Tra il 1930 e il 1975, Borges scrisse tutti i suoi capolavori mentre modellava definitivamente la sua immagine di genio misterioso e abitante di Buenos Aires. Al di fuori di questi anni esiste un Borges poco conosciuto: il ragazzo che visse a Maiorca e Ginevra, frequentò i bordelli, scoprì l’alcol e l’avanguardia; l’anziano che volle morire in Svizzera. Un Borges meno importante letterariamente parlando, ma forse più felice. Pubblichiamo un profilo a cura di Jorge Carrión già apparso su Letras Libres, ringraziando l’autore e la testata.
di Jorge Carrión
traduzione di Pier Quarto
L’opera di Borges abbonda di questi personaggi subalterni, un po’ oscuri, che seguono come ombre le tracce di un’opera o di un personaggio più luminoso. Traduttori, esegeti, annotatori di testi sacri, interpreti, bibliotecari, perfino gregari di guappi armati di coltello: Borges definisce una vera etica della subordinazione […] Essere una nota a piè di pagina di quel testo che è la vita di qualcun altro: non è questa la vocazione parassitaria, insieme irritante e ammirevole, meschina e radicale, che quasi sempre prevale nei migliori racconti di Borges?
Alan Pauls, Il fattore Borges
I
La lapide di Jorge Luis Borges al Cimetière des Rois di Ginevra, con la sua iscrizione in inglese antico e all’ombra di un albero che fiorisce solo in anni dispari, si trova a fianco a quella di una puttana. La tomba di colui che scrisse «Pierre Menard: autore del Don Chisciotte», un racconto il cui protagonista scrive in francese a meno di mille chilometri di qui, è kitsch: nessuno comprende questo omaggio postumo di María Kodama, scritto in caratteri incomprensibili e in una font da saga nordica, stridente come uno zampognaro scozzese in un paesaggio come questo, armonico e sobrio, da coro gregoriano. L’erba cresce frondosa nel rettangolo che nel 1986 incorniciò il cadavere di Borges. Non ci sono messaggi né fiori né pietre, come quelli (per esempio) sulla tomba parigina di Cortázar. Le rose sono fresche, invece, nel rettangolo equivalente di Grisélidis Réal (1929-2005), scrittrice, pittrice, prostituta.
Più in là c’è il preciso monumento – dal disegno elvetico – che segnala i resti di Robert Musil, morto a Ginevra nel 1942, difendendosi dalla tormenta nazista. Poco distante, vicino all’ingresso, c’è la tomba di un certo Babel, forse un bibliotecario. Ma il morto più vicino all’autore di «La lotteria a Babilonia» è una morta: un’attivista, una donna valente, un’artista cosmopolita che fu educata ad Alessandria, Atene e Zurigo, una puttana di lusso che difese sempre gli emarginati, ossia gli abitanti dei margini, anche al suo funerale, in cui si mischiarono i diseredati con i dignitari, le lavoratrici del sesso con gli orologiai milionari.
Ai miei occhi di turista culturale, di viaggiatore romantico che persegue le topografie letterarie, c’è un modo di unire concettualmente la tomba di Borges con quella della Réal tramite il terzo vertice di un altro possibile triangolo: qui fu sepolto anche il filologo svizzero Denis de Rougemont, che spiegò come nessun altro gli strani modi in cui codifichiamo l’amore in Occidente.
II
Borges è una parentesi che durò quarantacinque anni. Dal 1930, quando pubblicò Evaristo Carriego e conobbe subito dopo Adolfo Bioy Casares, fino al 1975, quando morì sua madre e María Kodama si convertì nella sua segretaria personale. Tra queste due date scrisse tutti i suoi capolavori come abitante di Buenos Aires e come lettore iconoclasta, possedendo e guadagnandosi la memoria della letteratura universale. Prima e dopo Borges, da un lato e dall’altro dell’irripetibile parentesi, c’è un altro Borges, letterariamente meno interessante, ma molto più felice. È il Borges che nel 1914 arrivò con la sua famiglia a Ginevra, dove frequentò l’università e conobbe le opere degli avanguardisti; nel 1919 giunse a Palma di Maiorca, dove nuotò e fece le ore piccole e firmò un manifesto ultraista; sessant’anni più tardi rientrò a Maiorca, dove incontrò Robert Graves, e si trasferì a Ginevra nel 1985 affinché la sua morte fosse svizzera.
