Oggi Carlos Fuentes avrebbe compiuto novant’anni. Ricordiamo il vagabondo cosmopolita del Boom Latinoamericano con un interessante profilo a cura di Armando González Torres. L’articolo, pubblicato originariamente da Letras Libres, viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore. Buona lettura!
di Armando González Torres
traduzione di Chiara Gualandrini
Per l’importanza, l’audacia e l’influenza della sua opera, Carlos Fuentes è uno scrittore monumentale: nei suoi romanzi e racconti ha assimilato, rivoluzionato ed esaurito tecniche di scrittura; i personaggi del suo universo narrativo sono migliaia; il suo linguaggio, con un registro che spazia tra l’alto e il basso, è capace di sfiancare i dizionari; le sue idee e posizioni hanno illuminato, irritato e generato polemiche e dibattiti fruttuosi. Fuentes è uno degli autori messicani più consapevoli del suo ruolo di innovatore artistico e sociale, di rappresentante del mondo e della cultura. Il suo è il profilo di chi ha accolto tutti i rinnovamenti del Medio Siglo messicano: sperimentale in letteratura, critico e impegnato nella politica, anfibio a livello intellettuale. Il giovane narratore, il giornalista dall’agile penna, il saggista ambizioso, il ballerino e l’esploratore notturno, il raffinato viaggiatore, il compagno nelle lotte importanti convivono in un solo uomo ed estendono la loro sfera di influenza dalla repubblica delle lettere a quella dei media. Fin da giovane Fuentes si dedica in modo parallelo alla doppia professione di scrittore e ambasciatore culturale, dividendo la sua giornata fra l’isolamento monacale richiesto dalla scrittura e l’intensa vita pubblica fatta di interventi nei convegni più prestigiosi in vari paesi, di interviste in cui i giornalisti gli chiedono la sua opinione sui temi più disparati, e non parlano mai di letteratura, o di pranzi con politici e imprenditori che vorrebbero avere un quadro sintetico e rappresentativo del Messico e dell’America Latina.
Ovviamente il cuore di questa attività pubblica è sempre stato la letteratura. Il Fuentes narratore aspira a essere una figura tanto universale quanto radicata nella messicanità. Per quanto abbia dimostrato che la sua produzione artistica possa coprire un arco temporale e geografico molto ampio, Fuentes ha voluto fondamentalmente costruire una mappa letteraria, un mosaico storico e un racconto caratterologico del Messico. I suoi romanzi raccontano le dicotomie e i contrasti del Messico moderno, il peso degli archetipi e la nuova apparizione di miti e leggende tradizionali riammodernati o gli affascinanti intrighi di una politica arcaica piena di simboli e rituali. Perché la figura di Fuentes emerge, e a volte sembra che lì sia rimasta, dal periodo culmine del dibattito nazionale, dall’epoca di risveglio delle coscienze in cui, attraverso la filosofia della messicanità, si cercava di scavare nella psicologia collettiva, di interrogare la storia e i suoi meccanismi atavici e di fare un esorcismo per rendere più moderna la vita nazionale. Per questo, nei modi più vari e a volte con una tenacia commovente, Fuentes ha provato a esplorare i punti d’incontro fra l’immaginazione letteraria e la vita pubblica, sia con la nota predilezione che aveva a inserire nelle sue storie simboli astratti e personaggi leggendari della storia o dell’immaginario kitsch, sia tendendo a far sfociare, quasi sempre, i drammi interiori dei suoi personaggi nella descrizione di una congiuntura storica o di una questione politica. È naturale che un’opera tanto prolifica e, soprattutto, con propositi a volte contraddittori, mostri degli alti e bassi e perfino quelli che sono considerati i suoi capolavori spesso sono al limite tra genio e arroganza, fra l’introspezione più profonda e la vignetta pedagogica, fra l’esigenza e la compiacenza.
