Pubblichiamo oggi la prima parte di un’interessante intervista di Juan Carlos Fangancio a Ricardo Piglia uscita su Buensalvaje, ringraziando l’autore e la testata.
«Ricardo Piglia: il lettore come creatore» / 1
di Juan Carlos Fangacio
traduzione di Claudia Tebaldi
Per molti è il maggiore scrittore argentino vivente, ma Ricardo Piglia (Buenos Aires, 1941) si sente ben lontano dallo status di leggenda. Narratore, saggista, critico, professore, la sua attività sembra irrefrenabile e in costante innovazione, confermandolo come una delle voci più audaci dell’America Latina e del mondo. Il suo ultimo romanzo, El camino de Ida, è stato considerato tra i migliori del 2013. E anche se i premi e la critica lo sostengono, quella di Piglia è un’opera che parla da sola. O che parla attraverso lui. Poiché nel suo mondo tutto – opera e uomo, realtà e finzione – assolutamente tutto, si confonde.
A metà dello scorso anno, Ricardo Emilio Piglia Renzi condusse un ciclo di quattro puntate nella televisione pubblica argentina – che, per nostra fortuna, si trovano su YouTube – nelle quali disquisiva sull’opera di Jorge Luis Borges. L’immagine non era solo quella del discepolo che riflette sul maestro. C’era anche un’altra riflessione (nella sua accezione di riflesso): quella di Piglia che replica la figura dello scrittore-lettore – che Borges incarnò meglio di chiunque altro – quella del letterato che ha letto qualsiasi cosa, macchina di citazioni e riferimenti, erudito abitante di biblioteche.
E benché Piglia non sia cieco come Borges, anche lui «legge male». È un presbite intenzionale, perché la letteratura ha bisogno di cattivi lettori. La sua opera si è arricchita con la sua inclinazione a distorcere testi propri e altrui, a spostarli dal loro contesto, dotandoli di significati nuovi e impensati. Perciò, al momento di metterci mano, possono scoprirsi tracce e indizi inverosimili, come gli investigatori che, se non risolvono i loro casi in modo casuale, lo fanno grazie alla semplice inerzia, seguendo la pista meno probabile. Per questo aspetto, quindi, Piglia può anche essere paragonato a Roberto Bolaño, seppure il detective del primo risulti meno selvaggio, ci imbatteremo sempre in un intrigo e in un investigatore (un lettore, alla fin fine) che segue delle tracce. O meglio: che utilizza un qualche mistero come scusa perfetta per cercare qualcosa di più, un senso che può essere terreno, spirituale o filosofico, ma che non mantiene sempre le proprie radici nel letterario.
Tutto sommato, Piglia è un miope eccezionale perché riesce a vedere l’invisibile. Il critico e poeta spagnolo José Luis García Martín ha detto che «il meglio delle sue narrazioni è il loro aspetto saggistico, e il meglio dei suoi saggi è il lato narrativo»; cioè la chiave della sua opera è ciò che è occulto, che rimane sempre nascosto, come succede negli scritti del suo ammirato Hemingway. Per questo i suoi testi meritano più di una lettura, perché tra gli interstizi incontreremo quelle strane fiammate che inaspettatamente ci illuminano gli occhi.
Già dalla fine degli anni Sessanta comincerà a dar mostra del suo stile con i racconti La invasión e Nombre falso dove farà la sua apparizione Emilio Renzi, personaggio abituale nei suoi scritti e una specie di alter ego dello scrittore. Ma solo nel 1980, con la pubblicazione del suo primo romanzo, Respirazione artificiale, emergerà con una rinnovata maturità. Dopodiché, la sua produzione continuerà con altri romanzi (Soldi bruciati, Bersaglio notturno, El camino de Ida), saggi (Crítica y ficción, Formas breves, L’ultimo lettore) e altri esperimenti nei quali cancellare i limiti tra i generi non è solo un espediente, ma un modo di concepire la letteratura, decostruirla e tornare a delinearla con la delicatezza di chi riempie un libro vuoto lettera per lettera.
A causa di un piccolo incidente, questa intervista è stata realizzata in due tempi (una misteriosa intromissione della duplicità caratteristica di Piglia). Qui l’autore parla dei suoi metodi di scrittura, delle sue influenze e motivazioni, del suo ritorno definitivo in Argentina dopo vari anni passati a Princeton come professore, di cinema, di calcio, e di vari altri temi che lui stesso inserisce così come accade nelle sue storie migliori: per mezzo di costanti salti tra realtà e invenzione. L’unico rischio – che non possiamo scartare – è che Piglia dia vita alla finzione anche nelle interviste. Ma a questo punto, ci importerà più di tanto?
JCF: Lei di solito si è sempre preso il suo tempo per pubblicare, eppure ha pubblicato El camino de Ida in un solo anno. È stata un’eccezione alla regola o ha già trovato un nuovo ritmo di scrittura?
