Autorappresentazione, identità e bellezza nelle interazioni virtuali. Ce ne parla Minou Arjomand, attraverso un’analisi dei romanzi di Amanda Filipacchi e Miranda July e della trasmissione di MTV Catfish. L’articolo è stato pubblicato originariamente su Public Books. Ringraziamo l’autrice e la testata.
di Minou Arjomand
traduzione di Martina Testa
Che spunti possono offrire le pagine Tumblr, gli status di Facebook e le foto su Instagram per una trama? Che tipo di personaggi si sviluppano per influsso dei social network? I romanzi The Unfortunate Importance of Beauty di Amanda Filipacchi e The First Bad Man di Miranda July presentano entrambi narratrici che riflettono continuamente sul modo di esternalizzare la propria interiorità. Il loro mondo funziona come Tumblr: l’identità personale diventa un accumulo di immagini messe in circolazione, pose e performance.
Come è successo a molte persone nate negli anni Ottanta, il mio primo incontro quasi-sessuale è avvenuto online, a casa di un’amica, e per scherzo. Olga disse: «Vuoi vedere una cosa buffa?» e aprì aol. Fingemmo di avere 17 anni e mentre stavamo leggendo una descrizione di organi genitali («18 anni, maschio») entrò la madre di Olga e lei strappò via il cavo del computer dal muro.
All’epoca, era chiaro che quelle interazioni non erano reali. Non avevano nulla a che fare con noi personalmente (che vuoi che sia un nickname?) né con il nostro mondo. Anche solo la quantità di tempo necessaria per collegarsi con un modem dial-up distanziava internet dal mondo circostante, e la presentazione virtuale di sé stessi si limitava alla scelta delle dimensioni e del colore di una font. Ma era la metà degli anni Novanta. Oggi le compagnie digitali puntano tutte sull’autenticità. Facebook non solo insiste affinché gli utenti usino il proprio «vero nome» ma stabilisce anche le regole in base alle quali riconoscere un vero nome.[1]
Stando agli imprenditori della «sharing economy», siamo alle soglie di un nuovo sistema socioeconomico in cui l’importanza delle interazioni virtuali supererà quella delle relazioni faccia a faccia. La base di questo nuovo sistema sta nella credibilità che le persone si costruiscono online e nello sviluppo di parametri per misurare l’autenticità dei loro profili. Rachel Botsman, coautrice di What’s Mine Is Yours: The Rise of Collaborative Consumption, saluta l’avvento di un «movimento globale» di scambi online che «mette la gente in condizione di creare legami significativi, legami che ci permettono di riscoprire un’umanità che ci eravamo persi per strada».[2] Grazie ai nostri profili internet siamo in grado di esprimere un’autenticità che non è più possibile nel mondo reale; come dice Kim Kardashian della sua sorellastra, «Dovete guardare il suo Tumblr. È tipo, tale e quale alla sua anima».[3]
Un’anima-Tumblr è un’anima esternalizzata, l’anima di una persona che riflette meticolosamente sulla propria apparenza e ne cura la presentazione. La narratrice di The Unfortunate Importance of Beauty è una donna che decide di dover mascherare la sua strabordante bellezza. È convinta che il suo miglior amico si sia suicidato perché la amava senza esserne ricambiato e vuole proteggere gli altri uomini da una bellezza tanto pericolosa. Al tempo stesso è stufa della gente che ci prova con lei solo sulla base dell’aspetto fisico e crede che la sua maschera di bruttezza allontanerà a priori gli uomini superficiali e inaffidabili e la aiuterà a trovare il vero amore. Si copre i lunghi capelli biondi lisci come seta con una parrucca grigia corta e crespa, gli occhi azzurri con delle lenti a contatto marroni, il corpo perfetto con una tuta imbottita che la fa sembrare cicciona. Indossa questo costume perennemente, anche se di tanto in tanto se lo toglie in pubblico per far rimpiangere agli uomini di averla ignorata mentre era in modalità racchia.
Al centro di The Unfortunate Importance of Beauty ci sono due conflitti. Il primo segue la tipica trama di un thriller romantico mirato al pubblico di massa: la narratrice deve risolvere un mistero e al tempo stesso appurare le vere intenzioni della persona di cui è innamorata. Il secondo conflitto è più radicale: la narratrice cerca qualcuno che la ami per la sua autentica personalità, ma il problema è che è una persona completamente vuota.
