Ogni settimana Ted Gioia legge e recensisce sul suo blog Conceptual Fiction un classico della letteratura horror. Pubblichiamo qui il suo saggio sul romanzo di Ira Levin Rosemary’s Baby; ringraziamo l’autore.
di Ted Gioia
traduzione di Tessa Bernardi
È raro che nei romanzi horror salti fuori il Diavolo con la D maiuscola, e vale lo stesso per i suoi demoni subalterni, gli angeli caduti menzionati in 2 Pietro 2:4 e in altri passaggi della Bibbia. A prima vista, può sembrare un’assenza bizzarra. Dopotutto, una porzione significativa della platea di lettori crede nel Diavolo, e molti di loro portano addirittura a testimonianza le proprie battaglie personali contro i suoi adescamenti e i suoi inganni. Non è quindi una fonte di terrore esistenziale assai più plausibile rispetto a lupi mannari, vampiri e zombie immaginari?
Eppure, proprio nel momento in cui il mondo occidentale assunse la forma di una società laica, nella narrativa horror accadde qualcosa di strano. La stessa epoca che ci offrì i film porno, il diritto al divorzio e quello all’aborto, vide anche Rosemary’s Baby e L’esorcista salire ai vertici delle classifiche di vendita. L’affluenza in chiesa poteva anche essere diminuita, e perfino quando la congregazione riempiva tutte le panche i sacerdoti non parlavano più di Lucifero come ai vecchi tempi. E tuttavia gli avvertimenti contro Satana diventarono di moda nei film e nelle sale.
Si potrebbe pensare che, nel 1967, il pubblico avesse superato il periodo della caccia alle streghe. In fin dei conti, l’ultimo processo per stregoneria a Salem aveva avuto luogo nel maggio del 1693. Quando Ira Levin pubblicò Rosemary’s Baby, il 12 marzo del 1967, la guerra in Vietnam stava infuriando, il programma Apollo stava facendo passi avanti verso l’allunaggio umano e (proprio nello stesso giorno) i Velvet Underground fecero uscire il loro primo album, con la banana di Andy Warhol in copertina. Nel bel mezzo di un mondo reale in pieno fermento, chi mai poteva interessarsi a Satana e a una congrega di streghe… soprattutto nell’Upper West Side di Manhattan. (Un opinionista in seguito fece una battuta: il fatto che il marito di Rosemary, un attore semisconosciuto, potesse permettersi un appartamento in quel quartiere di lusso, avrebbe dovuto essere «il primo indizio che era in combutta con il Diavolo».)
Tuttavia, Levin colpì nel segno. Rosemary’s Baby fu il romanzo dell’orrore più venduto del decennio e aprì la strada all’enorme successo cinematografico dell’anno seguente. L’orrore ottenne una risonanza inquietante un paio di mesi dopo l’uscita del film, quando il regista, Roman Polanski, iniziò la propria spirale discendente. Sharon Tate, la moglie di Polanski, un’attrice conosciuta per altri film horror che aveva recitato, non accreditata, una minuscola parte in Rosemary’s Baby, venne uccisa in uno dei crimini più cruenti e discussi del ventesimo secolo. E in seguito, il giorno prima del decimo anniversario della pubblicazione del libro, Polanski venne arrestato con l’accusa di molestie sessuali, iniziando così la sua battaglia infinita con le autorità giudiziarie. D’accordo, forse la storia che Rosemary’s Baby sia un film maledetto è un po’ esagerata, ma vorrei far notare, per quel che vale, che Mia Farrow, la protagonista del film, ha affrontato scandali e controversie legate ai propri «bambini», e che il Dakota, la location usata durante le riprese come appartamento dei protagonisti, è stato lo scenario dell’omicidio di John Lennon nel 1980 (proprio nello stesso punto in cui nel film una donna salta nel vuoto andando incontro alla propria morte). E ancora, Krzysztof Komeda, l’innovativo compositore che contribuì alla colonna sonora del film ed era un grande amico di Polanski, morì a causa delle ferite riportate durante una caduta alcuni mesi dopo l’assassinio di Sharon Tate. A quell’epoca aveva solo 38 anni, e le circostanze della sua prematura dipartita sono altrettanto torbide e controverse quanto la morte dopo una caduta nel romanzo di Levin.
La storia di Rosemary’s Baby trasudava una strana aura già prima di questi incidenti. Faceva parte del fascino che nel 1967 trasformò il libro in un best seller. Ma, prima che la storia di questo racconto fosse giunta al termine, arrivò a includere tutta una serie di altri elementi macabri, tanto che nell’elenco figurano molte delle personalità più tragiche, controverse o fuori di senno della seconda metà del ventesimo secolo: Charles Manson, John Lennon, Sharon Tate, Mark David Chapman, Roman Polanski, Mia Farrow, Woody Allen e molti altri.
