La realtà letta da un curioso ornitorinco

Francesca Lazzarato SUR

Dal 30 settembre al 2 ottobre si è tenuto a Ferrara il Festival della rivista «Internazionale». «Un weekend con i giornalisti di tuto il mondo», come recita la sintesi del programma. E all’interno della manifestazione, naturalmente, non potevano mancare giornalisti e autori latinoamericani di cui sono usciti recentemente alcuni libri in Italia: la messicana Amalia Guillermoprieto e gli argentini Horacio Verbitsky, Martín Caparrós e Leila Guerrero. Nelle prossime settimane torneremo sull’argomento con interventi scritti ad hoc per il blog, oggi pubblichiamo un articolo di Francesca Lazzarato comparso sabato 1° ottobre sul «manifesto» ringraziando l’autrice e la testata.

di Francesca Lazzarato

Tra giornalismo e letteratura, di volta in volta brillante e suggestiva, intensa o invece misuratissima, la «crónica» è un genere praticato in America Latina da alcuni decenni e circondato ora da un crescente interesse anche in Europa. Ne sono prova la nascita di una collana ad hoc per La Nuova Frontiera e i dibattiti in corso al festival di «Internazionale» a Ferrara Messicana trapiantata negli Usa, Amalia Guillermoprieto nei suoi reportage narrativi descrive il continente latinoamericano con acume e sottigliezza.

In spagnolo si chiama crónica, ma non c’entra niente con i faits divers dei francesi o con la nostra cronaca nera. È invece, qualcosa che sta a metà tra giornalismo e letteratura, ovvero, secondo alcune definizioni correnti, un modo di narrare storie assolutamente vere partendo da una accurata indagine giornalistica, ma usando strumenti e tecniche che consentono di leggere la realtà come un racconto. Un ibrido, insomma: la faccia più letteraria del giornalismo o semplicemente una creatura rara e bizzarra, visto che il messicano Juan Villoro (uno dei migliori scrittori latinoamericani di oggi, autore di crónicas eccellenti come El miedo en el espejo, sul terremoto in Cile, edito quest’anno da Candaya) la paragona a un «ornitorinco della prosa».

Genere intensamente praticato in America Latina a partire dagli anni ’60, sia da scrittori-giornalisti che da giornalisti-scrittori (ognuno dei quali parte dalla propria riva per approdare a quella di fronte, dopo averla lungamente osservata, dice Leila Guerriero), la crónica è oggi al centro di un interesse che ha dato vita a incontri come quello tenuto all’inizio dell’anno all’Hay Festival di Cartagena, o al recentissimo «Encuentro de Narrativas de Realidad», organizzato al Cceba di Buenos Aires: luoghi in cui la si celebra, la si analizza, se ne ripercorre la storia, e su cui aleggia ovviamente lo spirito di grandi autori del passato, a cominciare da Rodolfo Walsh, grande giornalista e militante montonero desaparecido nei primi anni della dittatura, o dallo straordinario critico e scrittore messicano Carlos Monsiváis, scomparso più o meno un anno fa, o ancora, tanto per fare un esempio tutto europeo, dal polacco Ryszard Kapuscinski.

Anche in Italia, ormai, l’interesse per la crónica è sufficientemente cresciuto per dar vita a una collana ad hoc, ossia «Cronache di Frontiera», proposta dalla casa editrice La Nuova Frontiera, che esordisce con la riedizione di uno dei più importanti libri di Walsh (Operazione Massacro, pp. 256, euro 12, su una strage di civili compiuta dalla prima giunta militare antiperonista), proprio in concidenza con la presenza al Festival di Internazionale di tre famosi giornalisti latinoamericani, che oltre a presentare i loro nuovi libri parteciperanno oggi a «Un posto in prima fila. L’America Latina raccontata in punta di penna», dibattito che si terrà alla 17 nel cortile del Castello.

