Poco prima che uscisse la notizia che Ben Lerner era fra i vincitori del «Genius Grant» della MacArthur Foundation per il 2015, John Freeman ha incontrato lo scrittore per parlare delle sue opere, delle sue paure riguardo al futuro del dibattito negli Stati Uniti, e degli ultimi cambiamenti che ha subito la sua vita. Il pezzo è apparso originariamente su Electric Literature, che ringraziamo.
Ben Lerner è l’autore dei romanzi Un uomo di passaggio (Neri Pozza) e Nel mondo a venire (Sellerio).
di John Freeman
traduzione di Martina Testa
Nel settembre del 2001 Ben Lerner abitava in una casa profondamente sporca di West Providence insieme al suo amico d’infanzia Cyrus Console. I due poeti stavano finendo i corsi di specializzazione alla Brown University e vivevano da giovani bohémien. La sera bevevano un sacco di vinho verde – dato che la vicina enoteca era gestita da un portoghese – e di whisky. Console dava da mangiare carne rossa ai pipistrelli che in piena notte volavano in tondo sopra il cortile sul retro. «Mi sa che per tutto il tempo che siamo stati lì non abbiamo mai mangiato verdura», ricorda Lerner. «Però siamo riusciti a finire i nostri primi libri in quella casa fredda, freddissima, fredda da morire».
È stato sempre in quella casa fredda, il mattino dell’11 settembre 2001, che Console svegliò Lerner per guardare insieme i servizi del telegiornale sugli attentati al World Trade Center. Nei giorni successivi ne videro un sacco, di telegiornali. Fra le varie storie che giravano c’era il servizio di un notiziario di un grosso network secondo cui in mezzo al fumo di una torre in fiamme sarebbe apparso il volto di Satana. «Quel momento non è stato la fine dell’innocenza rispetto all’impero americano», dice oggi Lerner, «è stato la presa di coscienza del fatto che le forze dell’impero non dovevano neanche più fingere di portare avanti un discorso razionale […] che lo svilimento del linguaggio aveva raggiunto un nuovo livello».
Lerner mi dice questo in un’email, ma la cosa incredibile è che parla così anche di persona, senza suonare, che ne so, come se fosse a una tavola rotonda del Brooklyn Book Festival. Seduto fuori da un caffè di Park Slope che vende flat white da quattro dollari e torte senza glutine, incarna alla perfezione certi stereotipi brooklynesi: scarpe da ginnastica e occhiali retrò, un bicchierone di tè freddo in mano. Si tiene accanto un iPhone col vetro rotto, che ronza di continuo. Ma quando Lerner apre bocca e comincia a parlare della fenomenologia di un futuro di ineguaglianza e incertezza o dell’insostenibilità del nostro stile di vita, diventa chiaro che queste per lui non sono solo frasi di circostanza. Se vogliamo mettere sotto esame l’etica del privilegio in questo momento storico, è fondamentale l’esigenza di riappropriarsi del linguaggio e della sua precisione.
Il motivo per cui siamo seduti qui non è la poesia di Lerner, che gli ha fatto ottenere vari premi e l’ha reso il più giovane finalista al National Book Award degli ultimi anni, o il «Genius Grant» della MacArthur Foundation che ha appena vinto, ma un romanzo che ha scritto «per caso», Un uomo di passaggio. Il titolo inglese, Leaving the Atocha Station, rimanda alla stazione ferroviaria spagnola devastata nel 2004 da un attentato terroristico; il libro racconta la storia di un giovane poeta di nome Adam che va a soggiornare in Spagna grazie a una borsa di studio Fulbright, come ha fatto lo stesso Lerner. Adam passa le sue giornate e girare per i musei, a fumare erba, a corteggiare due donne diverse. Di pagina in pagina si dibatte in un mare di insicurezze e nella sensazione di essere un truffatore.
