invidia verso le altre donne

Fallite per finta: perché le giovani scrittrici di successo si fingono pessime online?

Nina Renata Aron BIGSUR, Società

Questo articolo è apparso originariamente su The Millions e viene qui riprodotto su gentile concessione dell’autrice e della testata.

di Nina Renata Aron
traduzione di Milena Sanfilippo

Non avevo ancora finito di leggere il pezzo di Miranda Popkey «All the Time I’ve Wasted Watching the Better Versions of Me» quando ne ho copiato e incollato il link in un messaggio alla mia migliore amica. Ho scritto «smetti di fare quello che stai facendo e leggi questo». Novanta secondi dopo, la mia migliore amica mi ha risposto «merda, sto lavorando alla mia proposta editoriale, posso accettare una cosa simile?» Non ne ero così sicura.

Il saggio della Popkey parla d’invidia: nello specifico dell’invidia verso le altre scrittrici, ma più in generale verso le altre donne. Parla di quanto sia difficile metabolizzare il loro successo, la loro bellezza, i loro aggiornamenti Instagram. Parla del tormento di dover fare i conti non soltanto con il fatto che altre scrittrici stiano pubblicando materiale migliore (benché l’autrice affermi che anche questo è vero), ma anche con la constatazione che «qualunque cosa io pubblichi, resto sempre quella con la cassettiera ricoperta di polvere e detriti, il cavallo dei jeans che va scucendosi, quella che scrive a letto, si mangia le unghie e non fa la doccia da giorni».

È un comunicato onesto e sconvolgente, dritto da quel fascio caldo di sinapsi nel nostro cervello dove sembra che viviamo esclusivamente per odiarci a vicenda e ovviamente, tramite un confronto costante, anche per odiare noi stesse. È triste, ma è uno di quegli articoli audaci, autoironici e spiritosi che ti fanno accennare un sorrisetto e emettere microsospiri di iper-identificazione ogni tre righe o giù di lì.

È anche coraggioso, anche se metterei questa qualità tra virgolette. A trasparire è quasi il coraggio, aperte e chiuse virgolette, della ragazzina ingenua disposta a ingrassare o mostrarsi senza trucco per una parte. Certo, in questo modo viene a essere rappresentata in una luce poco lusinghiera e si sottomette, in quella luce peggiorativa, all’esame minuzioso del pubblico. Tuttavia, quella rappresentazione di bruttezza è qualcosa che lei stessa ha ideato o che ha contribuito a ideare. Soprattutto, è una cosa da cui trarrà vantaggio. Non è brutta per davvero, è una stella del cinema che finge di non essere una stella del cinema. In questo pezzo, Miranda Popkey è una scrittrice che, in un certo senso, finge di non essere una scrittrice.

Naturalmente, dico questo dal mio trespolo fatto di meschinità, invidia, insicurezza e unghie rosicchiate. La mia polvere, i miei detriti. E lo dico con quella che credo sia una rivendicazione d’invidia più convincente di quella della Popkey. Dopotutto vivo in California, un posto in cui (a meno che tu non sia Joan Didion) i tentativi letterari sono destinati a morire (o, per essere precisi, a diventare media startup, «fare pivot» e poi morire).  Di certo sono più vecchia della Popkey e la mia firma, al contrario della sua, non compare in nessuna di queste testate: il New Yorker, il New Inquiry, il New Republic. Inoltre, non ho marito – di recente la Popkey ha scritto della sua decisione di indossare il velo e, in modo piuttosto geniale (servendosi di un paio di vecchi romanzi ristampati di recente dalla New York Review Books), delle complicazioni di essere supportata economicamente dal suo novello sposo.

Però io ho due figli, questo sì. Tramite Quartz la settimana scorsa ho appreso che la maternità è un vero e proprio «potenziatore di efficienza», quindi forse questo non dovrebbe essere un grosso problema. Ma ne ha tutta l’aria.  Il pendolarismo, l’impiego a tempo pieno, i lavori da freelance e le incombenze della vita domestica, be’, appaiono come un handicap. E questo rende difficile leggere articoli come quello della Popkey e gli innumerevoli tweet di altre scrittrici e creative millennial che sembrano invischiate in problemi marginali.

