Che cosa significa essere scrittori in Messico oggi? Una conversazione tra i due autori messicani Antonio Ortuño – che avremo il piacere di pubblicare nel 2017 – e Julián Herbert. Il pezzo è tratto da Letras Libres, che ringraziamo. Qui potete leggere la seconda parte.
traduzione di Alice Piccone
Più che da aspetti letterari, gli scrittori nati negli anni Settanta in Messico sono accomunati dalle circostanze in cui si trovano a scrivere e pubblicare. Due dei migliori scrittori messicani attuali provano a codificare la tendenza della loro generazione.
Gli scrittori nati negli anni Settanta continuano a rappresentare un problema per buona parte della critica messicana. Dinanzi all’assenza di un libro importante che legittimasse la loro generazione, fino a qualche anno fa si parlava di «scommesse letterarie». Si diceva che avevano rinunciato sia alle sfide narrative sia alle questioni politiche, che era ancora presto per pensare a un’Opera… Oggi, che vantano alcuni titoli rilevanti, la discussione sembra proseguire legata al concetto di «cambio generazionale».
Nella conversazione che segue due degli scrittori più affermati di questa generazione, Julián Herbert e Antonio Ortuño, mettono in discussione l’esistenza di una «nuova letteratura messicana» che presupponga una rottura con le generazioni precedenti. Sono cambiate, senza dubbio, le condizioni di scrittura e pubblicazione nel paese, grazie al rinnovato interesse delle case editrici straniere e perché Città del Messico non è più il centro di «convalida» della letteratura nazionale. Più che l’estetica e le tematiche condivise da un gruppo, questo scambio ha provato a delineare le circostanze attuali in cui si scrive narrativa in Messico, attraverso interessi comuni come la critica letteraria, gli accorgimenti formali, le relazioni pubbliche o il modo in cui i giovani autori rileggono la tradizione.
Narrativa messicana recente
Antonio Ortuño: Per poter parlare di una «nuova narrativa», credo che sia opportuno delimitare il campo della novità e mettere i testi da un lato e le condizioni di scrittura dall’altro. Di recente ho letto autori messicani pubblicati a partire dagli anni Sessanta e Settanta e vi trovo pensieri simili o assimilabili a quelli di scrittori della mia generazione. Dal punto di vista letterario, quindi, non so se si possa postulare l’esistenza di una «nuova narrativa» che rompa definitivamente con la precedente. E non so nemmeno se sia importante farlo. Virgilio non ha «rotto» con Omero. Io non voglio «rompere» con Héctor Manjarrez. Piuttosto, un approccio interessante potrebbe essere quello di esaminare il modo in cui si scrive oggi in Messico. In questo caso sì che si può parlare di cambiamenti. Credo sia evidente la rottura di un paradigma che per molto tempo è stato irremovibile: dovunque fossero nati gli autori, la letteratura fruibile si diffondeva dalla capitale, si raccontava dalla capitale e dalla logica delle egemonie che la capitale porta con sé: il potere politico, economico, culturale. Da alcuni anni, molti di noi non hanno bisogno di passare da Città del Messico. Che cosa è accaduto? L’industria editoriale messicana è entrata in crisi negli anni Novanta, e il peso maggiore lo hanno avuto le multinazionali, i cui uffici, anche per motivi linguistici, si trovavano in Spagna. Cioè è cambiato, per un periodo, il centro decisionale, e a un editore che si trovava a Barcellona o a Madrid non importava più se scrivevi da La Condesa o da Zapopan [rispettivamente un quartiere della capitale e una città dello stato di Jalisco, ndt]. È un processo avvenuto all’interno di una logica di mercato, ma che ha aperto degli spiragli, e da questi spiragli siamo passati.