RP: È stato determinato dalle condizioni. Le lezioni all’Università di Princeton mi portavano via molto tempo. Sebbene avessi un sistema di lavoro che consisteva nel lasciare che i libri decantassero prima di terminarli, in questo caso mi è sembrato di aver bisogno di una specie di tensione al momento di scrivere. Volevo trasmettere questa sensazione. Diversa, certamente, dai ritmi del mio lavoro: questa volta ho avuto tutto l’anno libero e ho potuto scrivere tranquillo. Mi sono anche reso conto del fatto che era una buona cosa cambiare, non mantenere questo tono del lavoro proprio dello scrittore, che tanto viene trasmesso alle opere.
JCF: Questa sua tendenza a nutrirsi di testi marginali – come diari, interviste, articoli giornalistici – come viene trasmessa alla sua opera? Come avviene questa transizione?
RP: In generale non faccio questa distinzione di generi, almeno nella misura in cui riesco a stabilire l’ambito dentro il quale si costruisce ogni testo. Sento che gli interventi nei mezzi di comunicazione, quello che scrivo nel mio diario o qualsiasi scritto di critica sono pensati con lo stesso criterio con il quale lavoro nelle opere di finzione. E per questo non faccio fatica a incorporarle ai romanzi e ai testi che sto scrivendo. Nel caso del Camino de Ida, molti dei passaggi sono ripresi quasi letteralmente dal diario personale che scrivevo a Princeton, cosa che aiutava a trasmettere questa sensazione per cui gli eventi stavano succedendo in quel dato momento.
JCF: Scrivendo il suo diario usa la finzione?
RP: Beh, a volte è inevitabile. Diciamo che il diario ha come punto di partenza che uno sia sincero in quello che racconta. L’unico requisito formale sarebbe mettere la data. Ma un altro elemento che ha il diario, e che a me sembra centrale, è che una persona non racconta a se stessa ciò che già conosce. Questo gli conferisce un carattere narrativo molto particolare, che a tratti sembra un effetto della finzione. Perché il narratore del diario sembra qualcuno molto smemorato, nel senso che non stabilisce le connessioni che in un’altra narrazione si stabilirebbero in forma naturale. Questo movimento è una scrittura privata, è un effetto che anche se possiamo chiamare «finzionale», non ha niente a che fare con il contenuto, mi pare.
JCF: Come conduce il processo di scrittura – e riscrittura – delle sue opere?
RP: Io ho sempre avuto un criterio un po’ ironico: scrivere cinque pagine per pubblicarne una. C’è stato un periodo in cui facevo realmente cinque stesure, ma ora la bozza uno la fa mentre scrive al computer. Malgrado questo, scrivo sempre, almeno, tre versioni ultimate del mio libro. Ne scrivo una, dopodiché la riscrivo e poi la scrivo di nuovo, anche quando sto già per mandarla in stampa. Nel Camino de Ida ho steso una prima versione abbastanza rapidamente, anche se ancora non avevo ben chiara in testa la storia di Munk (il terrorista). Ho cominciato a scrivere con la sola idea che la protagonista sarebbe morta in un attentato, ma senza sapere come sviluppare il resto. Quindi ho trovato la linea narrativa mentre scrivevo. La prima stesura mi è servita per definire la storia.
JCF: Trovo il tema del dualismo molto presente in tutta la sua opera. Dalla sua «Tesis sobre el cuento» a dettagli più superficiali, come nell’apparizione dei presunti gemelli in Soldi bruciati e delle gemelle Belladonna in Bersaglio notturno. Si può considerare una delle basi importanti della sua opera?
RP: La verità è che non ci avevo pensato, ma credo di sì. Senza che me ne renda conto, c’è una continuità o una persistenza del tema del doppio. Mi avevano già fatto notare che in Soldi bruciati i due protagonisti sembrano gemelli, ma in realtà non lo sono. Anche se non lo faccio in modo intenzionale, è comunque evidente che c’è una base comune, come se uno avesse nel suo immaginario una zona con dei punti di riferimento. Penso che sia così. Potrei dare una spiegazione per ogni singolo caso, ma la continuità della ripetizione non saprei come interpretarla.
JCF: Il ritmo ha un ruolo molto importante nel configurare il suo stile, e so anche che è un gran cinefilo. Il cinema influisce in qualche modo nella sua opera?
