In linea con la recente polemica Kodama vs Katchadjian, pubblichiamo oggi un’intervista dell’autore argentino Marcelo Damiani a Thomas Norman Di Giovanni, uno dei primi traduttori in inglese dell’opera di Jorge Luis Borges, nonché suo segretario personale e caro amico, coautore della famosa Autobiografia.
L’intervista è uscita su La gaceta, che ringraziamo.
Intervista di Marcelo Damiani a Thomas Norman Di Giovanni
traduzione di Elisabetta Tangorra
Thomas Norman Di Giovanni, di famiglia italiana ma origine statunitense, cittadino inglese con radici saldamente ancorate in Argentina – uno dei suoi figli è nato lì – vive attualmente nel sud dell’Inghilterra, fra Bournemont e Portsmouth & Southsea, molto vicino all’isola di Wight.
Ci ha accolti molto gentilmente in casa sua, poco prima di ripartire per il Sudamerica, con un sacco di progetti fra le mani e la soddisfazione di aver ultimato la traduzione realizzata con la moglie di uno dei capolavori della letteratura argentina del secolo XIX, intitolata El Matadero, di Esteban Echeverría.
Di Giovanni è anche autore del saggio La lección del Maestro, pubblicato da Sudamericana nel 2002, una raccolta di contributi sull’arte della traduzione e Borges, in cui è inserita anche quell’introduzione all’Autobiografia, che non gli avevano permesso di pubblicare insieme al libro. Di questo e di altro ancora parliamo nella nostra intervista.
Quando ha conosciuto Borges e come è stato il rapporto con lui?
Ho conosciuto Borges quasi per caso, negli Stati Uniti, era il 1967. All’epoca stavo preparando un’antologia di poesie latinoamericane in lingua inglese. Un giorno mi recai nell’unica libreria di libri stranieri che c’era a Boston e chiesi Obras completas di Borges. Il negoziante mi porse il libro e mi chiese se sapevo che l’autore avrebbe tenuto un incontro proprio lì, la settimana successiva. Non immaginavo che Borges si trovasse negli Stati Uniti. Quindi andai ad ascoltarlo, un’ottima conferenza, tornai a casa e gli scrissi una lettera, dicendogli che mi sarebbe piaciuto realizzare un libro con le sue poesie in lingua inglese, come avevo fatto di recente con Jorge Guillén, il poeta spagnolo che viveva lì e insegnava a Boston, senza sapere che Borges conosceva bene Guillén, conosceva la sua poesia ed era in contatto con lui. Borges rispose a quella lettera, cosa che non faceva mai, e mi diede il suo numero di telefono. Lo chiamai e mi fissò un appuntamento per il pomeriggio stesso, con le poesie. Gli dissi che non avevo ancora tradotto nessuna delle sue poesie e lui mi disse di andare lo stesso. Iniziò così il solido rapporto che ci unì. Lavorammo quasi ogni giorno per cinque mesi consecutivi e alla fine mi invitò a Buenos Aires per continuare il nostro lavoro. Lui partì ad aprile, credo, ed io arrivai in Argentina a novembre e riprendemmo a lavorare alla Biblioteca Nacional. Pensavo di fermarmi un paio di mesi, ma alla fine furono tre anni e mezzo. Mi occupai di undici libri di Borges, molti dei quali in stretta collaborazione con lui, e mi guadagnai una buona reputazione come traduttore.
Cosa stava scrivendo Borges in quel periodo?
Borges aveva smesso di scrivere. In sette anni aveva composto un solo racconto breve, «L’intrusa» e diceva che non gli riusciva più di scrivere racconti. Dettava sonetti, perché aveva impressa in mente quella forma. Quando lavoravamo ad Harvard, mi aveva detto che si era stufato dei sonetti. Gli domandai perché non tornasse a scrivere versi liberi e lui non mi rispose. Poi, da Buenos Aires mi inviò alcune poesie nuove, pubblicate sul quotidiano La Nación, ed erano molto belle. Quando arrivai, gli domandai se fossero poesie nuove o se si trattasse di materiale vecchio, dimenticato magari in qualche cassetto. «Perché? Non le piacciono?», domandò. «Ma sì, le adoro», risposi. Allora disse: «Sono nuove, dal momento che lei mi aveva detto di non scrivere più sonetti». Gli dissi che quelle diciassette poesie costituivano già la metà di un nuovo libro. «No, no», disse, «non voglio pubblicare più. Non ho dimestichezza con queste cose». Di lì a poco, una sera a cena, insieme a Bioy Casares e a un sacco d’altra gente, Borges disse: «Di Giovanni è dell’idea bizzarra ch’io debba scrivere un altro libro di poesie».
A Bioy e a tutti gli altri parve un’ottima idea e, il giorno seguente, Borges si recò alla Emecé, a trovare Carlos Frías e a vedere se qualcuno avesse qualcosa in contrario e siccome trovò consensi anche lì, tornò e mi chiese di quante altre poesie avessi bisogno per completare il libro. Risposi altre diciassette e il libro fu Elogio dell’ombra. La raccolta conteneva anche tre o quattro piccoli brani in prosa. Borges voleva scrivere storie, me le raccontava, aveva già sette o otto soggetti, ma mi diceva sempre che non ci riusciva. Così dovetti praticamente costringerlo a scrivere Il manoscritto di Brodie. È strano che io potessi avere tanta influenza su di lui. Era un uomo molto insicuro.
Come nacque l’idea di Autobiografia?
Esistevano due o tre antologie della sua opera in lingua inglese. Noi volevamo tradurre L’Aleph. Era assurdo che non esistesse la versione inglese del capolavoro di Borges. Ma per un problema legato alla vendita dei diritti, non ci fu possibile e Borges era furente, perché stava per uscire una nuova antologia e non potevamo aggiungere nulla di nuovo.