Due di loro sono argentini: Martín Caparrós, autentico veterano della crónica, e Leila Guerriero, molto giovane e molto brava (in Italia è uscito nel 2007 da Marcos y Marcos il suo Suicidi in capo al mondo. Cronaca di un paese della Patagonia), vincitrice nel 2010 del premio della Fundación Nuevo Periodismo creata da García Márquez, per aver scritto venti bellissime pagine sull’Equipo Argentino de Antropologia Forense, che dal 1984 cerca di restituire l’identità non solo ai desaparecidos durante l’ultima dittatura, ma anche a quelli di paesi come il Perù, El Salvador e la Colombia (fu l’Eaaf a identificare in Bolivia, tredici anni fa, i resti di Che Guevara).
Con loro ci sarà Amalia Guillermoprieto, messicana trapiantata negli Stati Uniti, che dagli anni ’80 a oggi non ha mai smesso di raccontare (in inglese) l’America Latina ai lettori statunitensi, dalle pagine prima del «Washington Post», poi di «Newsweek» e infine del «New Yorker»: una grande giornalista e una narratrice che, mossa da una curiosità divorante e dal desiderio di narrare il mondo (il che significa in qualche misura contribuire a cambiarlo), occupa da più di trent’anni quel «posto in prima fila» che il suo mestiere le garantisce.

A Ferrara, la Guillermoprieto ha appena presentato l’edizione italiana del secondo volume scelto per inaugurare «Cronache di Frontiera» e che in spagnolo porta il fiabesco titolo di Desde el país de nunca jamás (Cronache del continente che non c’è, pp. 317, euro 14): una serie di articoli che coprono un ampio arco di tempo (1981-2008) e vanno dai massacri compiuti dall’esercito durante la guerra civile in Salvador (la giornalista fu tra i primi a denunciarli, cosa che le attirò le ire dell’amministrazione Bush), a una analisi assai acuta della parabola di Sendero Luminoso in Perù, all’audace parallelo stabilito tra la caduta del presidente brasiliano Collor de Mello e l’assassinio della protagonista di una telenovela, alla prima inattendibile indagine sul feminicidio di Ciudad Juarez, alla gente di Cuba, raccontata con grande affetto e con altrettanto grande lucidità in tre crónicas diverse (indimenticabile il consapevole scambio di sguardi tra il papa in visita e Fidel Castro, da grande intrattenitore a grande intrattenitore).
Cuba, del resto, è un luogo che la Guillermoprieto conosce davvero bene, per esserci vissuta all’inizio degli anni ’70 e aver cambiato, proprio lì e una volta per tutte, il proprio destino e la propria visione del mondo. All’Avana, infatti, la giovane messicana era arrivata come maestra di danza, dopo aver studiato a New York con Merce Cunningham, e ne era ripartita per seguire come reporter la guerra civile in Nicaragua. Da allora, Amalia Guillermoprieto non si è più fermata e ha continuato a immergersi nelle vicende di quello che lei chiama un continente-paese (ossia l’America Latina), con acume, con sotterranea empatia e con la capacità di restituire al lettore la visione di volta in volta tragica o ironica, ma sempre vivissima, di luoghi e persone, dalle discariche salvadoreñe dove i militari addestrati dagli Usa hanno scaricato così tanti cadaveri che nessuno li conta più, a un Mario Vargas Llosa che «rischia arditamente il ridicolo» nel tentativo di essere eletto presidente del Perù, confonde il proprio destino con quello dell’oligarchia e viene sopraffatto dal chinito Alberto Fujimori, uomo qualunque pronto a trasformarsi in un dittatore sanguinario eppure inspiegabilmente popolare.

E la cifra di lettura che la Guillermoprieto dà dell’opera di Vargas Llosa come della sua sciagurata avventura politica appare così azzeccata da potersi applicare non solo ad altri grandi scrittori peruviani, ma a buona parte delle espressioni culturali e politiche del paese andino: «Il rancore, che è una componente essenziale anche della poesia di César Vallejo e dei romanzi di José Maria Arguedas e Manuel Scorza, domina i migliori romanzi di Mario Vargas Llosa.(….) la sua ossessione è esplorare le posibilidades del rencor fino alle sue ultime conseguenze».

Se il mondo è (anche) come ce lo raccontano, le crónicas brillanti e suggestive della Guillermoprieto, come quelle misuratissime di Leila Guerriero e quelle forti e intense di Martín Caparrós, sono indubbiamente uno strumento per evocare, leggere e interpretare la realtà, diverso, perché più articolato, più audace, più ricco di sfumature, più attento alla forma, più incline all’ascolto, del giornalismo tradizionale. Ma che a esso resta legato e che parte da una medesima base (inchiesta, ricerca, verifica), rinunciando sia a una oggettività impossibile («la neutralità non serve a nulla e significa semplicemente scaricare le proprie responsabilità», dice Martín Caparrós), sia alle pericolose tentazioni dell’intrattenimento. Ci sarà molto di cui discutere, insomma, al dibattito di oggi, e molto che varrà la pena di ascoltare e di leggere.

 

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