Consigli di scrittori per scrivere un racconto

redazione Racconti, Scrittura, SUR

Pubblichiamo oggi un articolo apparso sul sito cileno Biblioteca viva, che raccoglie i consigli di cinque giovani scrittori su come scrivere un racconto.

traduzione di Giorgia Esposito

Non esistono regole rigide su come scrivere un racconto; è un genere aperto, che sorprende sempre. Per questo, anziché regole, abbiamo cercato l’opinione di alcuni scrittori di professione. Alejandra Costamagna, Andrea Jeftanovic, Romina Reyes, María José Viera-Gallo e Benjamín Labatut sono gli autori cileni chiamati ad aiutare gli scrittori di racconti a costruire le proprie storie.

L’incipit

vieragallo2-160x160María José Viera-Gallo: Iniziare il racconto in media res, nel mezzo del problema, dell’esplosione, della confusione, dell’euforia, del vomito di lava. Né prima né dopo. Senza preamboli. Non bisogna raccontare tutto. Non c’è tempo. Risparmiarsi le backstory, le eccessive descrizioni iperrealiste, o troppa voce interiore; iniziare come gli impressionisti, dando pennellate dell’essenziale, dal centro verso i lati, non al contrario.

Cosas que nunca te dije (Tajamar, 2014), è l’ultimo libro di racconti di María José Viera-Gallo.

Il conflitto

Benjamín Labatut: Un racconto si struttura intorno a quell’unico istante in cui emerge l’irrazionale, il magico, il grottesco o il sublime e che cambia il protagonista in maniera irreversibile, nel bene o nel male. Tutta la gravità della storia si concentra intorno a questo nucleo, che può essere una scena, ma anche soltanto una frase o battuta di dialogo. È il passaggio da un mondo all’altro. Dopo, niente sarà più come prima. Può essere una salvezza o una condanna, la diagnosi di una malattia, il risorgere di un ricordo rimosso, la confessione di un errore imperdonabile, o un momento di totale lucidità, ma avrà sempre un impatto che spinge alla trasformazione. Se fatto bene, quest’effetto si può trasmettere al lettore, ed è una delle vere ragioni per cui vale la pena leggere.

La Antártica empieza aquí (Alfaguara, 2012), è la prima raccolta di racconti di Benjamín Labatut.

I personaggi

Romina Reyes: Considero necessario per uno scrittore l’ossessione per i personaggi. Sapere ciò che pensano, capirne le reazioni. Parlare con loro ogni volta che è necessario. I personaggi hanno bisogno di avere una consistenza reale, e perché ciò accada ci vuole impegno, dal momento che ci affidano l’arduo compito di raccontare la loro storia. È per questo che scrivere implica una dose di follia. Ciò che amo dei racconti è il loro apparire come universi circoscritti che permettono di sviluppare un personaggio con totale profondità. Inoltre, avere esempi, versioni reali dei personaggi aiuta sempre.

Reinos (Montacerdos, 2014), è la prima raccolta di racconti di Romina Reyes. 

L’atmosfera

Andrea Jeftanovic: Un aspetto interessante dei racconti è che lo spazio può anche essere indefinito, ma l’atmosfera deve essere sempre inquietante. Il mondo in cui si svolge la storia deve essere uno spazio rarefatto. Non bisogna dare per forza indizi, coordinate specifiche, ma il racconto deve costituire un universo autonomo dotato di leggi proprie. Per me funzionano bene i racconti che hanno un’immagine di base. Sì, una storia che confluisce nella condensazione di un’immagine plastica che, senza spiegare troppo, apre vasti campi di senso. Se invece si decide di rendere esplicito l’ambiente, è meglio usare tratti, un lavoro visivo, quasi da copione, dire il minimo indispensabile, suggerire, essere una telecamera sulla spalla che vede parte del paesaggio in movimento e non un piano fisso.

No aceptes caramelos de extraños (Uqbar, 2011), è l’ultima raccolta di racconti di Andrea Jeftanovic.

Il finale

Alejandra Costamagna: Il finale è importante nella misura in cui punta a chiarire una situazione o un momento, senza lasciare arbitrariamente una vicenda in sospeso. M’infastidiscono, però, i finali che appiattiscono e concludono relegando il lettore a una sola chiave di lettura. I finali tipo rullo di tamburi. Ecco, questi mi annoiano immensamente.

Había una vez un pájaro (Cuneta, 2013), è l’ultima raccolta di racconti di Alejandra Costamagna.

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La definizione di un buon racconto

María José Viera-Gallo: «Un buon racconto è come un vulcano in eruzione».