Ritratto dell’artista
Da dove viene questo potente scrittore che pretende di coniugare intelligenza e ispirazione, vita attiva e vita contemplativa, ambizioni artistiche e battaglie civili? Non esistono vere e proprie biografie di Fuentes; tuttavia, nell’intenso saggio autobiografico «How I started to write», o nella ricostruzione che ha fatto Raymond L. Williams in Los escritos de Carlos Fuentes, c’è materiale sufficiente a delineare un ritratto dell’artista. Nato per caso a Panama, e cresciuto all’estero per via della carriera diplomatica del padre, durante l’infanzia il piccolo Fuentes vive a Panama, Quito, Montevideo e Rio de Janeiro; e trascorre un lungo periodo di formazione negli Stati Uniti, dove frequenta le scuole inglesi ma viene spinto dal padre a studiare la geografia e la storia del Messico. Fuentes è confuso dalle due diverse Storie che sembrano raccontargli: la stessa Storia che vede trionfare gli Stati Uniti ha distrutto il Messico, ed è ancora più sconvolto quando capisce che molte vittorie del paese che lo ospita sono in realtà sconfitte per la sua madre patria. È comunque un bambino socievole e inserito, anche se si sente minacciato quando nel 1938, dopo la nazionalizzazione petrolifera, il cameratismo verso il compagno di classe messicano si trasforma, per un periodo, in sospetto e sfiducia. Questa sensazione di isolamento, ha dichiarato, ha modificato le sue convinzioni di appartenenza e, una volta, in occasione della proiezione di un film in cui il personaggio di Sam Houston dichiara l’indipendenza del Texas, il bambino indignato grida «Viva il Messico!» e fa, come dice Williams, una vera dichiarazione di cittadinanza. La carriera diplomatica del padre lo porta, dopo gli Stati Uniti, in Cile, dove comincia ufficialmente il suo noviziato letterario e condivide la sua vocazione con compagni di classe altrettanto famosi: José Donoso e Jorge Edwards. Le sue prime e già molto ambiziose imprese letterarie (una saga giovanile di più di quattrocento pagine) trovano un pubblico restio in Siquieros, all’epoca in esilio in Cile, che si addormenta leggendo lo scrittore alle prime armi. Dopo il suo periodo cileno e un breve soggiorno in Argentina, a diciassette anni Fuentes torna in Messico. La prima cosa che nota lo scaltro viandante tornato nel suo paese d’origine è il modo particolare in cui parlano i suoi compatrioti – il formalismo, il terrore di usare la prima persona, la profusione di diminutivi – che denotano una caratteristica nazionale. Fuentes afferma che secondo lui il Messico ha tre confini: uno fra sviluppo e sottosviluppo, uno fra temperamento latino e temperamento anglosassone e un altro tra cultura protestante e cultura cattolica. La sua esperienza multiculturale e il contrasto che vede nel suo paese d’origine gli fanno prendere consapevolezza dei pericoli dell’isolamento ma anche della sua appartenenza, non solo a una patria, ma anche a una lingua.
Fuentes prosegue i suoi studi; sono gli anni delle conferme letterarie e delle scoperte sessuali nella nuova movida notturna delle città del Messico. Diventa amico di Alfonso Reyes e di una piccolo gruppetto di giovani colti e cosmopoliti come lui; legge con fretta, furia ed entusiasmo (i suoi modelli autoproclamati ed evidenti sono Cervantes, il romanzo picaresco, Balzac, Joyce, Faulkner, D.H. Lawrence, i romanzi della Rivoluzione, Rulfo e Paz), passeggia, discute, fa le ore piccole, scrive articoli di giornale su Siempre!, studia diritto, parte per un post dottorato in Europa e conclude il suo rito di iniziazione letterario, conosce Octavio Paz a Parigi, e a Zurigo conferma simbolicamente la sua vocazione quando durante una cena in barca incontra miracolosamente Thomas Mann. Tornato dal soggiorno in Europa è già sicuro del suo destino, scrive qualche articoletto giornalistico e tecnico, pubblica il suo primo libro nel ’54, Los dia enmascarados; promuove le pubblicazioni più vivaci dell’epoca come la Revista Mexicana de Literatura; pubblica nel ’58 La regione più trasparente, con cui conferma, coi fatti, la forza e la profondità della sua scrittura. Il successo del romanzo lo lancia definitivamente: Fuentes si sposa con la celebre attrice Rita Macedo, fa un viaggio a Cuba ad accogliere la Rivoluzione, fonda El Espectador, pubblica Las buenas conciencias, eccellente romanzo intimista che, forse per il suo apparente conservatorismo estetico, non suscita tanto entusiasmo; pubblica poi La morte di Artemio Cruz e Aura, che consolidano la sua figura di solitario nella letteratura dell’epoca, fa parte di prestigiose giurie letterarie e cinematografiche; firma insieme ad altre celebrità progressiste petizioni che appoggiano le cause sociali più importanti; continua a pubblicare romanzi con regolarità e nel ’68 scrive da Parigi crónicas brevi e sentite. Divorzia negli anni Settanta e si risposa con la giornalista Silvia Lemus, pubblica l’importantissima raccolta di saggi Tutti i soli del Messico e La nueva novela hispanoamericana e manda in stampa anche il colossale Terra nostra. Questo decennio, con l’entrata al potere di Luis Echeverría, è forse il momento in cui Fuentes ha avuto il ruolo più attivo in politica, è un intellettuale di sinistra che in un ambiente di polarizzazione, fa sua la scelta «Echeverría o il fascismo» e accetta la controversa missione di servire il suo paese come ambasciatore in Francia. Lascerà in segno di protesta quando Gustavo Díaz Ordaz viene nominato ambasciatore del Messico in Spagna e rinstaura i rapporti con la sinistra.
