Oggi vi presentiamo un articolo di Pietro Menozzi sul deserto di Sonora e i suoi orrori: 2666 di Roberto Bolaño, ma anche i film El Sicario e The Counselor. Il pezzo è uscito su Inutile, che ringraziamo.
Per parlare di Bolaño ci vorrebbe Carmelo Bene. Nel suo studio, il bicchiere di Ballantine’s in mano. Per due volte sopprime le parole prima di iniziare. Guarda fisso in camera e abbassa gli occhi sulla mole tartassata di 2666. Espressione costernata. «Questo è abbandono, baratro, il baratro del controllo – pausa – Bisogna imparare a cadere, un buco nero … caduta libera e movimento – espira volute di fumo irritato dal bisogno di spiegare, la comunicazione è una piaga – sappiamo cadere? vogliamo precipitare?»
Ha una mano sulle pagine, lo sguardo assente: «Qua non si spiega niente, è anarchia programmatica, caos… Artaud diceva la poesia è anarchica, nella misura in cui la sua apparizione deriva da un disordine che ci riavvicina al caos, ecco… si parla di noi, lo capisci? Qua non inizia niente e finisce tutto, ininterrottamente – la voce si abbassa – è l’inizio perpetuo della fine, sfinimento della fine, esplosione della fine…»
Furioso «e iperfetazione della storia, ratto della storia dalle mani degli storici, la storia qua dentro è una ferita che continua a suppurare storie; un tumore che si riproduce all’infinito. Questa è la storia, che finisce in un deserto, un ossario tra l’occidente e la sua fogna…». Legge:
Il 10 dicembre alcuni dipendenti del rancho La Perdicion informarono la polizia del ritrovamento di uno scheletro nei terreni ai margini della fattoria, all’altezza del chilometro venticinque della strada per Casas Negras. All’inizio pensarono che si trattasse di un animale, ma quando scoprirono il teschio si resero conto dell’errore. Secondo la relazione del medico legale si trattava di una donna, ma le cause della morte, visto il tempo trascorso, restavano oscure. A circa tre metri dal corpo furono rinvenuti dei pantaloni tipo fuseaux e un paio di scarpe da tennis.[1]
Meno Bene (molto meno bene) proviamo a partire dal 1993. Anno a cui risale il ritrovamento del primo cadavere vittima del femminicidio perpetrato per più di quattro anni intorno alla città di Santa Teresa – alias letterario di Ciudad Juárez. Una voce anonima li registra tutti, accumulando le ricostruzioni dei giorni precedenti alla morte, o la circostanza del ritrovamento. Sono referti che scandiscono il passare del tempo nei territori del Sonora e invadono l’esperienza e i sogni e le coscienze dei suoi abitanti, le indagini a vuoto dei commissariati, le proteste di piazza, le pagine dei giornali, la connivenza e l’omertà di sindaci, governatori, deputati, la rassegnazione delle vittime, le donne e gli uomini che si oppongono, chi ignora, chi ne rimane coinvolto, chi fugge. Chi sparisce.
Che i casi rimangano irrisolti o s’identifichi il responsabile poi non cambia. Perché l’evidenza espone oscenamente i sintomi di una malattia endemica e le deposizioni di amanti e mariti che ammazzano le loro donne per gelosia, frustrazione o disperazione – in ultimo tutti per viltà – tradiscono il senso degli omicidi: da un delitto all’altro il male si è propagato come una forma cancerogena sull’organismo sociale.
Se l’infezione ha origine nella miseria emarginata delle maquiladoras, è tutta Santa Teresa a esserne esposta. Sotto la sua luna di cicatrici le donne – vittime di abusi, strangolate, accoltellate, colpite al viso, percosse, amputate, soffocate, legate e seviziate – sono la testimonianza di un male che ha superato i confini geografici. Nessun delitto è estraneo al massacro del Sonora. E tutti hanno lo stesso colpevole senza volto; perché affondano nel magma indistinto che impedisce di vedere e cercare.
Che senso ha allora leggere trecento pagine ridondanti e ferali in cui si ammassano centinaia di resoconti indistinguibili l’uno dall’altro? Sembra quasi di sentire l’eco interminabile del rutto zanzottiano dietro i massacri di 2666. Quel bburp che cancella dalla storia il corpo della donna vittima insieme alla figlia della strage di Bologna.
E il nome di Maria Fresu / continua a scoppiare / all’ora dei pranzi / in ogni casseruola / in ogni pentola / in ogni boccone / in ogni / rutto – scoppiato e disseminato – / in milioni di / dimenticanze, di comi, bburp.[2]
E il rutto ha effetto simile all’alienante ripetizione di Bolaño. La pietà per le vittime è deformata dal linguaggio paradossale e scarno della violenza. Linguaggio che – come un rutto o un’elencazione apatica – restituisce dignità alle vittime rimosse dalla memoria collettiva, mentre condanna la brutale anonimia a cui sono consegnate.