Julián Herbert: Credo che la questione generazionale della «nuova letteratura messicana» non appartenga al campo dell’estetica ma a quello del branding. Dinanzi al momento critico che vede coinvolta la narrativa prodotta in Spagna, i marchi multinazionali hanno voluto costruire un nuovo boom latinoamericano e hanno scommesso di vendere una «generazione». Sono loro ad aver imposto il focus generazionale, non gli scrittori. Dietro c’è lo sguardo dell’editoria europea volto al recupero delle letture periferiche e della letteratura che si è allontanata da quel centro. Succede in Messico, ma anche in Argentina. Come nel caso di Selva Almada, la più recente letteratura argentina non si scrive solo a Buenos Aires. Questo, di sicuro, è parte del branding. Tuttavia, credo che in America Latina oltre al profitto editoriale e commerciale, ci sia anche un genuino interesse generazionale, potenziato dall’utilizzo dei social. I primi a sfruttarli sono stati i poeti, a causa della scarsità di mezzi per diffondere la poesia. Prima ancora che esistesse un dialogo latinoamericano in diversi ambiti, i poeti avevano già iniziato a creare certe connessioni, a leggersi tra loro e a discutere, e a volte a discutere aspramente. Il dialogo tra gli scrittori di narrativa è più pacato perché c’è un confine meno rigido tra le formulazioni estetiche e il loro legame con un’etica del linguaggio e della realtà. Ernesto Lumbreras dice: «le discussioni tra poeti sono accese e accanite perché c’è poco da perdere». Forse proprio questo senso di appartenenza dei poeti a qualcosa di simile a una setta spiega il fatto che esistano più antologie di poesia che di narrativa. Con la narrativa invece funziona bene l’individualismo. Non so fino a che punto la mancanza di questa mappatura, che rappresentano le antologie, abbia a che fare anche con un effetto sulla distribuzione e l’esito dei libri individuali di narrativa. D’altra parte, credo che la dinamica del romanzo e del racconto si sia costruita via via con altri mezzi, come avviene in Messico con il catalogo di Tierra Adentro.
Alta cultura, cultura popolare
AO: C’è un cambiamento anche nelle influenze estetiche che si ritengono cruciali o meno. Non provo nessun imbarazzo nel dire che per me sono stati più importanti i Pixies di Gabriel García Márquez, e infinitamente più importante Sergio Leone di Vargas Llosa, e non perché siano superiori il cinema e la musica popolare rispetto alla letteratura, ma perché alcuni mi hanno fornito dei codici estetici utili per la mia scrittura e altri no.
JH: L’idea di abbattere la distanza tra l’arte elevata e la cultura popolare è presente in diverse tradizioni. È presente nella cultura statunitense, nella Lost Generation, per esempio, ed è ricorrente in molti altri periodi. Questo modo orizzontale di vedere la cultura è presente anche nella poesia cilena e nella narrativa argentina. Nella cultura messicana c’è stata una rottura netta, perché era netta anche questa separazione. Solo una decina di anni fa ho avuto una discussione molto aspra con un caro amico poeta di un’altra generazione, secondo cui era scandaloso che in una poesia si usasse un’epigrafe di José Alfredo Jiménez [compositore musicale legato alla cultura popolare, ndt]. Probabilmente sta avvenendo un cambio generazionale nella nuova narrativa, per cui sono rilevanti anche i punti di vista di chi non è originario di Città del Messico. Il classismo imperante in questa città ha sempre voluto separare l’alta cultura dalla cultura popolare.
AO: Questo dibattito tra «alta cultura» e cultura popolare mi sembra appartenere a un’altra epoca. Per me la questione è un’altra. Uno dei vantaggi che vedo in noi, scrittori messicani e latinoamericani, è che siamo bravi a razziare ogni tradizione che ci troviamo davanti; sono un devoto lettore di scrittori inglesi e tra di loro non si trova nemmeno un decimo dei riferimenti che fa un autore latinoamericano, perché gli inglesi, per esempio, sono profondi conoscitori della loro tradizione, ma a volte ciechi rispetto alle altre. Per loro, in molte occasioni, l’America Latina si riduce a uno o due nomi al massimo. Solo alcuni, che francamente sono squisiti, si ricordano di più di un racconto di Borges, di più di un romanzo di Gabo. Non ci possiamo allora aspettare che conoscano altre manifestazioni culturali. Noi scrittori latinoamericani abbiamo un grande spettro di influenze e questo produce discorsi che vanno a parare da più parti. Penso a un autore come Fogwill, capace di stabilire connessioni più o meno insolite tra un discorso accademico, simile a degli studi culturali, e uno colloquiale, narrativo. E che sembrava aver letto tutto il leggibile.