Non voglio competere con la Popkey perché per molti versi la mia vita è (per usare un’espressione in voga) «benedetta», ma anche perché amo molto la sua scrittura. E mi dispiace per lei. Chiaramente mi sono ritrovata a stalkerarla su internet e ho scoperto che, come me e come tante di noi, anche lei è stata perseguitata a lungo dall’aspetto più angoscioso dell’ambizione: il risentimento, l’insoddisfazione. È stata tormentata dalla domanda che si chiede nel pezzo «All the Time I’ve Wasted»: «Perché non è toccato a me?»

L’anno scorso sul New York Magazine ha scritto di un viaggio in solitaria durante il quale sperava di conoscere una nuova forma di libertà e scrollarsi di dosso quella brama ostinata di «essere voluta, accettata». Al contrario, è stata costretta ad affrontare una vecchia amica, raggiante di felicità, che aveva barattato una vita nell’editoria della East Coast con un marito robusto e un ranch nel Wyoming (il marito cowboy le massaggia anche i piedi sotto una testa d’alce imbalsamata). Si rende conto di non sapere cosa vuole davvero. Scrive: «New York aveva incoraggiato la volontà, già innata, di essere generalmente desiderata – nel lavoro, dagli uomini e dalle donne i cui profili Instagram mi rendevano verde d’invidia – ma allo stesso tempo mi impediva di vedere ciò che desideravo».

Da una parte, le sue parole sono vere in modo rivitalizzante. L’anonimato della vita moderna può essere opprimente. La città, scrive, «sembra satura di altre versioni di te che tentano di fare esattamente la stessa cosa». Dieci anni fa, in una sera d’inverno, un po’ brilla, scrissi la stessa identica cosa nel mio diario dopo aver osservato in metropolitana altre brunette semitiche, tristi, infagottate in parka e sciarpe pesanti, la testa nei libri e le cuffie che probabilmente pompavano nelle loro orecchie gelide e solitarie le stesse canzoni che ascoltavo io. A volte, sembrava che la città pullulasse di altre versioni di me: versioni più brave, più intelligenti, più carine. Siamo noi le protagoniste del nostro film personale.

Per le donne, in particolare, la competizione per la legittimazione non è soltanto intellettuale, ma intellettuale-estetica, dal momento che ruota sia intorno alla bellezza e alla moda che alle capacità intellettive. Oggigiorno, persino le carriere delle più brillanti tra noi sono ampiamente supportate da selfie. Dopotutto, un conto è firmare un saggio per la rivista n+1, altra storia è presentarsi, magre e scopabili, al party di n+1. In alcune cerchie, la pressione si fa sentire da entrambe le parti e se non ti senti in partita (o non hai le risorse economiche, psicologiche, genetiche per entrare in partita) è davvero deprimente, cazzo. Lo capisco.

D’altro canto, sono stufa di leggere i saggi (e i tweet) ansiosi e apologetici di una generazione di donne super intelligenti che sembrano trascorrere la metà del loro tempo a scrivere con sicurezza, con pubblicazioni nelle riviste e nei periodici migliori del paese, e l’altra metà a fingere di essere fallite, incomplete, ricoperte dalle ultime, disonorevoli briciole di un take-away di Seamless, appese a un filo. Dimenticate il profilo Twitter della Ragazza Triste, qui siamo di fronte, più o meno, al profilo Twitter della Ragazza Incasinata Che Riesce Comunque a Essere Pubblicata dalla Paris Review.

Perché così tante donne belle, magre, giovani, perlopiù bianche, scrittrici pubblicate e perfino prolifiche, si spacciano per delle perdigiorno, dilaniate da un’ansia opprimente, perennemente sporche, in ritardo, impacciate? Il mio feed di Twitter sembra intasato dal tipo di amiche che a volte mi facevo al college o durante il master, quelle che vogliono farti credere che, mio Dio, loro i libri non li aprono neanche. Sono sempre quelle che tirano fuori dallo zaino una pila di schede compilate con cura, che consegnano la tesina in anticipo e che immancabilmente superano l’esame a pieni voti. Vanno matte per la messinscena della mancanza di preparazione, l’esaltante cameratismo da stress.

