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Il sogno è un’utopia estetica

redazione SUR

La pubblicazione di «Papeles de trabajo», il primo volume dei quaderni di Juan José Saer, permette di analizzare i suoi abbozzi, la costruzione del suo universo letterario e il procedimento di scrittura di un autore decisivo per la letteratura argentina del XX secolo. La saggista Beatriz Sarlo riflette sulla solidità del suo progetto estetico a partire dagli esordi.

di Beatriz Sarlo
traduzione di Raffaella Accroglianò

Vari incipit differenti di El limonero real, un racconto che potrebbe essere incluso in En la zona, l’arrivo di una ragazza in un postribolo di provincia, episodi della vita di Tomatis, Angel Leto, Barco, una riunione nella quale non accade nulla, due giocatori che cercano i soldi per l’ultima puntata, dichiarazioni della figlia di Fiore, l’assassino di Cicatrices, la campagna di Santa Fe sotto la tormenta: temi saeriani allo stato puro.  E anche frasi di Tomatis che costituiscono già il modello verbale, precoce ma quasi definitivo, del personaggio; sperimentazione con avverbi, con frasi lunghe, molto elaborate, minuziosa annotazione di colori e luci.

I Quaderni iniziali, dalla fine degli anni ‘50 fino al 1961, furono scritti da un uomo che, a vent’anni o poco più, aveva già stabilito fermamente la propria originalità. Chi ha letto En la zona, il suo primo libro, sa che è così, che in meno di 200 pagine, tra il 1957 e il 1960, Juan José Saer passò da un Borges della sponda di Santa Fe al racconto di un asado nel quale sta il futuro della sua letteratura. L’ha già detto María Teresa Gramuglio riferendosi a “Qualcosa si avvicina”. Lo sapevamo. Nondimeno, la pubblicazione di questi Quaderni apporta queste prove supplementari, delle quali non avevamo bisogno per incredulità, ma perché del grande scrittore defunto nulla sembra essere sufficiente. D’altronde, come segnala Julio Premat senza esagerazioni, risparmiandosi un gesto teatrale di scoperta con cui aprirebbe uno scenario sconosciuto, sono testi “frammentari, spesso incompleti ed eterogenei, testi in movimento che a volte cambiano la percezione dei libri che conosciamo e ci portano a decifrare indizi, a immaginare cause, reazioni, momenti d’ispirazione, e a congetturare tappe nel processo creativo”.

I primi Quaderni, diciamo fino al 1966, fino a quello che include il manoscritto di Sombras sobre un vidrio esmerilado, riportano le pagine iniziali, il modo e il momento nel quale Saer (che si pensa sempre e senza esitazioni come uno scrittore) si colloca all’interno di una lingua e di una letteratura. In Argentina deve fare i conti con Borges e con nessun altro. Si misura con Borges, non con Cortázar né con Arlt. Guarda in faccia Rimbaud, che traduce nel primo Quaderno, o Faulkner. Se fosse necessario tornare a dimostrarlo, Saer inizia da Borges, se ne allontana perché l’ha capito, ma questo è il suo Scrittore. Saer sa, in qualche modo, che se si ammira Borges non lo si imita.

In data sconosciuta scrisse un saggio-racconto sarcastico su Borges. Quando conobbi Saer, nel 1979, mi disse che stava terminando un romanzo poliziesco (che quasi due anni dopo fu pubblicato in Messico con il titolo Nadie nada nunca) e qualcosa su Borges. Ridemmo molto, camminando per il Boulevard Voltaire, mentre mi raccontava le sue ipotesi: Borges era stato sequestrato o assassinato dai comunisti che si erano appropriati del suo nome per pubblicare testi incomparabilmente  inferiori. Il manoscritto di Brodie sarebbe “il prodotto frettoloso di un grossolano imitatore”; i sequestratori comunisti s’ingegnarono anche per “introdurre una serie deplorevole di correzioni” nella riedizione delle sue poesie migliori; inoltre gli attribuivano dichiarazioni che dimostravano “una presunta ignoranza della realtà politica argentina e cilena”. Questo saggio è completo nel Quaderno Nucleo I, con il titolo Un complot comunista. Non fu mai pubblicato. Sembra una disquisizione di Tomatis, la cui ironia può essere malvagia. Quando Saer scrisse questa satira su Borges, era indignato. Il suo modo di criticarlo fu cruento e molto borgeano. Procedimento interessante, tuttavia non volle che il testo fosse conosciuto. Fra tutti gli scrittori argentini (come dice in uno dei Quaderni), quelli realmente grandi sono Borges e Juan L. Ortiz.