Il Borges canonico è venerabile e monumentale, progressivamente astratto. Cammina con l’aiuto di un bastone. Si sta ritirando nell’oscurità o, come Tiresia, è già del tutto cieco e ci inquieta con le sue visioni ironiche. Ha scritto racconti indistruttibili e dettato poesie e conferenze e le sue opere vengono tradotte e riceve premi. Il suo mondo è Buenos Aires: vive con sua madre e con la serva, Epifanía Uveda de Robledo, “Fanny” (come la nonna Fanny Haslam), passeggia e cena con Bioy Casares, adora il tango, è uno scrittore che legge e scrive, più testi che impulsi. L’altro Borges, tanto il primo quanto l’ultimo, è appassionato e carnale. Scrive lettere e poesie e manifesti, ma non è ancora capace di pensare in libri. Oppure ha già scritto tutto quello che poteva scrivere e pensa ormai alle sue Opere complete. Viaggia con la sua famiglia, da ragazzo, o con María Kodama, da vecchio. È felice e non ha pudore nel proclamare la felicità di quegli ultimi viaggi, della sua vita a Ginevra.
Fu felice anche a Maiorca: non è difficile immaginarlo mentre va in macchina sull’autostrada che porta a Valldemosa e a Deià. Le terrazze e la pietra e le pareti verticali e gli ulivi dai tronchi torturati: tutto riporta al paesaggio di cui fu entusiasta dopo aver vissuto e studiato, adolescente, in Svizzera. In una Svizzera che, quando arrivò nel 1914, gli parve triste, grigio metallico, e che in seguito si convertì in un parco chiuso al mondo a causa della prima grande guerra. Dalla geometria e dall’amabilità svizzera passò senza soluzione di continuità a una città mediterranea e cosmopolita, con un turismo incipiente, paesaggi tellurici che incantarono e contemporaneamente provocarono il rifiuto viscerale di George Sand e che fecero innamorare, invece, Graves, il quale dopo essere rimasto in silenzio durante tutto l’incontro con Borges e Kodama, gli gridò all’improvviso dalla porta: «Dovete tornare! Questo è il Cielo!»
III
La luce di Maiorca si contrappone, capricciosa, all’oscurità di Barcelona, da dove bisognava passare necessariamente in quei tempi senza tanti aerei: «quindici giorni fa abbandonammo la Ciudad Condal (i quotidiani chiamano così Barcelona) per venire a trascorrere l’estate nelle Isole Baleari», scrive in Cartas del fervor, il 12 giugno 1919. L’ironia è il filo che unisce tutti i Borges che chiamiamo Borges. Due anni più tardi sarà più tagliente e parlerà di Barcelona come della «città rettangolare e immonda».
Il viaggio è stato un’idea stravagante di suo padre, racconta al suo amico intimo Maurice Abramowicz, quando si trovano a Palma di Maiorca, una città bella ma anche monotona. Borges riproduce un dialogo con uno sconosciuto in cui conversano sulla Svizzera e lui dice che lì c’è di tutto e che «la città è così bella con il lago e il Rodano e…» È chiaro che ha idealizzato la sua vita svizzera, che gli manca molto, e che per questo la quotidianità maiorchina gli appare plumbeo. Le mattina va in tram a Portopí, per fare il bagno nel mare; la sera riceve lezioni da un chierico; le notti legge nel Circolo per Stranieri (Pio Baroja per esempio, con passione, perché sarà a Buenos Aires che deciderà lentamente di distanziarsi dalla letteratura spagnola e di rifiutarla).
Ora Portopí non è che un grande centro commerciale e, dall’altro lato delle acque del mare, rimane solo il ricordo del porto vecchio con la sua vita da pescatori. Bisogna proseguire ancora un poco per arrivare a Ses Illetes, una zona militare che è stata preservata dall’invasione massiccia del turismo. L’acqua è trasparente, quasi senza sale, di un azzurro limpido. Ci sono alcune ville borghesi. E una sabbia bianca da cartolina. Qui è possibile immaginare il giovane Borges, che aveva imparato a nuotare nel Paraná e nel Rodano, solare e atletico, che tende i muscoli a ogni bracciata.