RP: Sono un grande appassionato di cinema, come credo lo sia tutta la mia generazione. Tuttavia, vedo che il cinema possiede una particolarità che lo limita nell’influenza che può avere in letteratura: nel cinema tutto viene raccontato al presente. Pur utilizzando i flashback, quello che vediamo sarà sempre al presente. C’è una restrizione della temporalità che la letteratura, per fortuna, non ha. Ci sono alcuni scrittori che cercano questa sensazione di presente, come Juan José Saer, per esempio; anche se lui la ricerca in una forma più lirica, elaborata, come i poeti che sembrano descrivere sempre ciò che vedono in quel momento. Poi, nel cinema ci sono anche registi che hanno provato a seguire la direzione opposta, come Tarkovski, che cercava di non stabilire una distinzione con il momento del sogno o dell’immaginazione; e, ciò nonostante, anche il sogno e l’immaginazione devono svolgersi al presente. Per questo motivo il cinema, anche se ha grandi pregi e vantaggi, avrà sempre l’inconveniente di non poter uscire dal presente della narrazione, farà sempre molta fatica. Ed è proprio lì che si nota una forte distanza con la letteratura, che ha possibilità maggiori perché i suoi tempi verbali sono molto più flessibili. Detto questo, devo proprio riconoscere l’influenza del cinema. Ho ribadito che il narratore che più ha influito su di me è Jean-Luc Godard. Trovo la sua tecnica d’inserire citazioni nei film incredibilmente innovatrice.
JCF: In varie occasioni ha fatto riferimento alle diverse aree culturali che esistono in America Latina, con tradizioni letterarie molto particolari. Come ha visto la famosa disputa che coinvolse Julio Cortázar e José María Arguedas (quella dei cosmopoliti versus tellurici)?
RP: Be’, sto dalla parte di Arguedas, che mi sembra uno scrittore straordinario, soprattutto per La volpe di sopra e la volpe di sotto. Penso che sia il miglior esempio di scrittore che si occupa della scrittura andina, di scrittore bilingue, con una forte passione per la ricerca. Inoltre la posizione di Cortázar in quel dibattito fu molto debole. Lo stesso accadde a Vargas Llosa con il libro che scrisse su Arguedas (La utopía arcaica), che mi parve molto ingiusto, così come quello che scrisse su Onetti (El viaje a la ficción). Loro (Vargas Llosa e Cortázar) sono convinti che la letteratura evolva, sono storicisti, e per questo credono che Arguedas e Onetti siano dei precursori. Ma la letteratura non funziona così. Non esiste un artista più moderno di un altro perché ha scritto dopo. Arguedas rinnova moltissimo, rinnova tutto, e in questo assomiglia a Rulfo, allo stesso Vargas Llosa, scrittori che hanno innovato la letteratura cercando nella lingua popolare un punto di partenza per poi utilizzare tecniche narrative molto sperimentali. Sicuramente è molto difficile capire Arguedas senza aver presente il contesto della letteratura andina. La stessa cosa, però, succede con Borges e la cultura del Río de La Plata, o con gli autori dei Caraibi. Queste sono aree ben definite. E anche se oggi pensiamo all’unità latinoamericana – parlando politicamente – credo che culturalmente dobbiamo rispettare sempre di più le differenze tra le tradizioni, che sono molto forti. Sarebbe utile se la letteratura regionale cominciasse a concentrarsi di più sulle varie aree culturali, per poi vedere l’articolazione che possono avere.
JCF: A proposito di aree culturali, quelle dell’Argentina sono abbastanza definite, eppure ho l’impressione che ci sia una forte tendenza negli scrittori argentini di parlare tanto di sé stessi, a commentarsi tra loro, fino a generare polemiche e dispute. Questi aspetti influiscono nella consolidazione di una tradizione?
RP: Sì, sicuramente. E si deve anche al fatto che la cultura argentina non ha una tradizione propria. La sua origine si fa risalire solo al XIX secolo. Sebbene ti possa sembrare incredibile, in quel momento si pensò di creare una cultura in lingua francese, perché il castigliano era la lingua del colonizzatore e avevamo bisogno di liberarcene culturalmente. Sarmiento e altre grandi figure della letteratura argentina del periodo pensarono di scrivere tutto in francese. Una follia. E questo conferisce alla letteratura argentina una particolarità, la fa diventare una letteratura del deserto. Proprio per questo motivo credo che ogni scrittore inizi a cercare i suoi padri, zii e nipoti letterari, insista così tanto sul desiderio di incontrare la propria genealogia.
(A questo punto, cade la linea. Una volta ripresa la conversazione, Piglia racconta che è caduto nel suo ufficio, ragion per cui si è troncata la chiamata. È ironico perché anche nella sua opera troviamo questo tipo di tagli. Punti ciechi e fughe che spezzano la logica narrativa e prendono vie inaspettate. Non saltano all’occhio – anzi sono sottili –, ma ci sono sempre. In questo caso, l’interruzione è da attribuire a qualche cavo o oggetto che gli si è impigliato nel piede e lo ha mandato a terra. «Ma va tutto bene. Mettilo nell’intervista per dargli più drammaticità. E continuiamo a chiacchierare».)
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