario. C’è della poesia, non un senso già dato, ma il moto ondoso del senso che sta costruendosi. L’immagine che appare nella mente, perla irregular, si sostituisce vantaggiosamente ad immagini più consuete.
Generazioni di filologi si sono accaniti sui testi di Lezama, salpicados di errori di ortografia, ricchi di citazioni approssimative, inesatte. Cintio Vitier si vanta di aver corretto, nell’edizione critica di Paradiso, ottocentonovantadue errori. Errori? La filologia di Vitier non solo non aggiunge nulla, ma toglie. Il volontario «errore» di Lezama – da botteghe oscure a botella oscura – ci illumina. È il rayo del poeta, ma un rayo americano, libero dalle pastoie che ingabbiavano Góngora.
Dove Vitier vede l’errore, vediamo il genio di Lezama. Che ci chiama a partecipare con lui alla fabbrica di immagini. La botella oscura, luogo europeo. L’Europa che non sa essere mondo nuovo. L’Europa rimasta sola «con su blancura y su abstracción», non sa attraversare le proprie tenebre. L’Europa cristiana, la Chiesa cattolica chiusa in se stessa. Un mondo fermo nella prospettiva di San Juan, l’Europa appagata da stanchi miti grecolatini, rivolta al passato. (E potremmo aggiungere, eco dietro eco, onda dopo onda: accanto al palazzo che dà il nome alla rivista, la sede del Partito Comunista Italiano…).
E la poesia è trasfigurazione, passaggio alchemico, trasmutazione della materia. Lo difícil, appunto.
Dalle tenebre alla luce, dall’Europa all’America, dalla «botella oscura» alla «piedra despidiendo imágenes», «piedra blanda y transparente», «cornucopia que prolifera en su regalía», frutti e pesci, «canasta estelar de la eternidad».
© Francesco Varanini. Tutti i diritti riservati.
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