Pubblichiamo oggi la seconda e ultima parte della celebre intervista del giornalista peruviano Alfredo Barnechea a Julio Cortázar, che risale al 1971. Qui potete leggere la prima parte.
Intervista a Julio Cortázar / 2
di Alfredo Barnechea
traduzione di Carmen Mangiola
AB: Molti considerano la scrittura un atto di esorcismo. Nel suo caso, un racconto o un romanzo, in particolare, ha assolto questa funzione?
JC: Una buona parte dei racconti che ho scritto sono frutto di stati nevrotici, di ossessioni, fobie, incubi. Non sono mai andato da uno psicoanalista; ho risolto i miei conflitti interiori a modo mio, grazie a una macchina da scrivere e a quel senso dell’umorismo che fa storcere il naso alle persone serie. Quindi, più che un racconto o un romanzo, è la scrittura stessa il mio atto di esorcismo.
Chiaramente avrei dovuto porgli le classiche domande, perché scrive, con quale fine, ma aveva già affermato altrove che:
«Rimarrò un bambino in tante cose, ma uno di quei bambini che portano con sé l’adulto, di modo che quando il mostriciattolo diventa veramente adulto questo porta dentro di sé il bambino, e durante il cammino si verifica una coesistenza di rado pacifica di almeno due aperture al mondo. Gran parte di ciò che ho scritto si distingue per la sua eccentricità, dato che non ho mai ammesso una differenza tra il vivere e lo scrivere; se vivendo riesco a dissimulare una partecipazione parziale alla mia condizione, non posso tuttavia negarla in ciò che scrivo dato che scrivo proprio per non esserci o per esserci a metà. Scrivo per errore o per mancanza di una collocazione; e siccome scrivo da un interstizio, invito sempre gli altri a cercare il proprio e a guardare attraverso di esso il giardino dove gli alberi hanno frutti che sono, ovviamente, pietre preziose. Il mostriciattolo è sempre lì… E mi piace, e sono terribilmente felice nel mio inferno, e scrivo. Vivo e scrivo minacciato da questa lateralità, da questo posto reale, da questo stare sempre un po’ più a sinistra o più in fondo del luogo in cui si dovrebbe stare affinché tutto si risolva in modo soddisfacente in un giorno di vita in più senza conflitti. Ero ancora molto piccolo, quando accettai a denti stretti la condizione che mi separava dagli amici, e che, allo stesso tempo, li attirava verso quel tipo strano, diverso, quello che metteva il dito nel ventilatore. Non è che non fossi felice, l’unica condizione era incontrare di tanto in tanto (il compagno, il tipo eccentrico, la vecchia pazza) qualcun altro che a sua volta non corrispondeva pienamente al suo ruolo, e naturalmente non era facile; ma ben presto scoprii i gatti nei quali potevo immaginare la mia stessa condizione, e i libri, nei quali la riscontravo chiaramente. Penso a Jarry, a un lento commercio a base di umorismo, ironia, che finisce per far pendere la bilancia dal lato delle eccezioni, per annullare la differenza eclatante tra normalità e anormalità, e permette il passaggio quotidiano a un piano che, in mancanza di nomi migliori, continueremo a chiamare realtà, senza per questo essere un flatus vocis o peggio che niente».
AB: Dopo tanto tempo, credo che ormai avrà le sue preferenze. Con quale cronopio si identifica di più? Quale ha riletto più volte?
JC: Non rileggo quasi mai la grande letteratura, tuttavia confesso di aver riletto periodicamente I tre moschettieri e le mie opere preferite di Julio Verne. Ma, anche Il circolo Pickwick di Dickens. In generale, ho una certa propensione per gli alienati, gli emarginati della letteratura. Un Jarry, un Roussel. Voglio che un romanzo mi arricchisca e mi trasformi, attraverso il sentimento o l’intelletto, ma non gli chiedo mai che mi insegni qualcosa. I romanzi didattici o quelli destinati a veicolare messaggi mi danno l’impressione di voler indorare la pillola. Inoltre, non sono mai piacevoli (mi viene in mente il realismo socialista) e trasmettono penosamente ciò che è stato già affermato nel saggio. Al momento, leggo pochi romanzi. Preferisco, è vero, la poesia, perché posso leggerla dovunque, al bar o in treno.
AB: Una volta abbandonata la macchina da scrivere, ha bisogno di liberarsi della materia che sta sviluppando o piuttosto continua a frullarle in testa?
JC: Beh, passo giorni, addirittura settimane senza scrivere, mentre sto lavorando a un libro. Ora, non mi concedo vacanze. Vivo come abitato dall’immaginazione, che si sovrappone a ciò che mi circonda, lo modifica e gli dà una nuova collocazione. È un sentimento meraviglioso e inquietante allo stesso tempo, un periodo in cui si accumulano coincidenze e incontri, come se il libro e la realtà esterna si invadessero a vicenda fino al giorno, sempre triste per me, del punto finale.
AB: Sebbene il fantastico sia una costante nelle sue opere, Il persecutore potrebbe aprire nuove direzioni. Questo cambiamento, se mi consente il termine, a quali esperienze si affianca?
JB: Sì, Il persecutore fu una prima presa di coscienza di una realtà immediata, storica, che fino ad allora era rimasta relegata sullo sfondo dagli eventi fantastici dei miei racconti. Non è un caso che poco tempo dopo, e potrebbe trattarsi di quelle esperienze parallele, mi recai per la prima volta a Cuba e venni profondamente a contatto con l’esperienza socialista, che ricevette tutta la mia solidarietà. Fino ad allora, vedevo persone, individui rinchiusi nelle proprie case. Il persecutore, in effetti, fu un primo tentativo per capire l’uomo come storia e destino, alla ricerca di se stesso nel punto più alto ed esigente.