Con la consacrazione ottenuta in seguito alla pubblicazione di Terra nostra, la vita pubblica e artistica convergono; Fuentes continua a pubblicare romanzi con una regolarità straordinaria, ma non saranno più decisivi (più che altro per inerzia cumulativa) per la sua carriera di scrittore e nome pubblico che, a prescindere dalla qualità letteraria della sua opera, fa notizia già da sé. Alla fine degli anni Settanta Fuentes vive la maggior parte dell’anno fuori dal paese, negli Stati uniti o a Londra. I titoli si susseguono, i romanzi e i racconti trattano uno spettro ogni volta più ampio della storia e delle classi sociali del Messico; i saggi culturali e letterari si orientano sulla geografia del romanzo, o meglio, sulla cultura latinoamericana. Fuentes continua a essere per tutti una voce che conta sui fatti d’attualità: alla fine degli anni Sessanta appoggia i moti rivoluzionari e mette in discussione la globalizzazione, e qualche anno fa ha pubblicato un libro contro George Bush.
La narrativa circolare
Nella Nueva novela hispanoamericana Fuentes affronta, con la civetteria tipica dell’autopromozione, il ruolo del romanzo e del romanziere in America Latina, l’evoluzione del romanzo come genere e il modo in cui la tradizione latinoamericana – grazie a una rivoluzione del genere – si inserisce in un contesto universale. Questo libro non esita a decretare la fine del realismo borghese e del predominio letterario europeo per fare spazio alle radici politiche e mitologiche del romanzo e a un decentramento dei processi di creazione dei paradigmi. In questo modo, per Fuentes, il nuovo romanzo (ovvero, il suo boom) risponde a una delle grandi carenze della società borghese: l’incapacità di «creare miti rinnovabili». Con il nuovo romanzo è possibile superare le barriere tra i generi e creare un nuovo ecumenismo letterario, grazie alla sua natura mitologica e poetica, che non risponda a vincoli di classe e nazionalità, fino alle strutture universali del linguaggio, rivendicate dal pensiero strutturalista. Per questo, nella nuova letteratura, il centro si sposta verso diversi spazi creativi. «I latinoamericani», direbbe ampliando un concetto di Octavio Paz, «oggi sono contemporanei di tutti gli uomini. E possono, per una giusta e perfino tragica predisposizione, diventare universali scrivendo nella lingua degli uomini del Perù, dell’Argentina o del Messico. Perché sconfitta l’universalità fittizia di certe razze, bandiere, di certe nazioni, lo scrittore e l’uomo avvertono la loro comune generazione delle strutture universali del linguaggio».
