Vi presentiamo la seconda parte della bella intervista di Juan Carlos Fangancio a Ricardo Piglia uscita su Buensalvaje, ringraziando l’autore e la testata. Potete leggere la prima parte qui.
«Ricardo Piglia: il lettore come creatore» / 2
di Juan Carlos Fangacio
traduzione di Claudia Tebaldi
JCF: Tornando al concetto di tradizione letteraria in Argentina, in Nombre falso, il personaggio di Kostia dice che gli scrittori argentini copiano, falsificano. Quanto c’è di reale in quest’affermazione?
RP: È vero. Lo si vede in Borges che ha sempre lavorato tanto con testi altrui. In tutti i sensi. Lo stesso vale per Cortázar. Non si tratta di generalizzare, ma credo che anche questo riguardi la nostra cultura dell’importazione.
JCF: Questo uso dell’appropriazione e il sovvertimento dei concetti di finzione e realtà, l’ha trascinato in un processo dopo la pubblicazione di Soldi bruciati. Cosa le ha lasciato questo spiacevole episodio?
RP: È stato sgradevole per diversi aspetti. All’inizio l’apparizione di questa donna che mi ha portato in tribunale per aver inserito il suo vero nome nel romanzo è stato abbastanza inquietante. Il problema è dovuto al fatto che per me era imprescindibile che i personaggi apparissero con i loro nomi così com’erano. Questo è sempre stato il mio punto di partenza. Per fortuna il processo finì nel migliore dei modi. Scrissi perfino un articolo sull’utilizzo di nomi reali come grande tradizione di tutta la letteratura argentina. Inoltre, ciò che narravo nel libro era riportato sui giornali, non avevo scritto un romanzo su una persona qualsiasi. Con Soldi bruciati ho semplicemente cercato di ricostruire una situazione storica mediante la tecnica del romanzo di non-fiction, che ha come requisito quello di usare nomi reali. Per questo dico che quell’apparizione del reale all’interno della sfera romanzesca è stata inquietante. E l’altro gran problema è che noi scrittori siamo sempre trascinati in tribunale per discutere questioni che la società già sta discutendo in un altro registro; e poiché non possono mettere sotto processo nessun altro, lo fanno con gli scrittori, che sono i più deboli.
JCF: Anche il tema del plagio ha provocato vari dibattiti polemici ultimamente…
RP: Sì, mi sembra che il tema del plagio stia dominando la discussione contemporanea, perché internet mette in gioco la questione della proprietà in modo nuovo. Noi scrittori parliamo di questo da sempre, è una discussione che viene portata avanti dal Siglo de Oro. Nel linguaggio non esiste la proprietà privata. Quest’ultima appare dopo che qualcuno segna il linguaggio in maniera particolare. E ora il tema scaturisce nella società come questione legale, come un gran problema per le case editrici, per chi sta a capo delle lobby. Chi sono i proprietari delle opere?
JCF: Ha dichiarato di essersi guadagnato da vivere leggendo più che scrivendo. Perché?
RP: Quello che è successo è che sono stato professore, sono stato direttore di collane editoriali, ed essenzialmente il mio lavoro è stato quello di leggere. Guardi, io credo che la lettura si possa insegnare. È qualcosa di molto strutturato, il modo di leggere un testo codificato o anche un testo poetico. Invece, la scrittura non ha queste regole, per fortuna. Diciamo che se arrivano i soldi sono contento; ma in generale non sono di quegli scrittori che pubblicano un libro ogni due anni. Per questo cerco di guadagnarmi da vivere da un’altra parte, per avere il tempo e la libertà sufficienti per scrivere libri.
JCF: Parlando di come guadagnarsi da vivere, ha conosciuto Borges proprio in occasione di un pagamento per una conferenza…
RP: È così. Lo cercai per chiedergli di partecipare a una conferenza, per la quale gli offrivo 500 pesos, ma lui mi rispose: «No, è troppo. Dammi la metà». Replicai che i soldi me li dava l’università, però lui insistette nel ricevere solo la metà. E quando ci salutammo, mi disse: «Ha ottenuto uno sconto considerevole, ha visto?». Una battuta alla Macedonio Fernández. Quindi perse 250 pesos, ma si conquistò il fatto che raccontassi quest’aneddoto tutta la vita. Credo davvero che costruì la sua leggenda in questo modo, perché tutti raccontano storie su di lui.
JCF: Un altro autore per lei molto importante è Juan José Saer. Stavate lavorando a un progetto per scrivere un libro insieme. Non se n’è fatto più niente?
RP: Abbiamo fatto qualche bozza, ma non siamo riusciti ad avanzare più di così. L’idea era quella di scrivere un romanzo poliziesco con due detective come protagonisti, uno che viveva a Parigi e l’altro a Buenos Aires, che si consultavano attraverso delle lettere sui dettagli del crimine.
JCF: È simile a ciò che accade nell’Indagine…
RP: Senz’altro vi sono delle somiglianze. Nell’Indagine si svolge una conversazione a Santa Fe, nella quale si analizzano le diverse possibilità di una storia. Il fatto curioso è che a Saer non piacevano i generi. E poiché a me invece interessano molto, abbiamo sempre avuto un confronto ironico su questo, ecco perché scrivere quest’opera si stava rivelando una vera sfida.
JCF: Lei non ha una posizione apocalittica sulle nuove tecnologie o sulla presunta fine dei libri. Tuttavia, ha detto che viviamo in un’epoca nella quale ci sono più scrittori che lettori. Questo dovrebbe preoccuparci?