AB: Questo tentativo continua anche ora. El libro de Manuel segna una netta svolta rispetto ai racconti precedenti?
JB: No, El libro de Manuel è un tentativo di recuperare due livelli fino a quel momento paralleli, una ricerca di convergenza tra il mio io romanzesco e il mio io storico, diciamo. Più precisamente, volevo includere tutto ciò che avevo detto fino a quel momento, anche politicamente, se vogliamo, in un testo che fosse letterario, ma non alla maniera della letteratura programmata, senza concessioni facili e demagogiche. Si tratta di un libro in certo modo plurale, al quale si potrà accedere attraverso più di un livello. Ha un forte carattere documentale, di cose che leggevo ogni giorno mentre scrivevo. Un gruppo di latinoamericani vivono a Parigi e decidono di compiere una serie di azioni, e allora, ci sono sequestri e cose simili. Ora, il libro non vuole essere un testo diviso in due livelli, ma accedere a un piano superiore che li integri, che li faccia convergere.
AB: Il rifiuto della solennità, l’umorismo, l’insolito, la ricerca di una sovrarealtà, sono tratti tipici del surrealismo. Qual è stata la sua relazione con esso e cosa ne pensa ora?
JC: Il surrealismo è stata la mia via di Damasco, mi ha strappato al sentimentalismo post-romantico argentino degli anni Trenta, mi ha insegnato ad attaccare la parola, a intraprendere con essa una battaglia amorevole e controversa, a fidarmi dell’assurdo e a rifiutare un’assennatezza sistematica, a credere in una schizofrenia creatrice, termini che allora non si usavano, ma che i lettori di oggi sono in grado di capire. In seguito, mi resi conto che il surrealismo si stava a poco a poco anchilosando, trasformandosi in una scuola, quasi in una chiesa con André Breton come Papa. Per vari motivi, non vado d’accordo con le chiese. Ma il vero surrealismo è indistruttibile, è un’attitudine, un modo di conoscere che si manifesta quotidianamente in mille modi diversi che, per fortuna, non sono forzatamente letterari.
AB: Spesso ha fatto riferimento allo zen. Che cosa la attrae in questa disciplina?
JC: Per citare solo uno dei suoi molteplici aspetti, ammiro il modo in cui lo zen scardina gli schemi logici e prova che non sono imprescindibili per accedere a determinati livelli di conoscenza. La considero una lezione stupefacente per noi, devoti e ostinati schiavi di Aristotele e Tommaso D’Aquino.
AB: Nella sua lettera a Fernández Retamar, lei ha scritto più o meno così: «Incapace di azione politica, non rinnego la mia solitaria vocazione di cultura…». Nel maggio del ’68, a Parigi, prese parte tuttavia a un’occupazione e, ora, come ha affermato all’inizio, è sempre più interessato alla situazione politica dell’America Latina. La frase in questione è ancora valida? In poche parole, come si pone adesso rispetto al suo impegno politico?
JC: Continuo a credere di essere incapace, o se si vuole poco capace, di azione politica, che per essere realmente tale dovrebbe assorbire tutto il mio tempo, anche quello che dedico alla scrittura. Sono e sarò uno scrittore che crede nella via socialista per l’America Latina, e che a livello politico impiega gli strumenti che gli appartengono per appoggiare e difendere questa via. Quando lo ritengo necessario intervengo su un livello, per così dire, diretto dell’azione politica, però credo di essere più efficace usando la parola scritta. Continuo a essere un cronopio, ovvero un soggetto per il quale la vita e lo scrivere sono inseparabili, e che scrive perché solo la scrittura lo colma, e, infine, perché gli piace.
AB: Lei sta per recarsi nel suo paese in un momento abbastanza critico per la situazione politica, pertanto vorrei porle una domanda al riguardo. All’epoca, come fecero tanti intellettuali argentini, lei si oppose al peronismo. Oggi, quella stessa classe intellettuale lo ha rivalutato. Qual è la sua opinione in merito?
JC: Guardo al peronismo in una prospettiva di vent’anni, con un’ideologia definita e un’autocritica spietata. All’epoca, in effetti, non riuscii a distinguere tra Perón e il peronismo, tra il governante ambiguo e l’incredibile presa di coscienza che aveva scatenato, senza tuttavia essere in grado di portarla fino alle conseguenze estreme, alla rivoluzione. Sarò soddisfatto il giorno in cui potremo sostituire il termine peronismo con uno che esprima meglio, con maggiore verità, il lungo cammino del popolo argentino verso il suo destino socialista; però, al momento, dato che indica a sufficienza il processo, lo comprendo e lo rispetto.
AB: Per concludere, mi conceda di fare una domanda piuttosto solenne: Quale sono stati i momenti cruciali del Novecento che ha vissuto?
JC: Se non sapessi a cosa allude la sua domanda, sarei preoccupato dal fatto che questa solennità venga sminuita dalla mia risposta. I momenti cruciali del Novecento sono di dominio pubblico: la rivoluzione russa, la disfatta del nazismo, la vittoria del Vietnam o la rivoluzione cubana. Quelli che mi hanno segnato, quelli che per me contano, sono la prima radio a galena della mia infanzia, il volo di Lindbergh, l’incontro Firpo-Depsey, la lettura de La condizione umana, la foto di Mussolini appeso per i piedi e, dato che siamo in tema, la tardiva, ma confortante morte di Harry Truman e Lyndon Johnson.
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