Dato questo lascito complesso e inquietante, i lettori che si avvicinano per la prima volta al romanzo di Ira Levin potrebbero restare sorpresi dalla finezza e dalla lentezza narrativa di Rosemary’s Baby. Quasi ogni dettaglio terrificante all’interno del libro è presentato in modo indiretto. Il lettore – un po’ come Rosemary stessa – è obbligato a immaginare quali nefandezze stiano avvenendo dietro le quinte. Quasi tutto ciò che accade alla luce del sole pare innocente, quasi banale. Rosemary Woodhouse e suo marito Guy si sono trasferiti in un nuovo appartamento in un palazzo molto esclusivo. Lei era stata avvisata che il Bramford, nonostante la sua eleganza vecchio stile, aveva alle spalle una storia travagliata. C’erano stati crimini misteriosi che avevano visto coinvolti inquilini precedenti, e l’edificio era stato scenario di un numero spropositato di morti violente. Ma doveva trattarsi di semplici coincidenze, giusto?
Questo tipo di cornice piatta è la specialità di Levin. È il maestro dell’horror dall’apparenza blasé. Creò la ricetta giusta con Rosemary’s Baby e la seguì con altrettanta efficacia anche cinque anni dopo con La fabbrica delle mogli (1972). Nell’universo di Ira Levin, il male non arriva col giubbotto antiproiettile e le armi spianate. È banale e indistinguibile all’occhio dell’osservatore casuale. Vive dietro una facciata di normalità borghese. Il terrore, quando si palesa, giunge sotto forma di una presa di coscienza graduale. Questo lento crescendo crea una tensione inesorabile che le tradizionali fiere della paura – con fantasmi e ghoul che balzano fuori dagli angoli bui – non possono eguagliare. Si tratta dell’orrore del quotidiano, che in quanto tale è inevitabile. Non lo si può chiudere fuori, perché si è appena insediato in casa nostra.
Rosemary viene risucchiata nella vita dei vicini ficcanaso della porta accanto, Minnie e Roman Castevet. Sono due anziani irritabili, curiosi e impiccioni, ma non sembrano affatto pericolosi. E si dimostrano così comprensivi quando apprendono che Rosemary vuole mettere su famiglia. Esercitano perfino una certa influenza su uno stimato ostetrico, e si assicurano i suoi servizi a un prezzo molto inferiore rispetto alle tariffe usuali.
Forse Rosemary avrebbe dovuto notare i campanelli d’allarme, ma era così facile sottovalutarli: l’inspiegabile suicidio di una giovane donna che abitava dai vicini; gli strani rumori che provenivano dall’appartamento accanto; un sogno strano e convulso la notte in cui il bambino era stato concepito; le curiose istruzioni che le dà il nuovo medico. Un amico di famiglia cerca di metterla in guardia, ma un malore improvviso lo fa finire in coma. Alla fine Rosemary mette insieme i pezzi, ma anche dopo essersi resa conto di essere in pericolo, non sa a chi rivolgersi. Perfino suo marito sembra far parte di una cospirazione sempre più estesa. E quale estraneo, nella Manhattan dei giorni nostri, potrebbe mai credere alla sua storia di streghe e adoratori del demonio?
Rosemary’s Baby non è un libro appariscente. Non ci si trovano metafore incisive o descrizioni poetiche di personaggi e ambientazioni. La prosa procede con il linguaggio della vita quotidiana. Eppure, ciò serve soltanto a rafforzare l’idea della banalità del male di Ira Levin. La trama e il ritmo, tuttavia, sono curati con mano esperta, e nelle pagine finali subiscono un’accelerazione. Anche se i lettori hanno intuito quali pericoli attendano la protagonista – forse molto prima che Rosemary stessa divenga consapevole della loro portata – Levin ha altre sorprese in serbo per loro. Dopotutto, Rosemary Woodhouse non è soltanto una vittima, è anche una madre. Se la nascita di un bambino è la conclusione perfetta per un certo tipo di storia, suggerisce anche l’inizio di molti altri racconti, forse deliziosi e domestici, forse demoniaci e agghiaccianti, a seconda delle circostanze. Viste le preferenze di Ira Levin, si può ben immaginare che il nostro finale a sorpresa combini entrambi gli estremi, e la semplicità con cui questi due opposti coesistono non fa che renderlo più inquietante.
© Ted Gioia, 2016. Tutti i diritti riservati.
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