Il libro sarebbe potuto finire relegato da un pezzo nella montagna di romanzi sugli scrittori sfigati, se non fosse così spiritoso e pervaso da un caustico spirito di osservazione. Il disprezzo che Adam nutre per sé stesso è legato a doppio filo alla sua insularità di americano. Ritrovandosi in compagnia di vari gruppi di spagnoli impegnati nella protesta politica, Adam sprofonda sempre più nelle sue nevrosi, fantasticando e desiderando che esploda un’altra bomba, e immaginando, in tal caso, i suoi «amici negli USA, la loro meraviglia e forse invidia per la morte che mi era toccata, per come la Storia era venuta a trovarmi».
Fondamentalmente, Un uomo di passaggio è un’analisi approfondita di due questioni collegate fra loro. La prima, spiega Lerner, è se si possa «basare il proprio rapporto con l’arte sull’ansia per la mancanza di autenticità». Adam è partito per la Spagna con l’intenzione di comporre un poema epico sulla Guerra Civile, ma una volta lì in pratica non scrive neanche una parola. Si convince che la poesia sia inutile. Questo arrovellarsi attorno all’idea del presunto potere della poesia è un tema su cui Lerner ha riflettuto molto. Qualche tempo fa, sulla London Review of Books, ha illustrato le ragioni per cui la poesia, per essere davvero poesia, deve in un certo senso fallire, perché l’idea della poesia che sta nella testa del poeta è destinata a non incarnarsi mai appieno sulla pagina. L’anno prossimo una versione di questo saggio uscirà sotto forma di libro.
La questione più grossa che affronta il romanzo, però, riguarda il potere americano e in particolare l’etica del privilegio e dell’auto-identificazione attualmente dominante. Per dirla con Lerner, «il punto è che si torna sempre a incontrare l’americanità in termini di violenza, assimilazione e capitale, anche all’estero. E quindi, stranamente, da una parte si reinventa sé stessi ma dall’altra le informazioni sull’attentato avvenuto a due passi di distanza si ottengono leggendo il New York Times».
Fuori dal caffè di Park Slope, chiedo a Lerner dove ha avuto origine il suo interesse per questi temi, e la risposta è tanto chiara quanto sorprendente. Mette un bel bastone fra le ruote a chi vorrebbe ridurre gli Stati Uniti a un monolite con un’inutile regione centrale da sorvolare in aereo e basta. «Sono cresciuto in una famiglia ebrea di sinistra in uno stato a grande maggioranza repubblicana, mia madre era apertamente femminista e ho studiato filosofia politica e la tradizione della sinistra», spiega, «quindi sono sensibile alla valenza politica del linguaggio – o meglio, allo svilimento del linguaggio nel contesto del capitalismo e dell’imperialismo – fin da quando ero ragazzino, negli anni Ottanta, e in parte è stato proprio questo a portarmi a scrivere poesia».
In altre parole, una certa sensibilità l’ha acquisita a Topeka, in Kansas.
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Qui è necessaria una breve divagazione. Esistono parti del Kansas che sono ben note sacche di progressismo, fra cui Lawrence, dove William S. Burroughs trascorse i suoi ultimi anni, a due passi dall’Università del Kansas, con i suoi bar e la vita notturna gay. Oppure Wichita, dove si è recentemente votato in favore della depenalizzazione del possesso di marijuana, riducendo la pena a una multa da 50 dollari.
Ma Topeka è ben diversa. La città è più nota per le sue tensioni razziali. È stata sede del primo asilo per bambini di colore a ovest del Mississippi ed è lì che Oliver Brown, un saldatore alle dipendenze della linea ferroviaria per Santa Fe, prese parte a una class action contro il governo degli Stati Uniti affermando che il sistema di segregazione delle scuole «separate ma uguali» era incostituzionale. Con la sua vittoria [la cosiddetta sentenza Brown vs. Board of Education, n.d.t.] si aprì un capitolo del tutto nuovo nella storia dei conflitti razziali in America. Topeka è la capitale dello stato, ma basta salire in macchina e uscire di qualche chilometro dalla città per vedere cieli immensi.