Questa aspirazione a decretare l’universalità delle sue radici è la colonna portante dell’opera di Fuentes. Fra La regione più trasparente e Destino passano quasi cinquant’anni: tuttavia c’è una frattura evidente nell’utilizzo delle strutture e delle tecniche narrative, nell’utilizzo della lingua e nella costruzione della storia. Il Fuentes narratore collega il mito al realismo, il destino individuale alla storia, il locale all’universale, la cultura alta al registro colloquiale, e la composizione avanguardista strizza l’occhio al melodramma. Fuentes svolge il suo lavoro di narratore con letteraria arroganza: usa e abusa della cosiddetta intertestualità, chiama e sprona il lettore ad avere un ruolo attivo, rivela costantemente i meccanismi, i processi di scrittura e tutti quegli elementi che alcuni accademici statunitensi racchiudono nel postmodernismo letterario (ma che viene da Cervantes). In particolare la storia, intesa come un discorso sospetto e una finzione imposta, è confrontata con i meccanismi dell’invenzione, della deformazione e della parodia. L’identità individuale si scompone in una pluralità di voci, la realtà storica si frammenta in diverse versioni, la narrazione si interrompe, i personaggi si ribellano. Eppure, nella scrittura di Fuentes si possono notare differenze di grado e di intenti letterari per quanto concerne gli atti della memoria e la scrittura. Come dice Chalene Helmuth nel suo Postmodern Fuentes, mentre nella Regione più trasparente e nella Morte di Artemio Cruz Fuentes tratta il presente come un tradimento delle aspettative del passato, in Terra nostra e nei romanzi successivi il passato non è fisso, non esiste una conseguenzialità precostituita ed è possibile giocare con i tempi, riscriverli e sottometterli a nuove versioni e speculazioni. Di modo che, definendo in partenza la storia come tradita, Fuentes passa in maniera graduale a lavorare con il concetto di storia in divenire, che può essere scritta meglio, letta, prevista o curata con gli strumenti che la fiction mette a disposizione. Questi dettagli possono risultare molto interessanti per un accademico, ma dimenticano di prendere in considerazione, man mano che negli schemi teorici dell’opera di Fuentes si fa strada il meraviglioso, che la vera materia prima della sua letteratura – il linguaggio e l’immaginazione – tendono a impoverirsi.
Una lettura del suo ultimo romanzo conferma la mia idea di un Fuentes autofago, che si alimenta facendo razzia dei suoi stessi risultati. Destino è il monologo di Josué Nadal, un decapitato che durante gli ultimi momenti d’agonia racconta la sua vita. Josué ricorda la sua infanzia solitaria, relegato alle cure di una burbera e misteriosa tata, e di come solo l’incontro con l’amico, complice e gemello spirituale Jericó – di cui non viene detto il cognome – abbia alleviato questa solitudine. Quando la tata di José scompare in circostanze misteriose, i due adolescenti vanno a vivere insieme, condividono una donna e, sotto la guida del tenero padre Filopáter, nutrono aspettative di grandezza e perfezione. Dopo le superiori, Jericó parte per andare a studiare all’estero, Josué decide di studiare legge e rincontra il professor Antonio Sanginés, che durante l’infanzia gli aveva fatto da esecutore testamentale e ora è diventato un vecchio saggio con le mani in pasta in politica e finanza che fa da segretario al presidente e al ricco ed enigmatico magnante delle comunicazioni Max Monroy. Sotto l’ala di Sanguinés, José svolge il servizio sociale nel carcere della città dove conosce Miguel Aparecido, un detenuto leggendario e mezzo matto che ha rinunciato alla propria libertà e per cui il protagonista prova una forte attrazione. Con il ritorno di Jericó si rinnova l’amicizia e, influenzati da Sanguinés, i due iniziano a dedicarsi agli affari e alla politica. Josué lavora nell’azienda di Max Monroy, dove conosce e si innamora dell’impiegata delll’amministrazione Asunta. Joricó entra in politica, dove in poco tempo riesce ad essere promosso consigliere del presidente, che gli assegna il compito di organizzare una festa commemorativa. Jericó, invece di organizzare la festa, capeggia una fallimentare ribellione contro il governo, scappa, e viene catturato e consegnato a niente meno che gli uomini di Max Monroy. Durante la sua prigionia Jericó viene sedotto da Asunta ed è costretto ad affrontare José per amore della donna. Al litigio fra i due amici seguono altre rivelazioni: Josué, Jericó e Miguel Aparecido sono fratelli, tutti figli di Max Monroy e macabramente concepiti con la moglie rinchiusa in manicomio. Alla fine l’ambiziosa Asunta approfitta che Max Monroy sia vecchio e in punto di morte e, per ereditare la fortuna del magnate, invita Josué a un incontro ad Acapulco, dove lo decapita e fa in modo che la testa parlante racconti cosa gli è successo.