I Quaderni intorno al 1966 preparano il mondo di Cicatrices (pubblicato nel 1969, scritto a Santa Fe due anni prima) e quello di Sombras sobre un vidrio esmerilado. Premat afferma che la scrittura saeriana si costituisce nel Limonero real. Ma c’è qualcosa che sta lì quasi dal principio: l’acutezza della percezione che si ferma sui colori e le luci, gli odori, i movimenti, i riflessi, i tempi nei quali si scompone un’azione. Questa è la materia stessa della scrittura di Saer fino alla fine. Non è un procedimento, ma il lavoro con una sostanza.

Se c’è un punto in cui Saer è differente da Borges sin dal principio, è in questa sensibilità verso l’elemento materiale. Lo rappresenta in modi che cambiano man mano con i libri, ma la materialità del mondo è una concezione che potrebbe dirsi filosofica. In questi abbozzi si sperimentano aggettivi, combinazioni di qualità, rifrazioni, echi, contorni che si definiscono e sfumano.

L’altra caratteristica costitutiva della sua narrativa, che questi abbozzi confermano dagli anni ‘70, è la “società dei personaggi”. Per determinare in quale hotel si suicidò Higinio Gómez, Tomatis  ricorre alle fonti prevedibili: giornali, archivi della polizia. Non trova l’informazione da nessuna parte, finché gli viene in mente di chiamare Adelina Flores, la poetessa di Sombras sobre un vidrio esmerilado. Questo personaggio è appena menzionato nell’abbozzo di un racconto che Saer non riprese. Ma un anno dopo sarà il punto centrale del racconto incluso in Unidad de lugar. E anche in El fin de Higinio Gómez di El arte de narrar, una poesia pacata e commovente, dove la cerchia di amici che accompagnano la salma al cimitero comprende Tomatis e Adelina, i gemelli Garay e Washington Noriega. Nuovamente: le differenti forme in cui si riunisce e si disperde la “società” saeriana, che alla fine sarà sconvolta dalla tempesta e crivellata dai proiettili della storia.

I personaggi vanno e vengono da uno all’altro di questi Quaderni. La loro persistenza conferma l’idea che Saer, quasi fin dall’inizio, ha posseduto un mondo che è sopravvissuto ai cambiamenti della sua scrittura. Forse quelli che resistono di più sono Tomatis e Angel Leto (ognuno dei due ha un suo romanzo). Nei Quaderni, Saer li “prova”. In uno dei racconti inconclusi, all’inizio, dà l’impressione che il narratore sia Tomatis e, pagine dopo, questo stesso narratore vede Tomatis. Il lettore rimane sconcertato. Saer stava sperimentando una prima persona di Tomatis, che poi ha scartato.

Sarebbe necessario conoscere la totalità dei Quaderni (i testi conservati a Princeton) per vedere fino a che punto queste “prove di personaggi” si ripetono. Con i materiali inclusi in questo volume si potrebbe sostenere la tesi di una “società” completa. Con il suo romanzo finale, La grande, Saer tornò a questo progetto d’inizio. Nel prologo, Premat segnala che Saer, nei Quaderni posteriori a quelli appena editati, annunciava già un romanzo con più di cento personaggi.

I Quaderni permettono di considerare fino a che punto sia proustiano il progetto iniziale di Saer. Quando in “La mayor” si dice: «Altri, prima, potevano…», si sta segnalando non solo la reminiscenza proustiana, ma anche un mondo di personaggi che passano da un tomo all’altro della Recherche. E dunque, ciò che altri, prima, potevano, oggi è una specie di mappa sotterranea, che rimane sconosciuta al lettore di una sola opera, ma che persiste fuori dal tempo: “altri, prima, potevano…” allude a un passato, non solamente a un’altra lingua e a un’altra qualità della letteratura. Scritta a partire dal 1960, la “società di personaggi” rappresenta una sfida all’opinione pubblica della repubblica letteraria alla moda. Scrittore sempre più sperimentale fino a Nadie nada nunca, Saer desidera ed evoca contemporaneamente un paese di personaggi. Questo è uno dei suoi tratti più originali.

Nel Quaderno del 1965-66 leggiamo la prima versione della famosa frase de La mayor: «Queste non sono le mie “Confessioni”. Non ho nulla da confessare, prima la gente si credeva importante e si confessava, ma erano solo frottole». Altri, prima, potevano. Questo modo di inscrivere il limite della letteratura nel suo testo più estremo (come David Oubiña definisce La mayor) è ironico. Oggi, ci dice Saer, l’ironia è l’unica forma di tragicità. Lui scrive quando ormai non si può più, ma insiste in questo, nel raccontare, senza riempire il testo di ammiccamenti per i professori o gli studenti. Racconta in modo molto complesso, intricato, ma la narrazione è lì, resiste.