«Era un bel posto in cui crescere», dice Lerner. «C’erano tanti spazi aperti… William Stafford, un poeta del Kansas, dice che è uno stato che possiede una “preziosa irrilevanza”. […] Non c’era nessun senso di esclusività, nel bene e nel male. Non esistevano le belle arti […] ma c’era anche […] questa sensazione di apertura».
I genitori di Lerner erano entrambi psicologi specializzati in terapia familiare, e lavoravano alla clinica Menninger, un istituto psichiatrico fondato in mezzo alle praterie nel 1925. All’attività clinica la madre di Lerner affianca la scrittura: è autrice di un’influente monografia intitolata La danza della rabbia, che è arrivata nella classifica dei bestseller del New York Times ed è stato il primo libro pubblicato negli Stati Uniti sul tema della rabbia femminile.
I Lerner cenavano quasi sempre tutti insieme e incoraggiavano i figli a parlare ed esprimersi. «Non era terapia di gruppo», spiega Lerner, «ma [la vita in famiglia] era molto, molto basata sulle parole. Era importante… condividere le emozioni e non tenersi le cose dentro».
Cyrus Console, il suo coinquilino a Providence, cresciuto anche lui a Topeka e qualche anno più grande di Lerner, ricorda che l’amico aveva delle doti verbali più che precoci: «Alle superiori era una specie di “duro”, ma era anche uno dei più grandi campioni americani di tutti i tempi nelle gare di dibattito e improvvisazione oratoria». Console non sta esagerando. Lerner è stato campione statale di dibattito nella specialità Discorso Estemporaneo per tutti e quattro gli anni delle superiori, e campione nazionale l’ultimo anno. Detiene il record nazionale di punti guadagnati nel Dibattito Forense in tutta la storia delle competizioni. Non si tratta solo delle vecchie glorie di un nerd. È stato in quelle palestre polverose delle scuole superiori di provincia – guardando i concorrenti che tentavano di «asfaltare» gli avversari aumentando al massimo il numero delle argomentazioni, per quanto sciocche, in modo da costringerli a rispondere a tutte – che Lerner ha intravisto un riflesso spaventoso del dibattito politico americano.
La sera, dopo le gare di dibattito, Lerner partecipava a feste piene di birra in casa di amici e passava a un’altra fondamentale modalità oratoria di quel periodo, l’hip hop, dando vita a battaglie di freestyle. Immagine piuttosto comica, visto e considerato che quasi tutti i presenti erano ragazzini bianchi di buona famiglia. Qualche anno fa Lerner ha scritto un pezzo su Harper’s [comparso in italiano su Almanacco Sellerio 2014-2015, n.d.t.] in cui spiegava come quell’improbabile collisione di forme retoriche abbia fatto di lui la persona che è oggi:
Quando sputavo raffiche di argomentazioni in una scuola semideserta con indosso un completo comprato al centro commerciale, quando facevo il piccolo wankster bellicoso a suon di rime in un seminterrato, quando ero una matricola ignorante che abbandonava i cliché del romanticismo macho del Midwest in nome dei cliché dell’avanguardismo poetico, stavo, sia pure in maniera improbabile, reagendo a una crisi molto reale: la standardizzazione del paesaggio e della cultura, la separazione nazionale dei valori dalle politiche, un discorso politico impoverito […] volto a naturalizzare la follia tipica della nostra cultura. Ero un suddito giovane e privilegiato – maschio, bianco, di ceto medio – di un impero in cui ogni identità a disposizione era falsa, ma quando sentivo il linguaggio collassare mentre lo parlavo – mentre parlava attraverso di me – mi sembrava, in mezzo a un senso di desolazione generale, che altri mondi fossero possibili.
Due dei mentori di Lerner alle superiori, Ed Skoog ed Eric McHenry, avevano a loro volta dei trascorsi nelle competizioni di dibattito, e sotto la loro guida Lerner cominciò a considerare la poesia come un modo per creare un legame significativo col lettore e al tempo stesso salvare il linguaggio dal suo progressivo degrado. Poi ci fu l’intervento del destino. A sedici anni, Lerner stava curiosando fra gli scaffali della libreria Barnes & Noble di Topeka e in una sezione dedicata ai vincitori di premi letterari si imbatté in un libro di John Ashbery. «Ne rimasi sconcertato, frastornato», ricorda. «Non avrei saputo dire se mi piaceva o meno, all’inizio restai semplicemente incastrato in quello strano macchinario».
