Heredia, il personaggio dei romanzi dello scrittore cileno Ramón Díaz Eterovic è forse il più longevo detective della narrativa latinoamericana: compare in ben dodici avventure a partire dal 1987. La casa editrice Atmoshpere ha appena pubblicato l’ultimo titolo della saga, L’oscura memoria delle armi. Proponiamo ai lettori del blog la lettura della postfazione di Emilia Perassi.
di Emilia Perassi
Con L’oscura memoria delle armi, il ciclo poliziesco inaugurato da Ramón Díaz Eterovic nel 1987 con La città è triste arriva al suo dodicesimo episodio. Gli elementi chiave che hanno caratterizzato la saga di Heredia – il detective dal nome così assurdo che di fatto non verrà mai rivelato – ci sono tutti: Santiago e i suoi personaggi periferici, gli amici e il quartiere, la marginalità e la memoria. Solo che adesso Heredia ha cinquant’anni ed è da più di venti che sta cercando di togliere un po’ di pus dalle ferite di una città che dopo la dittatura “se ne sta ancora con le viscere aperte, a dissanguarsi come una bestia lasciata morire lungo il cammino”. Attraverso le sue indagini, il personaggio più accattivante e onesto della letteratura cilena ha infatti messo a fuoco una radiografia sociale capace di visualizzare l’ossatura di una “democrazia di cartongesso”, come spiega l’autore in un’intervista, “dove in quanto a ombre, cattivi odori dal passato, negoziati e tentennamenti di ogni tipo gli argomenti sono d’avanzo”. Pieno di malinconia e disincanto, ma anche di un impulso etico-utopico che lo istiga a una permanente ricerca di verità, ancorché in frammenti, Heredia – solitario e solidale al tempo stesso – si congeda in questa puntata dal suo lettore esprimendo un desiderio: chiudere per cinque settimane quel bugigattolo miserevole e precario che è il suo ufficio per mettersi finalmente a leggere la ventina di romanzi rimasti impilati sul suo comodino.
In pieno svolgimento dell’indagine, a un certo punto Heredia ha spiegato a un attonito Montegón, che non aveva mai visto tanti libri insieme, perché legge: “Per vivere, per sognare, per capire in che mondo mi trovo”. In un’altra occasione, conversando con lo Scriba, alter ego dell’autore, ha commentato che detective e scrittori si occupano della stessa cosa: “In qualche modo, indagare era il compito di entrambi. Io lo facevo per smascherare i responsabili di qualche delitto o reato, lui per rendere ragione del mondo nel quale gli era toccato vivere ”. L’affermazione non è nuova, ovviamente, e costituisce l’intelaiatura del poliziesco nella sua versione postmoderna. Tuttavia, nel caso del romanzo di Díaz Eterovic il riferimento ai libri non figura come decoro o moda per aggiustare ‘ermeneuticamente’ il ritratto del suo detective: agisce semmai come precisa indicazione dell’impianto politico-ideologico che alimenta di una sua specifica identità e funzione il genere neopoliziesco cileno e, più ampiamente, vasti settori di quello latinoamericano attuale.
Di fatto, in L’oscura memoria delle armi, i libri segnalati, gli autori e le citazioni disseminate lungo il testo paiono scelti con un’attenzione speciale. Suggeriscono una biblioteca essenziale alla quale il lettore è invitato a rivolgersi, poiché è lì che quelle verità che potere e crimine non cessano di voler occultare sono state scritte e iscritte con una qualità di permanenza e durevolezza che solo uno sguardo volutamente latitante può negare. Se l’eticità di Heredia punta a ricordare, a non far dimenticare che il sottosuolo del presente è perforato da una rete (un labirinto?) di tunnel che connettono con un passato che, come tale, non è affatto passato, non è solo la sua azione o quella dei testimoni a costruire memoria, ma anche il rinvio a quella catena di parole, racconti, ricerche che già da decenni – a partire dal golpe del 1973 – hanno certificato, documentato, denunciato l’attività criminale dello Stato.
Questo rinvio si attua a partire dalla vittima, Germán Reyes: sopravvissuto a uno dei centri di detenzione più tristemente famosi, Villa Grimaldi, devastato per sempre dal trauma della tortura, Germán riesce ad affidare la sua testimonianza solamente ai membri della Commissione Valech. Non è fittizio questo nome, poiché corrisponde alla commissione istituita nel 2003, cioè trent’anni dopo il golpe, dall’allora presidente Ricardo Lagos Escobar, presieduta da monsignor Sergio Valech, allo scopo di far luce sulla tortura e la prigione politica provocate da agenti dello Stato nel periodo compreso fra l’11 settembre 1973 e il 10 marzo 1990. Ne è il prodotto una relazione, l’Informe Valech (2004) alla cui realizzazione concorrono circa trentamila testimoni, che diedero parola alla ‘cospirazione del silenzio’ sulla tortura in Cile, argomento negato e anche oggi difficilmente affrontato non solo dalla società civile, ma dagli stessi scrittori. Ramón Díaz Eterovic è in questo senso tra i pochi a infrangere tale silenzio. La presenza del Rapporto Valech come testo deposto alle radici della trama di L’oscura memoria delle armi riduce, fino quasi a volerle annullare, le distanze fra storia reale e racconto, rendendo quest’ultimo più cronaca e meno finzione, pratica di resistenza al silenzio e luogo di memoria. Il genere del ‘neopoliziesco’, così definito da un altro importante esponente di questa forma della letteratura , il messicano Paco Ignacio Taibo II, mostra qui con particolare evidenza la sua novità latinoamericana: l’incidenza costante della tematica dello Stato come generatore del crimine.