Rendere pubbliche emozioni una volta ritenute sconvenienti per una signora, poco professionali o profondamente femminili (e perciò deboli, frivole o folli) è ancora un atto politico e coraggioso. E il bello dei social network, in buona parte, è che possiamo fare soltanto questo per tutto il giorno, con gradi variabili di serietà, quantità variabili di «che cazzo me ne frega». Ma spesso il profilo Twitter di una Ragazza Incasinata non dà l’impressione di essere onesto al 100%. Suona piuttosto come un’ennesima esibizione di femminilità leggermente ipocrita.

Non lo dico per mettere in discussione la sincerità di qualsiasi personale rivendicazione di ansia, depressione o disgusto di sé e neanche per svilire le preoccupazioni reali della vita da scrittrice e della vita di molte donne. Ma, piuttosto, per suggerire che la frivola micro-cronistoria di ogni luna storta, di ogni conversazione spiacevole, di ogni responsabilità a cui si abdicherà molto presto, contribuisce a oscurare tutti i privilegi, certo, ma anche tutto l’impegno che ti ha portato al tavolo di chi conta, e a danneggiare il tuo lavoro concreto (spesso estremamente buono).

Tuttavia, forse nessuno di questi dovrebbe essere il vero problema. Dopotutto, il social da ragazza triste non pretende di essere preso troppo sul serio. È intenzionalmente accondiscendente e infarcito di ironia, una messinscena post-tutto che sa di esserlo. La schiavitù dell’ego elevata a personale marchio di fabbrica. Ma allora perché queste donne affermate si percepiscono come delle fallite negligenti? Sentono forse il bisogno di sminuire la loro ambizione? Sono invidiose di altre persone che sembrano «diventare adulte» meglio? O forse sono perversamente orgogliose di un certo successo ottenuto «per il rotto della cuffia»? Sono alla ricerca di sostegno ed empatia sinceri?

Nel 2013, Slate ha pubblicato un articolo di Michele Weldon dal titolo «Why Do We Admire Women Who Are “Hot Messes”». La Weldon scrive con convinzione: «Voglio svelare un segreto ben custodito a quel gruppetto di ragazze incasinate: quando ti comporti in modo responsabile, puoi godere della pienezza di una vita resa stabile attraverso la costruzione volontaria e complessa di rapporti basati sul rispetto reciproco. È questo che ti rende felice». Ricordo che leggendo queste parole, pensavo Dio, chiudi il becco. Non sei mia madre, cazzo, Michele. Non dirmi di comportarmi in modo responsabile! Suonava come la sintesi perfetta del divario generazionale femminista: un’esponente moralista della seconda ondata che stava confidando un «segreto», dicendo alle «giovani donne» come «godere della pienezza della vita». Scoppiai a ridere, collocandomi esattamente nella categoria delle giovani donne insolenti. Ora, dopo aver passato altri tre anni ad assorbire il caustico narcisismo delle giovani donne del web, credo di trovarmi nel mezzo. Per usare un’iperbole tipica dei profili Twitter delle Ragazze Incasinate, sono esausta.

Ho particolarmente apprezzato la chiosa dell’articolo di Miranda Popkey sull’invidia. Mi aspettavo che si concludesse con un invito supplichevole a smettere di essere gelose delle altre donne e iniziare a sostenerci l’una con l’altra. Ma non finisce così. La Popkey non fa appello alla falsa sorellanza. Anzi, chiude con una dose di realismo affermando che prevede di passare ancora tanto tempo in compagnia dell’invidia, in futuro.

Allo stesso modo, anche io concluderò con aspettative modeste. Scrivere è difficile. Il tardo capitalismo è assurdo. I meme sono divertenti. Tutti odiamo noi stessi. Alle scrittrici incasinate del web: continuerò a leggere i vostri articoli con sincero interesse, riderò ai vostri tweet quando li troverò divertenti e alzerò gli occhi al cielo quando li troverò irritanti. Immagino che, se proprio non dovessero piacermi, potrò sempre cliccare su «Non seguire più».

© Nina Renata Aron, 2016. Tutti i diritti riservati.

Nina Renata Aron, scrittrice e editor, vive e lavora a Oakland, California. Collabora con Full Stop e con Timeline. La si può contattare su Twitter: @black_metallic.

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