Nei Quaderni, il percorso verso Cicatrices è essenziale. Gli aforismi, le battute (“Ho scritto un capolavoro, ma prima è necessario batterlo a macchina affinché raggiunga tutto il suo splendore” dice Tomatis) l’ironia, le citazioni di libri e autori (Tonio Kröger, Palme selvagge) sono i segnali di un cammino. Prova generale di materiali, che poi apparvero nelle narrazioni pubblicate, o sparirono senza arrivare ad “attecchire”, come direbbe Barhes. Ma, comunque sia, è stato un allenamento discorsivo, un album di trovate, un banco di prova. Molte pagine esplorative circondano Cicatrices, per esempio i racconti urbani di questo Quaderno del 1965-66: partite di biliardo e baccarà, dialoghi senza “sviluppi”, giri per la città, stati del cielo o il trascorrere di una notte. Altri testi rimangono nei Quaderni come quello che verrà. Specialmente nel Quaderno utilizzato tra il 1963 e il 1967, un frammento di A medio borrar, che lascia intravedere ciò che sarà questo testo, pubblicato dieci anni dopo. Anche racconti non finiti, con il clima dei racconti di Palo y hueso, scenari di località rurali, che Saer, da questi inizi, rappresentò con durezza, senza tic naturalistici. Questo lo aveva chiaro: con i poveri, né pietismo né sentimentalismo.

Le storie immaginarie dei Quaderni non sono gli esercizi di un principiante. Saer era fondamentalmente un narratore, inventore e perfetto, sin da giovane. Immaginava storie a partire dalla poesia e, in alcuni libri, come Nadie nada nunca o il finale di Glosa, ci sono pagine che richiedono una lettura ad alta voce. Ben presto spiega chiaramente ciò che poi ha ripetuto tante volte. Scrivere un romanzo in versi: «Il ritmo della poesia impiegata deve essere leggermente diverso da quello della prosa narrativa comune, ma deve prima di tutto rappresentare un’opposizione fortemente marcata, in ciò che riguarda l’organizzazione del linguaggio». E questo fece, girare attorno, mordere, accarezzare, sognare un’utopia estetica.

Tra il gennaio del 1964 e il novembre dello stesso anno, Saer annotò quattro inizi di El limonero real, che fu pubblicato dieci anni dopo. Tutti riguardano il risveglio di Wenceslao, che è la scena iniziale del romanzo, ma uno ha l’attrattiva di essere scritto in prima persona. È Wenceslao che racconta: «Albeggia, e sto già con gli occhi aperti». Come sarebbe stato un romanzo in prima persona? Come avrebbero funzionato nel testo espressioni contadine come “sabe amanecer”, riprese direttamente dall’oralità? L’ultima versione è quella che leggiamo oggi. Ma lascia trasparire la precoce insistenza di un’idea. Prima di quella, Saer annotò un inizio in verso libero. Ancora una volta, la prosa con il ritmo della poesia, la prova che poteva avvicinarsi al suo desiderio. E in effetti questi pochi versi convincono.

Lettore spregiudicato di letteratura, Saer leggeva Thomas Mann in un’epoca in cui era di buon gusto dire che non interessava. Un’annotazione al margine, su José e i suoi fratelli, definisce l’ironia di Mann con una sintesi intelligente e libera da pretese. Ma la poesia è stata il suo campo. Ricordo una lunga camminata per una cittadina universitaria inglese, nella primavera del 1992, il cui obiettivo dichiarato e compiuto era comprare vino. In mille modi diversi Saer recitò haiku e variazioni che inventava sul momento.

La sua devozione per Juan L. fu tanto fedele quanto la sua amicizia con Hugo Gola. Dieci anni prima, senza che né Saer né io lo sapessimo, Roland Barthes aveva tenuto i suoi seminari al Collège de France sul romanzo e anche lui leggeva haiku: l’haiku come seme della narrazione.

Nel suo prologo, onestamente, Premat trascrive una citazione del Quaderno che Saer destinava, fino al 1978, non a minute o abbozzi preliminari, ma ad annotare idee sparse, apparentemente senza altro fine che la loro stessa documentazione. Il paragrafo è il seguente: «Non permetterò che qualcuno entri nei miei quaderni, come hanno fatto con Kafka e con Pavese. Non morirò. Deciderò io con il tempo qual è la parola giusta e necessaria che devo dire, e il resto lo getterò nel fuoco. So che ho la stoffa del grande scrittore, e il mio dovere consiste nel non permettere che vengano celebrati come verità i miei errori, o come genialità le mie goffaggini».