Sulle prime, questa storia sembrerebbe un insulto all’intelligenza, e lo è: il numero elevato di personaggi sopra le righe, la manipolazione della trama affinché i pezzi del rompicapo si dispongano in maniera prevedibile, paragrafi e paragrafi di luoghi comuni e allusioni alla politica contemporanea cozzano con i pochi momenti in cui si intravede, a intermittenza, un bravo narratore. Il romanzo vorrebbe essere una riflessione sull’antinomia fra libero arbitrio e fato ma, a causa della grossolanità e della fretta della sua realizzazione, ciò che nella tragedia greca era imprescindibile qui tende a diventare scontato e da telenovela. O meglio, a causa di una mancata separazione, a tratti allarmante, tra il suo ruolo di scrittore e quello di intellettuale pubblico, Fuentes finisce per scivolare sempre più nella letteratura didattica degli editoriali politici travestiti da fiction, che sopravvaluta il significato dell’opportunità (un esempio di questo affanno, quasi patetico, di «stare sul pezzo» è la scena in cui Josué testimonia, nell’ala dei ribelli, all’attacco di cui furono oggetto gli emo e che pochi anni fa ebbe una straordinaria copertura mediatica). Ad ogni modo, non si tratta di considerare minore un’arte legata al presente, ma è superfluo dire che la capacità di suscitare empatia, di portare alla luce conflitti di valori e di scuotere le coscienze necessita molto più che una letteratura orientata pragmaticamente alle notizie di attualità.
Fuentes e la fortuna letteraria
Il giudizio letterario è misterioso: la posizione degli artisti nel pantheon letterario risponde a un misto di casuali valori estetici e morali, circostanze politiche, economiche e editoriali, preferenze d’intrattenimento e pregiudizi di ogni tipo. Per la maggior parte degli scrittori la fama chiama fama e la reputazione iniziale può influenzare molto l’opinione della critica, creare muri e invocare monumenti culturali. L’opera di Fuentes, con un linguaggio al confine fra letterario e colloquiale, può essere irregolare, autoreferenziale e ripetitiva, può infastidire, ma di sicuro all’interno del panorama letterario non ne troviamo molte altre che possano competere per vastità e intenzioni. Che Carlos Fuentes sia stato consacrato nel canone contemporaneo come il rappresentate e il padre della narrativa messicana moderna è indubbio: opere come La regione più trasparente, La morte di Artemio Cruz e l’imponente Terra nostra, per citare solo alcune delle sue magnae chartae hanno creato e distrutto paradigmi, rappresentano, al tempo stesso, una sintesi dei loro antenati nazionali e di un drastico patricidio; dialoghi a tu per tu con la letteratura moderna e un certo sapore inconfondibile del proprio territorio, un indagine di ciò che è umano e affezionato alla monumentalità. Si potrebbe dire, ed è vero, che Yáñez e Rulfo avevano già introdotto tecniche moderne nella letteratura messicana e che Yañez era stato il primo a parlare del proprio paese e di storia, tuttavia la traiettoria e l’impulso artistico che ha dato Fuentes a questa impresa, riuscendo contemporaneamente a ritagliarsi un pubblico, sono indiscutibili. L’importanza di Fuentes, quindi, viene garantita dalla sua enorme produttività, dal carattere sistematico e programmatico della sua opera, dalle sue caratteristiche sintomatiche di scrittore moderno e allo stesso tempo rappresentativo di un territorio ancora considerato esotico, ma, soprattutto, per i suoi grandi, anche se ogni volta più scarsi, momenti letterari. Eppure, come succede spesso a molte figure protette dal manto della consacrazione, è stupefacente che i suoi libri generino ancora attesa, e senza privare uno scrittore esemplare della sua capacità operativa e del suo impegno civile, hanno la prontezza di riflessi di rispondere a un’opera dinamica, piena di quesiti fecondi, ma anche di clichés e inesattezze, che punta a dialogare con una figura che pretende, per suo mero divertimento, il dissenso e la critica.
© Armando González Torres, 2008. Tutti i diritti riservati
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