Gradualmente comincia a sentirsi parte della città e dell’isola, soprattutto grazie alle conversazioni e all’amicizia di Jacobo Sureda, malato di tisi, con cui condivise la complicità avanguardista, anche grazie alla scoperta della notte, e dell’alcol e della notte. Nel 1926 disse: «Maiorca è un luogo simile alla felicità, gioioso di per sé, scenario perfetto per l’allegria, e io – come tanti isolani e forestieri – non ho posseduto quasi mai la fortuna della felicità che uno deve portare dentro per sentirsi spettatore degno (e non vergognoso) di tanta candida bellezza».
Nelle foto appare con un vestito giovanile e una cravatta, i capelli pettinati all’indietro, lievemente ingellato.
IV
Nella Grand Rue c’è una libreria con volumi antichi che mi piacerebbe possedere: prime edizioni dell’Internazionale Situazionista, di Kerouac, di Debord. Ci sono anche bibliografie dei secoli XVIII e XIX. Dal fondo della caverna una voce di donna mi grida Niente foto! Io, dopo aver chiesto scusa, domando a questa donna corpulenta sulla sessantina, mentre si solleva gli occhiali che le stanno per cadere dalla punta naso, se Borges comprava qui i suoi libri. Mi dice di no. Non le credo. Neanche lei mi ha creduto quando le ho detto che non sapevo che non era permesso fare foto. Siamo pari.
Un’ora più tardi, quando scoprirò gli scacchi giganti sul suolo del Parc des Bastions, dopo essere sceso dalla collina che è il centro storico, penserò di nuovo a lei: eravamo in stallo. Borges avrà mai visto questi pedoni, questi cavalli, questi due re circondati da 64 caselle bianche e nere? Sapeva che uno dei suoi simboli fondamentali era tridimensionale, lì sotto, a cinque minuti da casa sua? La casa è a cinquanta metri dalla libreria, una targa laterale (la via è piena di targe frontali con nomi e date e libertà religiosa e lotta per i diritti civili che nessuno ricorda) ricorda che qui visse Borges. La citazione è tratta da Atlas, il libro che scrisse con María Kodama, il suo testamento a quattro mani: «Tra tutte le città del mondo», ricorda l’iscrizione, «Ginevra mi sembra la più favorevole alla felicità». La citazione assomiglia a quella che la cittadina di Blanes ripete in vari angoli per rivendicare Roberto Bolaño, una citazione di Pregón de Blanes. Bisogna cercare nei testi minori le grandi affermazioni, le note a piè di testi che contano.
Il Borges adolescente ebbe accesso in questa città, grazie a una biblioteca itinerante, ai classici della letteratura francese, come Victor Hugo, Baudelaire o Flaubert. Fu Abramowicz che gli presentò Rimbaud. I Borges vivevano a rue Malagnou. Marcos-Ricardo Barnatán racconta in Borges. Biografia totale che la via adesso ha preso «il nome dell’illustro pittore svizzero Ferdinand Hodler», al cui numero 17 «vissero, nell’appartamento con quattro finestre che dà sulla strada al primo piano, dal 24 aprile 1914 fino al 6 giugno 1918», anni durante i quali Borges studiò al Liceo Calvino. La materia principale era il latino, però quasi tutto si studiava in francese.
Erano arrivati in Svizzera a causa dei primi segni della cecità del padre, che l’avevano obbligato alla pensione anticipata e che anticiparono anche quella di Borges (ci sono uomini che monopolizzano il cognome dei loro progenitori). Curiosamente, malgrado la guerra, nel 1915 attraversarono le Alpi e visitarono Verona e Venezia. Lo ricorda in Un saggio autobiografico e in queste pagine è l’amicizia a fare da protagonista: «I miei due migliori amici erano di origini giudaico-polacche: Simon Jichlinski e Maurice Abramowicz. Uno diventò avvocato e l’altro medico. Insegnai loro a giocare al truco, e impararono così bene e rapidamente che alla fine della nostra prima partita mi lasciarono senza un centesimo».