Un buon racconto è come un vulcano in eruzione. Da lettore, non voglio vedere la cartolina del vulcano da lontano, ma starci dentro e bruciare. Non mi piacciono i racconti “perfetti” che imitano o cercano di imitare, ad esempio, il principio dell’iceberg di Hemingway. Tra il ghiaccio e la lava, la lava. Preferisco i racconti più liberi, più impuri e meno controllati, che contengono un’emozione travolgente in movimento che ti conduce in un luogo – emotivo – dove non eri mai stato prima. In altre parole, la trama mi interessa poco. Mi affascinano i personaggi, ciò che avviene all’interno. Così, tutto ciò che accade sarà dall’interno verso l’esterno. Personalmente mi piacciono i racconti come quelli di Salinger, Capote, Lispector, Munro, Bolaño, in cui la ferita è aperta e la storia consiste nel cercare di rimarginarla, vale a dire ricostruirla. Magari in prima persona. Magari il più autobiografico – per quanto riguarda i sentimenti – possibile. Magari un mondo circoscritto e vicino all’autore. Un racconto che non racconti favole.

Benjamín Labatut: «Un buon racconto ti fa sperimentare la realtà con intensità maggiore».

I racconti sono la base dell’esperienza umana, la sua struttura nucleare. Nasciamo e cresciamo avvolti in essi, e la somma di tutti determina il modo in cui percepiamo il mondo. Creare e raccontare storie è il protocollo di base dell’esperienza umana e in esso radica la sua difficoltà. Un buon racconto ti fa sperimentare la realtà con intensità maggiore. Ti mostra ciò che di solito sorvoli, ciò che non vuoi vedere del mondo o di te stesso. Per questo credo che scrivendo sia necessario dimenticarsi delle “storie buone”, delle sorprese, dei trucchi e dei colpi di scena. Un buon racconto è il tentativo di afferrare qualcosa di estremamente sottile. È di questo che scriviamo. Borges, per esempio, scrisse «Pierre Menard, autore del Chisciotte» quando credeva di essere sul punto di impazzire. Lo avevano operato e sentiva che il suo cervello non funzionava più come una volta. Decise di scrivere un racconto per dimostrare di non aver perso l’uso delle sue facoltà mentali. Una poesia non sarebbe servita – visto che, secondo lui, le poesie le scrivono le Muse – le esigenze proprie di un racconto, invece, gli sarebbero servite per scongiurare la discesa nella follia. Se avesse fallito avrebbe smesso di scrivere per sempre. Pierre Menard finì con l’essere il primo racconto di Finzioni, un libro che avrebbe cambiato il corso della letteratura.

Andrea Jeftanovic: «La parte migliore di un racconto è ciò che non viene detto».

Mi piacciono i racconti che dalla prima riga seminano turbamento o puntano dritti alla giugulare. Una frase forte che faccia sì che non si possano staccare gli occhi dalla pagina. Una frase sconvolgente, sconcertante e che funzioni come ipotesi dell’ordine strano delle cose. Mi piacciono molto i racconti di autrici, forse perché fanno un uso peculiare del detto tra le righe e hanno una violenza contenuta. Clarice Lispector e Katherine Mansfield fanno di casalinghe apparentemente innocue, vere filosofe della condizione umana. Scrivono con il coltello, non con la matita. Leggo anche molti romanzi, ma il romanzo è rischioso: può essere arrogante; il racconto è più umile, cela molte fibre, dice il minimo e, se detto bene, è un tripudio. Trovo che i casi clinici delle pazienti di Sigmund Freud, come la paralisi alle braccia nel caso di Anna O. e l’odore di pane bruciato in quello di Lucy R., siano profili psicologici eccezionali. La parte migliore di un racconto è ciò che non viene detto.

Romina Reyes: «I racconti migliori sono quelli che hanno strati di significato».

Con i racconti, e con la letteratura in generale, mi succede di trovarli buoni quando riescono a generare qualcosa in me. Qualcosa che vada oltre il mero intrattenimento che può essere la lettura. Credo che i racconti migliori siano quelli che hanno strati di significato, in cui un gesto non è solo un gesto, ma nasconde un mondo. L’aspetto interessante del racconto è che, essendo più contenuto, offre una sfida.

Alejandra Costamagna: «Mi piacciono i racconti che prendono in considerazione il silenzio».

Preferisco, in generale, i racconti che suggeriscono anziché esplicitare. Vale a dire, che considerano il silenzio un aspetto della narrazione. I racconti che si allontanano dalla magniloquenza e prestano attenzione ai dettagli e ai piccoli gesti. Soprattutto quelli che si avvalgono del ritmo e della musica del testo per condurci oltre l’aneddoto che si staglia in superficie. Mi piacciono i racconti che parlano in un “io naturale”, avvicinando la lingua parlata a quella scritta.

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