Lerner non era solo in questo graduale avvicinamento alla poesia. Anche Console scriveva in versi, così come un numero notevole di altri poeti locali. In effetti, da Topeka in quel decennio sono usciti così tanti poeti che li si potrebbe etichettare come una «scuola», se non fosse per le loro differenze estetiche.
Molti di questi poeti sono rimasti a Topeka. Ma Lerner sapeva che non sarebbe stato il suo caso. «Avevo sempre saputo che avrei lasciato Topeka per andare all’università e non mi ci sentivo in trappola», ha scritto nel pezzo di Harper’s. E così, seguendo il fratello Matt, si iscrisse alla Brown, che all’epoca, come del resto tuttora, era particolarmente nota per il suo nutrito gruppo di scrittori sperimentali, dal romanziere Robert Coover ai poeti Michael Harper e Keith Waldrop, entrambi vincitori del National Book Award.
Lerner iniziò a studiare filosofia politica e il primo corso di poesia che frequentò fu quello tenuto da Harper, del quale aveva il terrore. Il modus operandi era quanto mai sganciato dalla pratica. «Non insegnavano veramente, capisci in che senso?», dice dei docenti della Brown. «Erano, come dire, esempi di artisti viventi con delle opinioni ben precise, e ci facevano leggere i libri che loro ritenevano importanti».
«Andai a sentire un reading dei Waldrop», dice, riferendosi a Keith Waldrop e alla moglie Rosemarie, una delle traduttrici più importanti e prolifiche dell’America del dopoguerra. «E mi dissi: oddio, chi è questa strana coppia di anziani stregoni, e cos’è questa roba avanguardista senza senso che però su di me sta facendo presa? […] Avevano una casa incredibile: cioè, accoglievano chiunque, e quando sei uno studente alle prime armi puoi far finta di essere uno scrittore, e loro ti ascoltavano e non ti giudicavano e ti trattavano come se avessi davvero qualcosa da dire».
Al terzo anno, i poteri magici dei Waldrop si trasmisero anche a Lerner: una sera scrisse dieci sonetti, che andarono a formare la base del suo primo libro, The Lichtenberg Figures, una serie di poesie da quattordici versi ciascuna, giocose e fortemente associative, che saltano dal linguaggio dell’intimità a quello della pubblicità a quello dell’apocalisse. «Potrebbe tutto ciò andare avanti per sempre / in senso buono?», si chiede una poesia, in senso brutto.
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Quando è uscito The Lichtenberg Figures, Lerner aveva ormai finito la Brown e si era trasferito in Spagna, dove ha vissuto per un anno grazie a una borsa di studio Fulbright. «È stato un misto di contingenze e desideri», dice. «Volevo imparare lo spagnolo, ma volevo anche visitare il Marocco e il Portogallo; in Spagna c’ero già stato un paio di volte. Mi interessava il fatto che la guerra civile spagnola fosse stato un tale catalizzatore internazionale per gli intellettuali di sinistra».
Il periodo trascorso da Lerner in Spagna è stato sia simile che diverso dall’esperienza di Adam. Ha passato in effetti molto tempo a visitare musei e sentirsi confuso, ma lo stile della sua scrittura non è necessariamente testimoniale e autobiografico, come quello di Adam. «Mi interessa di più quello che ne resta fuori», dice. «Considero il personaggio di Adam Gordon come un ragazzino… E provo tenerezza verso di lui perché condivide alcune delle mie ansie. È una sorta di mio alter ego, anche se fra noi ci sono differenze enormi. E lo immagino come un ragazzino che sta un po’ mettendo alla prova il suo rapporto con l’arte e facendo i conti con la mortalità dei genitori».