RP: Be’, facevo dell’ironia. Ciò che volevo dire è che quando leggo la letteratura contemporanea, trovo dei lavori molto validi, però trovo anche scrittori che si entusiasmano parecchio con la lettura a schermo, mentre rivedono il proprio testo. E si entusiasmano perché sullo schermo sembra tutto già editato, molto strutturato, sistemato, quasi una stesura iniziale. Al computer il testo risulta formattato in modo evidente. Prima avvertivamo quell’aspetto un po’ sporco di quando si scrive a macchina e per arrivare all’ultima pagina si doveva lavorare molto di più. Ma quando si lavora al computer, sembra andare tutto bene. Molti giovani – e in generale scrittori di qualsiasi età – si entusiasmano troppo per ciò che scrivono, perché lo leggono sullo schermo, non lo stampano. È solo quando l’opera viene stampata che acquista il suo vero colore. Per di più, al computer leggono una pagina, non il tutto. Sicché quando arrivano alla fine, si sono perfino dimenticati della storia che stavano raccontando. Tuttavia, al di là di questo dettaglio formale, penso che la transizione non abbia ancora prodotto dei cambiamenti nel modo di narrare. È cambiata la circolazione dei testi e sono comparse tematiche nuove, ma non ci vedo una trasformazione nella narrazione.
JCF: C’è qualche opera della sua produzione che la soddisfa più di altre? O qualcuna alla quale è più affezionato?
RP: Questo cambia un po’ con il tempo. Penso che sia più una questione di qualità, di sentire che un’opera si è avvicinata di più a quello che volevo fare. In questo senso, direi che è Prisión perpetua, che gira intorno a una serie di temi che ho costantemente sviluppato nei miei libri. È questo il libro che preferisco adesso.
JCF: Attualmente a cosa sta lavorando? C’è qualche libro in vista?
RP: Al momento sto scrivendo una specie di autobiografia che ha come nucleo centrale la storia del mio rapporto con i libri. Non i libri che ho scritto, ma quelli di cui ho un ricordo molto chiaro, fissato nella memoria. È una sorta di percorso a partire da alcuni ricordi. Si chiamerà Los libros de mi vida.
JCF: Come si vede nella posterità? Vorrebbe essere ricordato attraverso la sua opera? Come intravede questo futuro?
RP: Mah, cerco di non pensarci. Tuttavia, se dovessi pensarci, spero che qualche mia opera serva a far ricerca o a scoprire qualcosa. D’altra parte è molto difficile pensare a questo, sapere come verrà vista la mia opera nei prossimi vent’anni. Un’altra questione che mi preoccupa è che oggi sono molto più presenti gli scrittori che i libri.
JCF: Quando si rifiutò di partecipare al Salon du Livre di Parigi, disse una frase molto simile: «Adesso viaggiano gli scrittori, quando sono i libri che dovrebbero viaggiare».
RP: Be’, è che la penso diversamente su certi argomenti, che non vale la pena affrontare adesso. Semplicemente, mi premeva mettere in chiaro che rinunciavo ad andare non per contrasti politici, bensì per contrasti inequivocabilmente letterari. Ora la cultura è molto politicizzata, quando in realtà dovrebbe mantenere una logica propria. Può persino avere una logica politica, ma non deve mai averla di politica elettorale. Perché se succede, la questione si complica.
JCF: Non ha mai pensato che scrivere e leggere tanto, dedicarsi tanto alla letteratura, possa impedire di vivere? Non si è mai sentito solo?
RP: No, penso di aver vissuto molto intensamente tutto ciò che ho potuto. Inoltre, credo che tutti coloro che si dedicano alla letteratura lo facciano perché hanno qualche difficoltà nelle relazioni sociali. Anche se immaginarie. Penso che non si scelga questo mondo che ci isola, ma che già si abbia la tendenza a trovare un certo piacere in questo isolamento. Mi sembra che ci sia un’oscillazione in questo. Ed è una tematica ricorrente nella storia della letteratura. Un esempio è il Don Chisciotte. In generale, però, non ho mai avuto nessuna difficoltà, ho avuto una vita soddisfacente, una vita nella quale ho fatto più o meno le cose che volevo fare. E così come la mia letteratura si è arricchita attraverso le mie esperienze, la stessa letteratura ha arricchito la mia vita. Ma non voglio diventare troppo nostalgico (ride, ndr).
JCF: Parlando di solitudini, è vero che conosce Thomas Pynchon?
RP: Sì, una volta me l’hanno presentato. Il mio editore in Brasile, che è un suo grande amico, me l’ha fatto conoscere. Ha l’aspetto di un hippie che va in bicicletta e vive la sua vita molto tranquillamente, senza che nessuno lo riconosca. Ha saputo trovare uno spazio che gli consente di essere invisibile.
JCF: L’ultima: vi basterà Messi per vincere il Mondiale?
RP: Be’, insomma, siamo molto contenti di lui e pensiamo che giocherà bene. È un giocatore di un’intelligenza straordinaria, che ha l’abilità di arrivare un secondo prima degli altri. Perciò staremo a vedere come andrà, speriamo bene. Anche il calcio peruviano mi piace. Soffrite tanto, ma giocate bene.
JCF: È stato gentilissimo, nonostante la caduta e l’interruzione della chiamata…
RP: È stato strano. Prima è caduta la linea. Poi sono inciampato e caduto. E per di più ci ho messo un po’ ad alzarmi, mentre il telefono era ancora acceso. Comunque, penso che abbia dato una parvenza di realtà alla conversazione: è stato divertente, no?
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