Mi affascina moltissimo questo viaggio in piena Prima guerra mondiale: un turismo insperato. Però non ne trovo traccia nelle sue biografie, che si preoccupano di sottolineare, invece, che la sorella Norah cominciò a sognare in francese.
V
«Andammo a Maiorca perché era bella, economica e perché c’erano pochi altri turisti oltre a noi», prosegue Borges nelle sue memorie. «Vivemmo lì quasi un anno, a Palma e a Valldemosa, un villaggio sopra le colline». Continuò a studiare latino, con un sacerdote che non aveva mai sentito la tentazione di leggere un romanzo, mentre suo padre scriveva El Caudillo, una finzione notevole che si inscrive in quell’ossessione della letteratura latinoamericana per la figura mascolina e autoritaria, totem del potere, da Facundo di Sarmiento a La festa del caprone di Vargas Llosa, passando da Pedro Páramo di Rulfo a tanti altri testi. Ne stampò cinquecento esemplari a Maiorca e li portò sulla nave di ritorno a Buenos Aires. Prima di morire chiese a Borges che un giorno o l’altro lo riscrivesse ripulendolo dalla retorica.
Non lo fece.
Le lettere di quell’epoca rivelano come rimase irrisolto il dibattito culturale europeo anche dall’isola. Al Circolo erano soliti discutere sulle teorie di Einstein. Con Sureda avanzavano nel loro complotto ultraista. E Borges incontrò perfino un barbiere lettore di Baroja, Huysmans e della baronessa di Suttner. Quando si avvicina la partenza, confessa di essere triste del suo rientro a Buenos Aires: «Sto riunendo più informazioni che posso su questo strano paese».
Dopo essersi lasciato alle spalle il Mediterraneo, non rivedrà mai più Jacobo Sureda, poiché morì nel 1935, ma si rincontrò con Jichlinski e Abramowicz a Ginevra agli inizi degli anni Sessanta. Quasi non li riconobbe, per i capelli brizzolati, per la vecchiaia, «uomini dalla testa grigia», dice in Abbozzo di autobiografia.
Non menziona la sua cecità.
VI
Nei papiri egizi, nei vecchi versi coranici, nella bibbia di Gutenberg, nei bellissimi manoscritti giapponesi, Note del guanciale, nel ritratto di Dante che attribuiamo a Botticelli, nelle prime edizioni della Divina Commedia e delle tragedie di Shakespeare e del Chisciotte, gli alfabeti si susseguono come pagine di un unico libro, di un’unica storia testuale dell’umanità che nella Fondazione Martin Bodmer di Ginevra si può leggere mentre si passeggia, la luce tenue, una sottile intimità.
Dopo l’Ulisse della Shakespeare & Company e alcune allusioni al vicino Musil (il terzo volume dell’Uomo senza qualità fu pubblicato a Losanna nel 1943), come i classici indiscutibili, Borges ha nel museo delle lettere e del libro una vetrina solo per sé. Secondo l’istituto, con lui finisce la letteratura, orientale e occidentale, una storia antica che comincia con lo stupendo caos del mito e termina con la perfezione concettuale del logos. La mostra comprende il manoscritto di «El Sur» del 1953, la prima edizione di Finzioni (Sur, 1944) e quella de L’Aleph (Losada, 1949) e quella de Il libro di sabbia (Emecé, 1975), qualche altro manoscritto e, alla fine, su una espositore girevole, affinché si vedano le pagine scritte a mano su entrambe le facciate, la versione originale di «Tlön, Uqbar, Orbis Tertius» del 1940.
Questa vetrina nella periferia di Ginevra, con vista lago e città puntuale, è l’autentico mausoleo di Borges e non quella tomba kitsch che ho visitato stamattina. Un mausoleo classico e dinamico, sobrio come le sue opere complete nella Pléiade, con l’illuminazione tenue delle candele o del rispetto. Tutte le tradizioni, tutti gli alfabeti si concludono qui e, come una banderuola o una rosa dei venti, muovono un mondo che è un racconto.