La narratrice, non a caso, si chiama Barb: ha l’aspetto di una Barbie, ma è anche di un’insolita antipatia. La conosciamo grazie a descrizioni ripetitive del suo lussuoso appartamento e del suo aspetto (i suoi occhi «verde acqua» sono citati non meno di tre volte nelle prime trenta pagine). Gli altri personaggi vengono presentati a forza di stereotipi e curriculum. La migliore amica di Barb è «una scrittrice di successo. I cinque romanzi che ha pubblicato sono stati elogiati dalla critica, tradotti in una ventina di lingue e oggetto di corsi universitari. Dal secondo, L’angelo liquido, è stato tratto un film». L’uomo di cui è innamorata è «il presentatore di tg locale più amato d’America […] Anche se non fosse così carismatico e affascinante davanti alle telecamere, l’episodio di tre anni fa, quando è entrato di corsa in un edificio in fiamme e ha salvato tre bambini, l’avrebbe comunque reso il beniamino degli americani».
Ho fatto fatica a superare le prime cento pagine del libro. Da quel punto in poi, però, è subentrato un effetto quasi ipnotico, come quando uno scrolla il feed di Facebook e pensa a quanto trova odiosi i propri amici. Amanda Filipacchi trasforma i tic più fastidiosi dei social media in materia da romanzo: i check-in presso istituzioni culturali (la Zankel Hall) e ristoranti di lusso (il Cipriani Downtown, il Per Se); la falsa modestia del cosiddetto humblebrag («Mi sentivo il viso rattrappito e accartocciato, devastato dalla tristezza, come se fossi invecchiata di vent’anni, ma ogni volta che mi guardavo allo specchio, sperando di vedermi malridotta come mi sentivo, non era mai così»); continui aggiornamenti su sensazioni del tutto banali («Sono triste per Penelope, dopo la lite con suo padre, e sono triste per Georgia per il romanzo che ha perso. Soprattutto, però, sono arrabbiata per quello che è successo a Lily»). Il romanzo della Filipacchi funziona lì dove attinge a modalità di autoespressione che il lettore riconosce subito come stereotipate.
Nel corso della storia i personaggi si riducono sempre più a fenomeni superficiali, finché Lily, l’amica di Barb che soffre per amore, va letteralmente in pezzi, trasformandosi in vetro e frantumandosi a terra. Amanda Filipacchi fa però capire che i giudizi di valore che possono distruggere la vita a una donna sono tanto arbitrari quanto mutevoli. Dopo la scomparsa di Lily, i redattori delle riviste di moda decidono di «trasformare la bruttezza di Lily nella nuova bellezza». Nessuno pensa che una «ridefinizione radicale dell’idea contemporanea di bellezza» possa avvenire da un giorno all’altro,
Ma si sbagliano.
Succede.
Virtualmente.
Ecco come. Prima di tutto, l’articolo di Georgia suscita un acceso dibattito mediatico sulla bellezza. Due giorni dopo l’uscita dell’articolo, Ellen DeGeneres annuncia che dedicherà una puntata del suo show al tema della sfortunata importanza della bellezza fisica nel mondo di oggi.
E da qui è un crescendo per alcune pagine, finché, nel giro di poco, i chirurghi plastici non iniziano a operare la gente per farla assomigliare di più a Lily. Il romanzo lascia intendere che grazie ai media e ai social network qualunque cosa – perfino un paio di occhi troppo ravvicinati – può diventare un meme che cambia il comportamento delle persone. Le donne del romanzo, specialmente Barb e Lily, sono tutte vittime in un modo o nell’altro, soggette ai capricciosi trend della bellezza e con un bisogno disperato di trovare uomini che le amino. Suona tutto vero, anche se ben poco sorprendente.
La Filipacchi è brava a scrivere di cose che sappiamo già secondo modalità che riusciamo facilmente a riconoscere e consumare. Miranda July, invece, affronta più o meno lo stesso tipo di temi, l’identità personale e l’amore, in una prosa che risulta spesso inaspettata e destabilizzante. Laddove a Barb interessa soprattutto che gli uomini la amino per i motivi giusti, la narratrice della July, Cheryl, vive dilemmi più esistenziali sulla relazione fra l’identità personale e l’aspetto esteriore: «Ero forse del miele che crede di essere un orsetto, senza rendersi conto che l’orsetto è solo la forma della bottiglia in cui è contenuto?»
Cheryl è una donna single di mezza età che è estremamente a disagio nei rapporti umani e vive perlopiù immersa nella sua vivida immaginazione. Come Barb, cerca continuamente di esternalizzare la propria interiorità. Ma mentre Barb vuole rivelare agli altri la sua parte più intima, Cheryl vuole disfarsene completamente. Alcune delle sue strategie di autocancellazione sono abitudini quotidiane come il suo rigidissimo sistema di organizzazione delle faccende domestiche, che «mi consente un’esperienza di vita più fluida […] Dopo giorni e giorni, tutto scorre così liscio che non riesco neanche più a percepire me stessa, è come se non esistessi». Altre sono legate a fantasie sessuali in cui Cheryl, con il progredire del romanzo, si allontana sempre più da sé stessa. Per Cheryl non si tratta di usare le fantasie o i rapporti sessuali per evadere da sé stessa: abbandonare sé stessa è la sua fantasia.