Di fatto, in Spagna Lerner ha passato un sacco di tempo da solo a scrivere il suo secondo libro di poesie, Angle of Yaw, «angolo d’imbardata», che prende il titolo dall’angolo di salita di un’astronave al decollo, visto dall’alto. La critica politica, che in The Lichtenberg Figures rimaneva sommersa, qui diventa totalmente esplicita. «In tutta l’America, dal sottosuolo e dalla superficie, da gibbosità in fiamme e pozzi profondi, da aerei dirottati e miniere crollate», recita una delle prose poetiche del libro, «la gente usa il cellulare per chiedere non aiuto o aria o luce, ma informazioni».
Quando è uscito Angle of Yaw Lerner viveva a Berkeley, in California, con la moglie Ari, che seguiva un dottorato in scienze dell’educazione. Finito il dottorato, la coppia si è trasferita a Pittsburgh per insegnare, ha comprato casa, e per la prima volta Lerner ha cominciato a provare l’irrequieto desiderio di esprimersi in una forma nuova. Il saggio che stava scrivendo su Ashbery e la poesia continuava a crescere su sé stesso. «Non mi ero reso conto che stavo scrivendo un romanzo», racconta di quel periodo. «Per un sacco di tempo ho opposto resistenza all’idea che stessi scrivendo un romanzo. Mi pare che sia utile dire “non sto facendo una certa cosa”, per sfuggire a un particolare tipo di pressione».
A Lerner non interessava tanto ricordare il passato, quanto analizzare la natura ambigua dell’esperienza umana sullo sfondo di forze più vaste. Ashbery, che Lerner definisce sia una spinta propulsiva che una minaccia, è un po’ il padrino del libro. «Ha coniato un’espressione sulla quale ho riflettuto a lungo nel romanzo, ossia l’esperienza dell’esperienza. Le sue poesie non parlano di esperienze particolari. Hanno a che fare con l’esperienza del fare esperienza, che è un po’ la definizione dell’astrazione». Per molti versi Un uomo di passaggio affronta il periodo trascorso da Lerner in Spagna con un analogo potere di rifrazione.
Il romanzo cerca anche, a suo modo, di rivendicare un certo radicalismo formale. Il testo è intervallato da fotografie, poesie, e una lunga chat fra Adam e il suo amico Cyrus, che in Messico è testimone di una morte per annegamento. «Sai, è un po’ come Moby Dick: dentro c’è una pièce teatrale, ci sono manuali di caccia alle balene, e spesso è scritto in pentametro giambico», dice Lerner. «E questa eteroglossia dei romanzi veramente ambiziosi, sperimentali, mi attira molto, anche se i libri che scrivo io non sono certo a quel livello».
Uno dei punti di forza di Un uomo di passaggio è il fatto che assorbe questi impulsi radicali senza compromettere la forma e la velocità della narrazione. All’uscita il libro ha subito riscosso un grande successo di critica. È entrato in una decina di liste dei migliori libri dell’anno, ha venduto qualcosa come 30.000 copie dopo una piccola prima tiratura in tascabile, ha vinto il Believer Book Award e sta rapidamente diventando un oggetto di culto fra i giovani scrittori alle prese con la frustrazione politica e il senso di colpa per l’apparente incapacità di raccontare tale frustrazione in maniera nuova.
Jonathan Franzen, che è stato uno dei primi sostenitori del romanzo, lo ammira ancora per il tentativo di inquadrare quell’ansia in un contesto più ampio. «Dal punto di vista politico, quello che mi ha colpito è stato il modo tangenziale in cui Lerner affronta l’attentato di Atocha, che getta un’ombra su tutto il libro e aggiunge – all’infelicità di un narratore la cui ansia originaria è talmente forte che genera una smodata concentrazione su sé stesso e gli richiede l’assunzione quasi costante di farmaci – una triste consapevolezza del provincialismo americano in mezzo al disordine politico globale», mi ha scritto Franzen in un’email. «In questo senso, il libro è una sorta di versione più colta di Girls: entrambi criticano l’egocentrismo dell’America privilegiata proprio sguazzandoci dentro».