Il romanzo totale e la sperimentazione
JH: Da un po’ di tempo a questa parte, si ha l’impressione che gli scrittori non si preoccupino più di scrivere il cosiddetto «romanzo totale» o che non producano più romanzi sperimentali. Non credo che questo sia dovuto a una rinuncia a tali aspirazioni. Ci sono ancora degli scrittori per cui il romanzo totale è importante, anche se spesso questa necessità nasce da altri generi. Penso, per esempio, a un libro che è più vicino all’idea del romanzo totale rispetto a molti romanzi che ho letto ultimamente: La escuela del aburrimiento, di Luigi Amara. Non è un romanzo, ma parte dall’idea di analizzare la noia nella sua totalità, ed è allo stesso tempo una performance. La seconda parte del saggio è la cronaca dell’autore che si rinchiude nella sua stanza e non si taglia le unghie. Se osservato bene, il libro risponde al progetto del romanzo totale; lo stesso avviene per il primo romanzo di Eduardo Rabasa, La suma de los ceros. Credo che lo scrittore latinoamericano contemporaneo non debba più scrivere un romanzo sperimentale e dire «Questo è un romanzo sperimentale»; improvvisamente si può scrivere una crónica, che funziona nell’ambito giornalistico, e fare comunque qualcosa di molto sperimentale.
AO: Pensare che si possa creare un organismo immenso dal punto di vista letterario, che riesca a raggiungere tanti porti e intrecciare tanti fili, come a giustificare questo concetto di romanzo totale, è qualcosa che sinceramente non ho preso in considerazione nella vita. C’è una frase della persona meno citabile del mondo ‒ soprattutto per questioni intellettuali ‒ che è Javier Aguirre, il quale, quando giocava nel Chivas, ha detto: «Se quando tiro un rigore penso alla fame nel mondo, mi tremano le gambe». Io credo che a uno scrittore convenga essere aggiornato sui dibattiti intellettuali e sociali, ma anche avere il senso della misura e dell’efficacia letteraria. Avere come modello un tomo pretenzioso mi sembra una caduta di stile ed è qualcosa cui non mi rifarei mai. Mi accorgo, e non credo di essere il solo, che si sta riconoscendo sempre di più l’opera di autori poco pretenziosi, di autori come Ibargüengoitia, la cui opera, a suo tempo, è stata celebrata ma anche ritenuta un gradino più in basso rispetto alle opere del «grande romanziere», Carlos Fuentes. Si presupponeva che i suoi testi fossero minori perché, tra l’altro, ricorreva all’umorismo, che per una certa critica miope è ancora pari a un peccato grave, come se quando si ride si stessero violando i termini d’uso della letteratura.
JH: Mi viene in mente anche un autore come Jesús Gardea, che è stato considerato «il dottorino di provincia» e che, tuttavia, ha scritto dei racconti straordinari. Il caso contrario è quello di Juan García Ponce, che è un uomo molto brillante e, quando racconta, dà l’impressione di spostare a mano un treno. Ai margini della questione del romanzo totale, credo che sia interessante chiedersi in che modo i testi acquisiscano maturità. Credo che ci sia una differenza molto evidente tra Farabeuf e Morirás lejos, due scritti che solo in apparenza partono da una stessa lettura, il nouveau roman. Mi sembra che sia invecchiato meglio Morirás lejos, grazie all’economia del linguaggio. In questo momento, quello di Elizondo e quello di Pacheco sembrano due testi diversi. Il nouveau roman che li univa è una categoria già invecchiata, e credo quindi che sarebbe meglio leggerli con diversi presupposti.
© Julián Herbert, Antonio Ortuño, 2014. Tutti i diritti riservati.
[Leggi qui la seconda parte della conversazione]
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