Cheryl è interessata sentimentalmente a due persone: Phillip, che ama non corrisposta da anni, e una ragazza di nome Clee. Verso l’inizio del romanzo Phillip la invita a cena. Lei va in bagno, già convinta che la serata segnerà l’inizio di una relazione con Phillip:
Mi sedetti sul water e mi guardai le cosce con nostalgia. Ben presto sarebbero state perpetuamente avvinghiate alle sue, mai più sole, neanche quando lo avrebbero desiderato. Ma non si poteva fare altrimenti. Avevamo passato dei bei momenti, io e io. Immaginai di sparare a un vecchio cane, un vecchio cane fedele, perché era così che mi sentivo rispetto a me stessa. Vai bello, acchiappa. Mi guardai partire diligentemente al piccolo trotto. Poi abbassai il fucile e successe questo: che cominciai ad andare di corpo. Non era previsto, ma una volta iniziato la cosa migliore era finire. Tirai lo sciacquone e mi lavai le mani e solo per caso mi capitò di lanciare un’altra occhiata al water. Lo stronzo era ancora lì. Bisognava immaginare che fosse il cane, colpito, ma che non voleva ancora morire.
È ironico che, malgrado questa fantasia dello spararsi, Cheryl lavori in un’azienda specializzata in corsi di autodifesa per donne. Per motivi di lavoro conosce Clee, la figlia del suo capo, e accetta controvoglia di ospitarla in casa. Il rapporto fra Clee e Cheryl inizia come una sorta di fight club, e la loro tensione erotica si manifesta in scontri fisici e verbali all’ultimo respiro. Dopo un certo numero di questi scontri spontanei, Cheryl comincia a fantasticare di rimettere in scena dal vivo dei video di autodifesa. Sulle prime si preoccupa di quello che succederà quando Clee capirà che lei ha imparato le mosse dai dvd: «Ora mi avrebbe visto, avrebbe visto chi ero veramente. Una donna che ha copiato la propria femminilità da altre donne».
Il titolo del libro è preso da una di queste ricostruzioni: Clee dice a Cheryl che farà la parte del «primo cattivo» del video: «Era la posizione in cui stava quando lo disse: i piedi piantati a una certa distanza l’uno dall’altro, le grosse mani in attesa a mezz’aria. Proprio come un cattivo, di quelli che arrivano in una cittadina sonnacchiosa e ne combinano di tutti i colori per poi ripartirsene al galoppo. Non era il primo cattivo in assoluto, ma era il primo che avessi mai incontrato con i capelli biondi lunghi e i pantaloni di ciniglia rosa. Fece schioccare con impazienza la gomma che stava masticando».
Dopo che Clee diventa «il cattivo» nei loro combattimenti, Cheryl comincia ad avere delle fantasie sessuali su di lei. Le vive tutte come attraverso gli occhi di Phillip. Immagina di tappare «con una mano la bocca mugolante di Clee […] Non la mia mano: quella di Phillip. Diede un colpo di bacino così forte che le orecchie pelose gli tremarono». Lei e Clee ricominciano il gioco, ma la nuova fantasia lo rende più difficile: «Adesso giocavo a qualcosa di diverso. Mimavo affondi col ginocchio e colpi col gomito, ruotando goffamente attorno a un’erezione fantasma». Quando la fantasia con Phillip si esaurisce, Cheryl prende la forma di altri personaggi: l’idraulico, un padre indiano, «vecchi nonni che non facevano sesso da anni, ragazzetti vergini di nome Colin, barboni infetti da epatite. E poi qualunque uomo avessi mai conosciuto».
Via via che Cheryl si spinge oltre nella ricerca di nuove fantasie, The First Bad Man ci ricorda che la finzione è sempre radicata nella realtà. Per Miranda July in questo c’entra molto il genere sessuale. Nelle sue fantasie, Cheryl usa la lingua di un uomo di mezza età che guarda un sacco di porno: fra le sue preferite ci sono parole come bocce, patata e sborrare. La virilità che Cheryl adotta nelle sue fantasie è iperbolica e piuttosto rivoltante: in una di queste, racconta Cheryl, «premetti la mia testa spelacchiata contro le sue bocce […] dopo preliminari così lunghi, l’esplosione fu immediata e incredibile. Quando sborrai feci un gran casino, c’era sperma ovunque. Non solo sui suoi capelli, le bocce e la faccia, ma anche sulla trapunta e sullo scendiletto. Un filo di sperma colpì addirittura il ripiano del comò». Le performance di virilità di Cheryl, come le sue performance di femminilità, sono copie delle copie.