VII
Che Borges fu felice a Ginevra e che volle morire in Svizzera sono cose che sappiamo grazie a María Kodama. Bioy Casares non lo aveva tanto chiaro, come lasciò detto a pagina 1590 del suo faraonico Borges, venerdì 14 febbraio 1986: «Ferrari mi dice che è preoccupato per la mancanza assoluta di notizie da Borges. Dice che anche Fanny è preoccupata. Poco dopo mi confessa che Fanny gli ha raccontato che secondo il nuovo medico Borges sta in una clinica, probabilmente a Ginevra. Il nuovo medico, non senza reticenze, alla fine lo aveva autorizzato a viaggiare, avvisandolo: “Il freddo d’Europa non le farà bene”. Borges mi disse: “Non sto per niente bene. Non so come mi andrà. Morire da una parte o dall’altra non fa differenza”».
Nelle parole che dettano il dolore di quest’amico il cui rapporto è stato rovinato dalla giovane amante quasi si insinua una cospirazione.
Fino al 12 maggio non riuscì a parlare con lui: «Mi passò il telefono e parlai con María. Le comunicai notizie di poca importanza sui diritti d’autore (una cortesia, per non parlare di temi patetici). Mi disse che Borges non stava molto bene, che sentiva male e che gli parlassi a voce alta. Sentii la voce di Borges e gli domandai come stava. “Abbastanza bene, e basta”, rispose. “Non tornerò mai più”. La comunicazione si interruppe. Silvina mi disse: “Stava piangendo”. Credo di sì. Credo che abbia chiamato per salutarci.»
Il diario dura solo altre cinque pagine, in cui si parla della Kodama. Bioy dice che era il suo amore. Che morì con il suo amore. Però anche che era una donna strana. Che lo accusava, lo sorvegliava, che si spazientiva per le sue lentezze, lo castigava con il silenzio (duro castigo per un cieco, che non può leggere l’espressione del viso che si ammutolisce). «Credo che con María poteva sentirsi molto solo», afferma il vecchio amico. E aggiunge: «Secondo Silvina, Borges si trasferì a Ginevra e si sposò per mostrarsi indipendente, come un ragazzo che vuole sentirsi libero e fa una pazzia. Io aggiungerei: “Partì per mostrarsi indipendente e per non contrariare María”».
Secondo Edwin Williamson in Borges. Una vida fu questo stesso impulso di indipendenza rispetto alla sua famiglia che portò Borges a scrivere nelle lettere di saluto da Maiorca, sessantacinque anni prima, allusioni pornografiche su bordelli, bevute e gioco. Il Borges monumentale, il genio, l’autore dei capolavori, visse sempre tra le parentesi che mantenne come colonne d’Ercole sua madre. «Curiosamente fu in un bordello che il giovane Borges ebbe un’anticipazione della possibile riconciliazione dei suoi conflitti interiori», scrive Williamson . «Sembra che, durante le sue visite alla Casa Elena de Palma, avesse stabilito una curiosa amicizia con una prostituta chiamata Luz, e questo rapporto avesse donato al giovane nervoso, ipersensibile, un presentimento certo di quello che poteva essere una relazione naturale con una donna».
In assenza di amore, fu votato all’amicizia. Jichlinski, Abramowicz e Sureda furono i grandi amici del giovane nuotatore e avanguardista. Bioy Casares fu il grande amico del genio ironico, del Borges che contava. A María Kodama toccò essere la grande amica del punto e accapo.
L’ultimo medico che lo curò, già sul letto di morte, fu il figlio di Jichlinski.
Le note a piè di pagina sfumano come lacrime nella pioggia. Rimangono le opere. Grandi libri come L’Invenzione di Morel, che ci ricordano che siamo lettori di parole e passioni e relazioni e testi che hanno prodotto ologrammi che ogni volta somigliano sempre più a isole deserte.
Cara mamma, ieri nello penombra di una vasta biblioteca ci fu una cerimonia intima e quasi misteriosa. Alcuni cavalieri affabili mi fecero membro del National Institute of Arts and Letters. Ti ho pensato tutto il tempo.
J.L.B., cartolina da NY, 26 marzo 1971
© Jorge Carrión, 2016. Tutti i diritti riservati.
Jorge Carrión è uno scrittore e critico letterario spagnolo, autore di I morti (Atmosphere Libri, 2011) e Librerie (Garzanti, 2015). Il suo sito web è www.jorgecarrion.me, su Twitter è @jorgecarrion21.
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