I lavori della Commissione Valech poggiano su un altro testo fondamentale, l’Informe de la Comisión nacional de verdad y reconciliación (più noto come Rapporto Rettig), prodotto nel 1990 per certificare i delitti di violazione dei diritti umani perpetrati dalla repressione pinochetista. Alle spalle di questo immenso sforzo di raccolta di informazione e denuncia, pur senza averne la vibrazione testimoniale, il modello del Nunca más, catalogo dell’inferno argentino sotto la dittatura militare (1976-1983), pubblicato nel 1983.
Poiché il Rapporto Rettig si era occupato di dare le proporzioni della tragedia dei desaparecidos cileni, fondandosi dunque sull’assenza delle vittime, scomparse negli oceani o nelle fosse comuni, sarà la relazione Valech a restituire parola all’esperienza dei sopravvissuti, nei quali la tortura si iscrisse come marchio irrevocabile: “Mi torturarono fino a farmi impazzire, venni trattato in modo inumano e non potei più vivere umanamente” dice il ragazzo imprigionato nel 1974 a 21 anni. Le informazioni raccolte consentiranno di ridisegnare la mappa del Cile attraverso le più di ottocento prigioni clandestine che satureranno l’intero spazio della nazione, disseminate e occultate in ogni edificio disponibile, atte a raccogliere le decine di migliaia di persone private di ogni diritto costituzionale a seguito della dichiarazione dello stato di eccezione proclamato dai militari. In maggioranza di un’età compresa fra i diciassette e i ventiquattro anni, queste persone verranno sottoposte a tormento illimitato, non solo per ottenere informazioni sulla rete degli oppositori politici al regime, ma anche per fornire un rituale di ammonimento volto a distruggere con l’orrore e col terrore l’individuo e la società di riferimento, a partire dalla famiglia. In L’oscura memoria delle armi, neanche questo terrore è fatto del passato, ma segno livido che costruisce il Cile contemporaneo: “Paura incistata nella pelle di un paese che occulta le sue verità sotto uno strato di menzogne che fanno comodo a tutti”. Nella sintesi di immagini come questa, che costellano la rappresentazione della città percorsa da Heredia nel suo incessante camminare, tornano a echeggiare le parole delle relazioni di denuncia nelle quali, per attestare l’imponenza della repressione, viene elencata la sfrenata tipologia di sedi ‘attrezzate’ per la tortura e utilizzate per trasformare il paese in un illimitato centro di prigionia: “prefetture, commissariati, sottocommissariati, caserme, questure, scuole, stadi sportivi, licei, case padronali, fabbriche, edifici pubblici, ospedali, sindacati, basi aeree e navali, carceri, stazioni ferroviarie, navi dell’esercito e della marina, procure, municipi, intendenze di finanza, università”. È questo il paese infetto nel quale si aggira Heredia, dove “il passato continuava a riaffiorare dalle crepe di una società abituata alle commedie, alle scenografie in pompa magna e ai maneggi dietro le quinte, come una ferita mal rimarginata che stillava il suo siero putrido alla minima distrazione”. Un paese sul quale non solo si estende l’ombra di crimini non consegnati alla giustizia, di torturatori protetti dall’impunità, di vittime dimenticate, ma abitato dalla presenza negata di coloro che ancora vivono, nonostante la demolizione della loro identità. Il Rapporto Valech dedica loro una riflessione di particolare intensità prospettica: “Se si considera che circa il 58% (15.771) delle vittime aveva meno di trent’anni al momento della detenzione, è da supporre che le conseguenze della tortura e della prigionia abbiano compromesso il conseguimento degli scopi del progetto vitale proprio di quest’epoca della vita, cioè il progetto di vita familiare e lavorativa, l’affermazione della propria identità sociale”.
Alla luce di questo commento, Germán Reyes mostra la pienezza delle sue funzioni narrative, che lo incaricano di rappresentare i sopravvissuti che hanno testimoniato: come tale, è sua l’impossibilità a essere mai più normale; la pratica della solitudine e dell’incubo; la perdita del proprio progetto vitale; l’estrema difficoltà a esprimere un’esperienza che non ha ascolto, sepolta dalla paura, propria e altrui, dall’ipocrisia o dall’indifferenza. La storia di Germán diventa paradigma di quelle raccolte dalla Commissione Valech, specchiando nella sua parabola fittizia la realtà delle voci che si sono affidate a quell’istituzione. In L’oscura memoria, i due testi entrano in contrappunto: ciò che Germán non riesce a raccontare, viene delegato nel romanzo alla citazione delle testimonianze sulla tortura tratte dall’Informe; ciò che l’Informe non riesce a dire – per i limiti istituzionali posti alla sua redazione dai negoziati col passato voluti dalla ‘democrazia degli accordi’ del presidente Patricio Aylwin, che governò la transizione – trova un tentativo di più diffusa espressione nell’ampiezza del romanzo, che minuziosamente opera nel dar voce a silenzi.