Gli ambienti sociali in cui abitano Cheryl e Barb non hanno affatto il peso della realtà. In entrambi i casi si tratta di contesti straordinariamente omogenei, fatti di persone più o meno come loro. Nel proiettarsi verso l’esterno, tutte e due le narratrici creano un mondo che sembra emergere dalle loro nevrosi e dai loro desideri. The First Bad Man, affrontando il ruolo della violenza di genere all’interno della vita immaginaria dei personaggi, quantomeno lascia intendere che i desideri di Cheryl siano a loro volta collegati a una storia e a un mondo che vanno al di là della narratrice. Questo mondo più ampio quasi non esiste in The Unfortunate Importance of Beauty, cosa strana per un libro che nel titolo diagnostica un malessere della società.
In un pezzo scritto per la rubrica Page-Turner del sito del New Yorker, Amanda Filipacchi dice a proposito del suo romanzo: «Perché per molte persone, anche intelligenti e brillanti, la bellezza conta più di ogni altra cosa nella valutazione degli altri esseri umani, e in particolare delle donne?»[4] The Unfortunate Importance of Beauty parla della bellezza all’interno di un gruppo molto specifico: le professioniste bianche benestanti di una grande città. Come analisi critica del privilegio, il progetto sembra un po’ carente, sia per la miopia dell’ambiente sociale descritto, sia perché per queste donne il successo – nonostante la loro carriera – in definitiva si misura in base al matrimonio con un buon partito. Il romanzo sembra dire che il giudizio della gente sulla bellezza potrebbe improvvisamente cambiare, con una sola puntata di Ellen DeGeneres. Così facendo minimizza lo stretto legame che esiste fra la percezione della bellezza e certe ineguaglianze tutt’altro che superficiali. Può essere difficile capire dove finisce la bellezza e dove comincia la classe sociale. L’assicurazione sanitaria e dentale, l’accesso a prodotti alimentari freschi, i personal trainer e i vestiti di buona fattura – per non parlare della chirurgia estetica – rendono molto più facile essere belli se si è ricchi. La fantasia secondo cui le convenzioni estetiche possono cambiare dalla sera alla mattina sminuisce il fatto che gli standard di bellezza in particolare, e più in generale «la valutazione degli altri esseri umani», sono legati a profonde eredità di razzismo, discriminazione contro i disabili, etnocentrismo ed eteronormatività.
È impossibile parlare dell’importanza della bellezza senza parlare anche di come la razza, la classe sociale, il sesso e le disabilità contribuiscono alla nostra valutazione della bellezza stessa. Questo lo dimostra efficacemente da quattro anni Catfish, un programma in onda su mtv. La trama è molto simile a quella di The Unfortunate Importance of Beauty: il programma parla di una persona che si nasconde dietro una maschera, nella speranza (solitamente) di trovare l’amore. Ogni episodio ripropone la stessa dinamica. I presentatori, Nev e Max, intervistano qualcuno che si è innamorato su internet (il «bersaglio») ma senza mai aver incontrato dal vivo l’altra persona. Nev e Max poi rintracciano la persona in questione per scoprire se è un catfish [letteralmente, «pesce gatto»], ossia qualcuno che assume una falsa identità online per adescare il bersaglio. Nella seconda metà di ogni puntata, il «pesce gatto» e il «bersaglio» si incontrano. Nev e Max ostentano sorpresa nello scoprire l’identità del pesce gatto (che quasi sempre non è chi dice di essere). Spiegano, da una prospettiva prettamente maschile, perché è sbagliato mentire e chiedono al pesce gatto perché mai ha voluto fingere di essere, per dire, un maschio bianco eterosessuale invece che una persona di colore transessuale. La discussione che ne nasce riguarda quasi sempre il privilegio e la discriminazione. Spesso l’impostore risulta più simpatico della vittima della truffa.