Saer morì mentre stava scrivendo La grande, confrontandosi con un tempo troppo breve, con una malattia troppo veloce. Non realizzò il suo proposito (probabilmente abbandonato) di distruggere i suoi Quaderni e non lasciò detto di distruggerli. Li aveva già mostrati e conoscendo sua moglie, Laurence Guéguen, abbiamo la certezza che lei avrebbe seguito le sue istruzioni se le avesse ricevute. Alcuni dei saggi che Saer scrisse nei Quaderni non sono stati inclusi in questa edizione. Li conosceremo quando Planeta deciderà di pubblicare un nuovo libro, postumo, al quale Saer non aveva pensato, dato che non ha aggiunto questi saggi inediti ai libri che sono apparsi in vita.

Non sono ancora sicura che questi Quaderni ci diano un Saer che non avrei conosciuto altrimenti, forse, quando tornerò a percorrerli, incontrerò qualcosa d’imprevisto, di contraddittorio. Ma a una prima lettura l’effetto è esattamente il contrario. I Quaderni mostrano uno scrittore straordinario, sicuro sin dal principio. Senza dubbio ci sono progetti accantonati. Ma si tratta, comunque sia, di libri che sarebbero stati vicini a quelli che effettivamente scrisse (come una Vida de Tomatis, per esempio). È forte la sicurezza con la quale Saer avanza a partire dai venti anni. Emoziona la sua indifferenza per le critiche, come se sapesse quale sarebbe stato, per sempre, il percorso delle sue letture.

Saer non volle mai essere uno scrittore alla moda. È impossibile dire se fosse sicuro di sé in termini soggettivi, psicologici. Dinanzi ai Quaderni, però, è impossibile negare che era sicuro in termini estetici. Questa sicurezza sbalordisce. I Quaderni non sono abbozzi imperfetti di opere future, scritti imprecisi di un uomo troppo giovane per le sue ambizioni, imitazioni di scrittori ammirati nelle quali le influenze esplodono come fuochi artificiali. Al contrario, ciò che non riprese, i frammenti che rimangono, avrebbero potuto trovarsi nei suoi libri e non sarebbero stati dei pezzi preliminari. Furono scartati perché si presentarono altre alternative, ma non cammini troppo diversi.

Il gesto iniziale di Saer non consiste né nel sopportare un’eredità né nel rompere con questa. Ha letto gli autori che avrebbe continuato a leggere (Kafka, Borges, Faulkner, Pavese, Juan L. Ortiz) di modo che la “biblioteca” degli inizi è quella che conservava nella casa di Parigi negli anni ‘80. I suoi Quaderni confermano che non gli interessava Puig né la letteratura del realismo magico, che non cita mai. Quando Sartre non era più alla moda, lui continuava ad ammirarlo.

È strano constatare il modo in cui è fatto sin dall’inizio, come se già sapesse tutta la letteratura che avrebbe dovuto interessarlo, come se, a partire dai venti anni, la questione fosse il difficile perfezionamento di qualcosa che già aveva. Senza dubbio ci sono diversi momenti nella scrittura saeriana. Un punto di svolta che Premat colloca ne Il limonero; il massimo rischio di “La mayor”. Ma sotto queste trasformazioni, che in La grande appaiono come lavori giovanili per la loro vitalità, Saer mostra sin dai primi Quaderni la stessa sensibilità estetica dinanzi alla sostanza del mondo. La materialità e la percezione definiscono uno scrittore e, in questo, Saer è poetico e originale. Un’altra nota che ricorre in tutta la sua opera, come eco e tema filosofico, è l’idea dell’inevitabile dissoluzione della soggettività e dell’esperienza. Questa è la prospettiva presente già in testi giovanili come Responso. Nei Quaderni si comprova che l’inquietudine c’è sin dall’inizio. Di qui l’ironia. Tomatis, a poco più di vent’anni, è un disincantato.

I Quaderni confermano quello che in qualche modo già sapevamo. La letteratura di Saer risponde a un’estetica della resistenza. Ciò nonostante, non è contorta. È bella e serena, anche se quasi sempre disperata. Queste pagine preliminari o scartate hanno la stessa struttura, e non sono filosoficamente differenti da quelle che sono state pubblicate. Le opere “giovanili” di Saer lo sono per la cronologia, non per inettitudine o indecisione. Ci sono stati dei cambiamenti, senza dubbio, e questi cambiamenti hanno una storia. Ma il grande scrittore, lo scrittore decisivo della seconda metà del XX secolo, era li sin dall’inizio.

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