Antisolenne, asciutto, colloquiale, il linguaggio de L’oscura memoria produce tuttavia un discorso complesso, che ha a che fare con le forme e i testi della memoria. Da un lato, lo si è detto, si tratta di una memoria presente nell’archivio (i rapporti delle commissioni); dall’altro, ci si confronta anche con una memoria ‘eccessiva’, cioè fuori dall’archivio, poiché, oltre alle vittime, parlano i torturatori, codificando anch’essi una propria memoria. Al tempo stesso, accanto al ‘testo’ prodotto da Heredia (la sua indagine), si colloca il ‘testo’ di Germán (i suoi quaderni, adulterati dai repressori per occultare i nomi). Si disegna qui, con lucidità, il tema della memoria della dittatura, che è disputa fra memorie combattuta con le subdole armi del segreto, della maschera, delle false identità.
Ma questo è anche il romanzo, per alcuni il più maturo di Ramón Díaz Eterovic, in cui assistiamo alla radicalizzazione delle posizioni politiche di Heredia, che cita con tenerezza, e senza istinti parodici, la seduzione inesauribile del modello donchisciottesco, facendone l’emblema di un controdiscorso della resistenza da opporre all’egemonia delle apparenze, dei poteri forti, dei ‘miti d’oggi’ (il consumo, lo spettacolo, il denaro). Heredia ha perfettamente compreso la magnitudine delle ‘forze del male’. Se il nemico è il sistema, la ricerca dell’ordine e della giustizia non potrà che tradursi in atto fallito. Questo sentire alimenta indubbiamente la prospettiva antieroica e solitaria del personaggio, compensata però da un atteggiamento centrale (e proprio della narrativa testimoniale e d’impegno latinoamericana che si solidifica a partire dagli anni settanta): la solidarietà con le vittime. È questo il motore della sua ricerca di verità, termine che non necessariamente si coniuga con quello di giustizia, dirà in finale di romanzo. In questa ricerca non sarà solo. Lo accompagneranno, sul piano del presente, quei personaggi che, come lui, pur vinti, permarranno ribelli e, sul piano del passato, quei libri che hanno già raccontato e difeso la verità dell’essere umani. Fra quelli menzionati nel romanzo, troviamo versi o citazioni dal catalano Jaime Gil De Biedma, il messicano Jaime Sabines, il cileno Carlos Droguett, autori che non hanno esitato nel collocarsi ai margini e nella differenza, ospitando un pensiero critico sulla modernità di radicale determinazione. Heredia si circonda della loro autorità morale. Ramón Díaz Eterovic vi specchia il lignaggio dal quale deriva la sua concezione della letteratura, nella quale l’arte si vincola alla vita e alla politica. Anche qui il neopoliziesco trova una sua specifica declinazione criolla: a cominciare proprio dalla Città è triste, è entrato nel ciclo della narrativa sull’autoritarismo, così emblematica e propria dell’espressione letteraria latinoamericana. Ha coniugato gli umori dell’hard boiled statunitense con il rigore del romanzo sociale cileno, costruendo quel ‘ciclo del postgolpe’ nel quale, di fronte all’illegalità dello Stato e al dominio dell’autoritarismo, viene messa sotto inchiesta l’equazione crimine e potere politico negli ultimi quattro decenni. In L’oscura memoria delle armi vengono a convergere questi vasti percorsi, che non restano astrazioni di una storia generale, ancorché collettiva, ma esperienza anche generazionale di un scrittore che riesce costantemente ad accorciare distanze, prima fra tutte quella fra storia e finzione, poi quella fra vissuto dell’autore e quello del personaggio. Diciassettenne nel 1973, Ramón Diaz Eterovic è coetaneo del suo Heredia, che in quegli stessi anni sta frequentando l’università. Il golpe ha rappresentato per quelli che erano allora dei ragazzi una cesura netta fra un prima e un dopo, fra la nostalgia di un’età migliore, nella quale si è stati capaci di pensare il mondo per migliorarlo, e la malinconia per l’età attuale, amnesica e senza sogni, chiusa in una quotidianità mimale priva di ogni grandezza. Ma è anche leggendo certi libri, ascoltando la parola purissima di chi ha vissuto ogni dolore e l’ha messo in poesia, che il pessimismo diventa attivo, come succede a Heredia quando legge i versi dell’argentino Juan Gelman dedicati al figlio desaparecido: “L’orrore affiorò dal calamo del poeta rammentandomi che ogni mio passo era legato a un passato che aveva diviso la mia vita in due. Da un lato l’età dell’illusione e dall’altro la stagione del ribrezzo alla quale non potevo sottrarmi”.
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