Nell’episodio intitolato «Harold & Armani», Armani e Harold si parlano al telefono ormai da quattro anni e Harold sta pensando di chiederle di sposarlo. Viene fuori che Armani è Tamila, una donna dal fisico più tarchiato e con la pelle più scura di quella nella foto profilo. Tamila dice a Harold che a parte la foto il resto è tutto vero; Harold se ne va. Tamila spiega che ha messo una foto profilo falsa perché i ragazzi preferiscono le ragazze con la pelle chiara. Parla di quanto è difficile conoscere persone su internet usando la sua foto vera. Non è un problema di bassa autostima a cui si può trovare una soluzione facile (sentiti a tuo agio con la pelle che hai e piacerai anche agli uomini!). Tamila ha ragione: sui siti di dating online gli uomini neri, bianchi, asiatici e ispanici rispondono tutti con più frequenza al messaggio di una donna bianca o ispanica che a una donna nera.[5] Se cerchiamo di analizzare il significato della bellezza o dell’attrazione in questo contesto, appare chiaro che è impossibile sganciare l’idea di bellezza dalla discriminazione razziale.
In Catfish non si mente solo sul proprio aspetto fisico. Nella puntata «Rico & Ja’mari» si scopre che Ja’mari non è il modello internazionale che dichiarava di essere, bensì un conducente di autobus di nome James che vive a casa coi suoi. Viene fuori che ha anche dato un nome falso e ha la fedina penale sporca. Quando arriva il momento del faccia a faccia, James arriva a cena con pile di documenti legali e cartelline: è stato arrestato perché «rientrava nel profilo» (giovane nero) del sospettato in un caso di reato contro la proprietà e ha passato due anni in carcere prima di dimostrare la propria innocenza.
In Catfish la gente si crea una falsa identità non solo per conformarsi a certe norme sociali di bellezza, ma anche per sfuggire a forme più profonde di razzismo strutturale. È un elemento importante, perché i fautori dei siti di scambio peer-to-peer e della sharing economy, come Rachel Botsman, parlano molto del fatto che questi siti offrono maggiore apertura, autenticità e democrazia rispetto al mondo reale. Catfish dimostra che l’autenticità e la democrazia non necessariamente vanno di pari passo: in fondo, quanto più fedelmente i profili virtuali rispecchiano le identità del mondo reale, tanto più l’economia virtuale ne replica le ineguaglianze.[6]
The Unfortunate Importance of Beauty e The First Bad Man ci offrono entrambi delle narrazioni via selfie. La narratrice assume e sfoggia varie pose in una serie di ritratti in primo piano. Percepiamo la vaga presenza di uno sfondo, ma vediamo perlopiù la narratrice che ci blocca la visuale. Catfish ci fornisce un punto di vista più ampio: un’istantanea del modo in cui strutture e relazioni di potere molto reali si intersecano e vanno a incidere sulla possibilità di esprimere la nostra identità, anche nei mondi virtuali.
© Minou Arjomand, 2015. Tutti i diritti riservati.
[1] Fra gli articoli recenti sulla politica di Facebook riguardo i «veri nomi»: «Online “Authenticity” and How Facebook’s “Real Name” Policy Hurts Native Americans», Washington Post, 10 febbraio 2015; Biz Carson, «The Fight over Facebook’s Real-Name Policy Is Back», Business Insider, 7 maggio 2015; Amanda Holpuch, «Facebook Users Plan Protest against Site’s “Real Name” Policy at Headquarters», Guardian, 30 maggio 2015.
[2] Rachel Botsman, «The Currency of the New Economy Is Trust», video girato per TEDGlobal nel giugno 2012.
[3] «Kris’s Mother-in-Law», Al passo con i Kardashian, stagione 8, episodio 12 (inedito in Italia).
[4] Amanda Filipacchi, «The Looks You’re Born with and the Looks You’re Given», Page-Turner (blog del New Yorker), 12 dicembre 2014.
[5] Ken-Hou Lin e Jennifer Lundquist, «Mate Selection in Cyberspace: The Intersection of Race, Gender, and Education», American Journal of Sociology, vol. 119, n. 1 (luglio 2013), pp. 183-215.
[6] Studi recenti hanno dimostrato che i venditori neri, negli annunci online, ottengono minore fiducia e ricevono offerte in minor numero e di minore entità rispetto ai venditori bianchi. Analogamente, un recente studio della Harvard Business School mette in luce la discriminazione contro gli host neri di Airbnb a New York. Cfr Jennifer L. Doleac e Luke C.D. Stein, «The Visible Hand: Race and Online Market Outcomes», Economic Journal, vol. 123 (novembre 2013), pp. F469-F492; Max Besbris, Jacob William Faber, Peter Rich e Patrick Sharkey, «Effect of Neighborhood Stigma on Economic Transactions», PNAS, vol. 112, n. 16 (2015), pp. 4994-4998; Benjamin G. Edelman e Michael Luca, «Digital Discrimination: The Case of Airbnb.com», Working Knowledge, 28 gennaio 2014.
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