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Se ci sono state delle resistenze nei confronti di Un uomo di passaggio, derivano dall’aver percepito la concentrazione su di sé come l’argomento del libro invece che il modo per veicolarne le idee. Lorin Stein, direttore della Paris Review, su cui ha pubblicato diverse poesie di Lerner e parti del suo secondo romanzo, Nel mondo a venire, trova sorprendente una certa lettura dell’opera di Lerner.
«Mi sorprende che i critici descrivano così di rado Ben come uno scrittore politico», dice Stein. «I suoi libri non solo affrontano in maniera profonda temi politici, ma sollevano anche la questione di quanto potrebbe essere serio o comico un romanzo americano realistico che non notasse i cambiamenti nel panorama politico ed economico (o anche nel panorama puro e semplice, se è per questo)».
Lerner sembra concordare con questo giudizio non solo per quanto riguarda il realismo, ma il romanzo in generale, e il suo ruolo negli Stati Uniti di oggi. «Mi sembrerebbe sbagliato scrivere un romanzo ambientato nel mondo contemporaneo che non fosse pervaso di tutta questa follia», dice Lerner.
La cosa più importante, però, è che questa miscela – di percezione personale e dimensione politica – deriva direttamente dalla visione del mondo che ha l’autore nella vita reale. All’indomani di Un uomo di passaggio, Lerner e la moglie sono tornati a New York, e nel passeggiare per la città lui si è reso conto di avere davanti agli occhi la miglior fonte di ispirazione possibile se voleva raccontare la follia.
«C’è la ristrutturazione della città a immagine e somiglianza del mondo finanziario, dove sembra che ovunque vai sei già arrivato. E poi c’è il cambiamento climatico, ma con la sfumatura inquietante che è dappertutto ma può anche scomparire se uno è in una posizione di privilegio. Per dire, in California manca l’acqua ma al supermercato biologico ancora per un po’ gli avocado li trovi comunque. Insomma, c’è questo divario… e il punto diventa: il problema è ovunque, ma dove lo si percepisce veramente? In quale luogo si fa esperienza di un cambiamento tanto sconvolgente?»
Tutte queste domande – e non solo – si riversano in Nel mondo a venire, l’ultimo romanzo di Lerner, che a prima vista ha molti aspetti in comune con Un uomo di passaggio. Il protagonista è uno scrittore senza nome che ha appena firmato un grosso contratto editoriale in seguito al sorprendente successo del suo primo romanzo. La scena di apertura si svolge sulla High Line di New York, dove il narratore festeggia con un costoso pranzo a base di polpi che sono stati letteralmente massaggiati a morte affinché lui li possa mangiare.
Ben presto, però, il romanzo si distacca dall’opera precedente di Lerner. Laddove Un uomo di passaggio ritraeva impietosamente l’impotenza della poesia e dell’arte e l’incapacità di creare legami del suo protagonista, Nel mondo a venire medita su quelli che Lerner chiama «luoghi di possibilità, all’interno di un sistema su cui si è perso il controllo». Il protagonista, che potrebbe avere o meno un grave problema di salute, acconsente ad aiutare un’amica a mettere al mondo un figlio da sola. Lavora in una cooperativa alimentare di Brooklyn dove conosce una donna mediorientale la cui vita è stata messa sottosopra dal corso della Storia.
Mentre Un uomo di passaggio scavava sempre più a fondo nel solipsismo di Adam, Nel mondo a venire scarta continuamente di lato, verso una nuova scena. Lerner definisce queste transizioni come «passaggi del microfono». In questo modo una serie di personaggi racconta la propria storia dentro la storia. Lerner tira in ballo Virginia Woolf, il modernismo e il problema dei dialoghi prima di arrivare a una spiegazione più semplice per questa nuova struttura. «A me quello che viene sempre difficile è immaginare di avere accesso diretto alle altre menti».
Anche se la struttura di Nel mondo a venire ha risolto il problema di Lerner dal punto di vista narrativo – trasformando il narratore da una coscienza che orienta a una che media – rimane di base irrisolta la questione di cosa si possa veramente raccontare. «Non so scrivere da una posizione che non sia quella di un alter ego di me stesso», dice Lerner, «ma non so scrivere neanche di un’esperienza di vita concreta, non mediata, con tutto ciò che questo comporta».