Alcuni mesi prima, eravamo stati all’Università dell’Oklahoma, dove Borges aveva parlato della sua vita. Richiesi la trascrizione della conferenza e gli proposi di aggiungere quel materiale al nostro. Accettò, ma il testo era un pasticcio, una digressione dopo l’altra. Allora ricominciammo da zero, seguendo una semplice traccia, per evitare che accadesse la stessa cosa e tre mesi dopo avevamo sessantacinque pagine. In quel periodo Borges si stava separando dalla moglie e c’erano giorni in cui era talmente afflitto che non riusciva a concentrarsi. Io avevo suddiviso la sua vita in cinque capitoli e quando terminammo il primo, lo mandai a New York per testare le reazioni, chiaramente piacque moltissimo. Alla fine non solo fu pubblicato in inglese, ma anche in italiano e in portoghese, non in spagnolo.
La Nación ci propose di fare una versione per loro, ma Borges non voleva e non mi spiegò mai bene il perché, diceva solo che c’erano troppe date. Anni più tardi mi misi a tradurre Evaristo Carriego e lì di date ce n’erano solo sei. Compresi allora ciò che intendeva Borges. Per lui l’essenza di una vita non stava nelle date.
Com’era Borges nel privato, il Borges che pochi conoscono?
Diceva a tutti le stesse cose: secondo mia moglie, seguiva una specie di modello. Poiché, a causa della cecità, non guardava il proprio interlocutore, sembrava che recitasse in continuazione, anche perché era molto timido.
Ho dovuto quasi costringerlo a parlare della sua vita in pubblico. Lo racconto nel mio libro La lección del Maestro. Con me era diverso, mi ha detto cose che non deve aver detto a molta gente, avevamo un rapporto fra pari. E poi, io ero uno dei pochi che gli diceva la verità.
Quali sono i testi di Borges che preferisce?
A me piaceva ciò che scriveva bene (risata). In realtà mi riesce molto difficile scegliere, perché trovo che ci siano racconti molto belli, ma non so se siano i migliori. Spesso le idee di fondo sono grandiose. «Pierre Menard», per esempio, è un’intuizione straordinaria, ma non so se sia un racconto. Personalmente apprezzo molto i racconti di Borges che hanno una base realistica e concetti metafisici. All’estremo opposto c’è «La biblioteca di Babele», un racconto completamente astratto. O ancora, quando uno legge «L’altra morte» si fa un’idea astratta, invece la vicenda è del tutto realistica. Qualcosa di simile succede in «Funes o della memoria». Ogni volta che il pensiero di fondo è metafisico e l’ambientazione è la realtà concreta del bacino del Río de la Plata, per me c’è una combinazione perfetta.
E quali erano i testi che Borges stesso preferiva?
Nel periodo in cui aveva smesso di scrivere, diceva che il suo racconto migliore era «El Sur». Qualcuno sostiene che lui preferisse quello perché era molto autobiografico, ma nulla di ciò che scrisse non lo era. Borges era molto monotematico, nei suoi testi non ci sono personaggi, ma estensioni della propria personalità.
Qual è il ricordo più bello che ha di Borges?
Ho talmente tanti ricordi di Borges che continuo a sognarlo. Credo che i miei ricordi più belli risalgano a quando lavoravamo alla Biblioteca Nacional, perché di fatto stare accanto a Borges significava stare accanto alla letteratura. Mi ha insegnato, inoltre, che leggere è gioia e piacere; mi diceva sempre che se uno si annoia leggendo un classico, dovrebbe buttarlo via, visto che di classici ce ne sono tanti. La letteratura va gustata.
Deve aver letto parecchie biografie di Borges. Quale crede sia la più attendibile?
Per prima cosa, in America Latina non esiste una tradizione della biografia. La maggior parte delle sedicenti biografie di Borges, che di solito trovo illeggibili, in realtà sono una sorta di raccolte di memorie. Le memorie sono utili per tracciare delle piste, ma in ognuna di esse c’è una sostanziale carenza di ricerca seria e gli autori finiscono col porsi sempre in primo piano, al di sopra della stessa figura di Borges e non faccio nomi. E poi, a breve avremo ben quattordici biografie di Borges e, visto che non ebbe una vita avventurosa come per esempio quella di Hemingway, mi pare siano un po’ troppe.
Cosa mi può dire di María Kodama e della sua relazione con Borges?
Una volta era mia amica e oggi continua a essere un mistero. Della sua relazione con Borges posso dire ben poco. Iniziò a studiare da lui il norvegese antico, tutte le domeniche pomeriggio, quando Borges era ancora sposato. Poi, quando nel 1980 tornai a intervistarlo con la BBC alla vigilia dei suoi ottant’anni, già viaggiavano insieme e lei stava sempre con lui. Quattro anni fa, quando stava per uscire Autobiografia in spagnolo, le scrissi una lettera, chiedendole il permesso di includere nel libro un mio ricordo personale di Borges, come testo introduttivo. Lei non rispose. Rispose il suo avvocato, chiedendomi quale fosse la mia offerta. Ma io non stavo offrendo niente, era l’editore che faceva l’offerta per pubblicare il libro. Mi dissero, dunque, che non c’era problema per Autobiografia, ma io non potevo includere il mio ricordo. Che cosa strana! Sono un soggetto probito.
Qualcuno mi ha raccontato che ad Amsterdam, in occasione di un’esposizione dedicata a Borges, Kodama vide le mie traduzioni e ordinò che venissero ritirate. Dev’essere stata la prima volta dopo la seconda guerra mondiale che proibivano libri in Olanda.
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