Nel districarsi fra questi due problemi che si rafforzano a vicenda, il romanzo si rivolge all’esterno, con un movimento continuo. Nel mondo a venire è un romanzo pieno di camminate, e ambientato quasi interamente in spazi pubblici: per le strade, dove il narratore passeggia contemplando la città, nei locali che fanno a gara per essere più studiatamente retrò, in una scuola dove si presta come volontario ad aiutare un bambino a fare i compiti, nei musei dove lo porta dopo le lezioni. Per molti versi si ha l’impressione che Lerner creda profondamente che siano questi i luoghi dove la polis americana può ricostruirsi e contrastare le forze a cui lui si oppone con la scrittura.
«La cooperativa è facile da prendere in giro e carica di retorica», dice Lerner, ancora sorseggiando il tè, «e piena zeppa di contraddizioni, ma è anche uno spazio in cui le condizioni di lavoro sono migliori e dove una storia come quella che racconto può avvenire in virtù di questo lavoro, per quanto stupido possa essere».
Il romanzo si collega bene al terzo libro di poesie di Lerner, Mean Free Path, che prende il titolo da un termine della fisica che descrive le traiettorie delle particelle in collisione nello spazio. Il libro raccoglie una serie di poesie d’amore che tentano di creare uno spazio per questo sentimento in un contesto di violenza e distruzione.
«Sono tutti e due libri scritti per Ari», commenta Michael Wiegers, l’editor della casa editrice Copper Canyon Press, facendo notare che Lerner li ha dedicati entrambi alla moglie, «come se avesse bisogno di affrontare i concetti più ampi di impero e di potere prima di potersi dedicare in pieno al linguaggio del matrimonio, e alla libertà di amare senza dover fare ricorso alle espressioni più riduttive, più tradizionali dell’amore. La sfera politica apre la strada a quella personale, proprio come il personale lo spinge a confrontarsi col politico».
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Mentre la nostra conversazione volge al termine, appare chiaro che Lerner passerà gran parte del suo prossimo anno a vivere in questo spazio, non solo a rifletterci sopra. Fra una settimana esatta sua moglie ha l’appuntamento per un parto cesareo. Ari viene a prendere Lerner per andare un’ultima volta a pranzo fuori insieme prima che la loro vita cambi di nuovo. Ha un gran pancione ed è radiosa, mentre Lerner è apprensivo, anzi addirittura scettico di qualunque parvenza di saggezza acquisita.
«Per me è soprattutto un enorme tradimento di [nostra figlia]», dice, riferendosi alla primogenita, Lucia, «anche se lei di suo è esaltatissima, perché faccio proprio fatica a immaginare… di amare un altro bambino quanto amo lei, e non riesco a decidere se sarà un amore del tutto diverso, o un’unica forma di amore che abbraccia entrambi. È un problema fondamentalmente di divisione.
«Però non lo so, per me è ancora una cosa irreale. E credo che resti irreale: un tempo pensavo che l’irrealtà fosse un segno di oppressione o di rimozione, mentre ora penso che l’irrealtà sia proprio un attributo di certe esperienze».
Quando tornerà la tranquillità, ha qualche idea per un nuovo romanzo. Gli sta crescendo dentro come un sogno. «Ho scritto delle cose», dice, «e non è tanto che non mi piacciono, quanto che non mi sembra che siano parti di qualcosa. Sono più dei bozzetti. Come dire, mi sono svegliato e mi è parso di avere un’idea per un romanzo, ma poi mi sono reso conto che l’idea era semplicemente che mi piacerebbe scrivere un romanzo».
© John Freeman, 2015. Tutti i diritti riservati.
John Freeman è l’editor di Freeman’s, rivista letteraria semestrale pubblicata da Grove Press. È stato il direttore di Granta e ha pubblicato il saggio How to Read a Novelist (FSG) e l’antologia Tales of Two Cities: The Best and Worst of Times in Today’s New York (OR Books).
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