Questo è solo il primo significato della parte dei delitti, reale centro semantico che attrae tutti i personaggi e le parti del testo – parti che seguono le vicende dei critici europei delle opere di Arcimboldi, il professore cileno Amalfitano, Oscar Fate e per ultimo lo stralunato scrittore Benno von Arcimboldi. Perché 2666 è un romanzo mondo, una galassia narrativa in espansione. Le storie dal basso dei suoi artefici interagiscono attraversando più di mille anni di storia, sconfinando oltreoceano per perdersi in Europa e risalire nei luoghi e nei tempi dei grandi conflitti del XX secolo.
Il lettore ha davanti a sé un universo da esplorare a patto di compromettere le proprie sicurezze e predisporsi all’ascolto del suo racconto incessante, cosmopolita, obbligato. Leggiamo dell’infanzia acquatica del giovane Hans Reiter – non sembrava un bambino ma un’alga – catapultato da un piccolo paese della Germania nell’assurdità della seconda guerra mondiale, che attraversa con il coraggio estraneo e la follia di un sommozzatore. Per esserne rigettato e finire a lavorare come buttafuori di un bar tra le macerie di Colonia, sotto lo pseudonimo di Arcimboldi. E di nuovo lontano, in Italia, in Grecia. Senza appartenenze.
Per molti anni la casa di Arcimboldi, i suoi unici averi, furono la sua valigia, che conteneva dei vestiti, cinquecento fogli bianchi e i due o tre libri che leggeva in quel momento, e la macchina da scrivere che gli aveva regalato Bubis. La valigia la portava con la mano destra. La macchina da scrivere con la mano sinistra. Quando i vestiti diventavano un po’ vecchi, li buttava. Quando finiva di leggere un libro, lo regalava o lo lasciava su un tavolo qualunque.[3]
Fino a ritrovarlo, ottantenne, sullo sgabello di un bar di città del Messico la notte prima di partire per Santa Teresa. Dove lo cercano invano i critici europei da sempre sulle tracce dell’imprendibile scrittore. Dove Oscar Fate – giornalista afroamericano cresciuto nel Bronx e arrivato in città per coprire un incontro di boxe – salva l’innocente e bellissima Rosa Amalfitano, dopo una notte senza fiato precipitata nelle budella della città inferocita.
Ma perché proprio il Sonora? Perché tutto s’inabissa in questo territorio desolato dove gli Stati Uniti collassano nel Messico, tra il deserto e Ciudad Juárez, in cui approdava anche la ricerca senza fine dei Detective selvaggi? O ancora, è un caso se lo stesso pezzo di terra continua a finire sotto i riflettori del cinema e in mezzo alle sceneggiature degli scrittori, amplificando ogni volta l’onda d’urto di 2666?
È della stessa frontiera insanguinata che raccontano in modo quasi opposto El Sicario e The Counselor. Gianfranco Rosi con la misura minima e ossessiva di una telecamera e un testimone. Una stanza disadorna e un uomo dal volto coperto che racconta la sua vita al servizio del cartello. Disegnando frenetico su un quaderno le strategie con cui i narcos si sono presi il Messico. Poi, parte di un rito macabro e grottesco, interpretando se stesso strangolare un debitore, o spiegare l’importanza di uccidere un uomo prima di farne a pezzi il cadavere. Perché le donne dei narcos sono torturate, stuprate e strangolate e dove si sotterrano i resti umani a Santa Teresa e dintorni.
È il potere del cane, che gli interessi, la corruzione e l’inettitudine da entrambi i lati del confine non hanno fatto che accrescere. Il potere del cane – racconta Don Winslow – è la forza inarrestabile dei cartelli criminali, dilagata nell’ultimo trentennio e tutt’ora in piena – 80mila morti e 27mila desaparecidos registrati solo tra il 2006 e il 2012. Il suo è un romanzo di genere incentrato sulla guerra al narcotraffico, che si inoltra con precisione documentale in quella putrescente palude.
McCarthy e Ridley Scott precipitano invece lo spettatore in un noir senza trama impantanato in una zona grigia da cui è impossibile uscire. E una delle prime sequenze del film inquadra Ciudad Juarez dall’alto, innescando nella memoria del lettore di Bolaño un déjà vu dai contorni tetri, presagio esatto di quello che succederà. Il protagonista, avvocato ai margini della legalità, investe in una partita di eroina del cartello, per finire giustiziato dalla libertà che prova a esercitare. Al netto della spettacolarizzazione tutta la storia percorre un sentore sotterraneo che scende dritto all’inferno.
Com’è l’inferno? Come Ciudad Juárez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri, rispose in una delle ultime interviste Roberto Bolaño.
La violenza del Messico – in particolare di quella parte del Messico che confina con gli Stati uniti – è un fenomeno che non si può relegare a una città né a una nazione. Bolaño proiettandosi oltre il proprio punto di vista attraversa quel confine per guardarlo da un’altra angolazione; e intuire che è proprio lo scontro tra due blocchi contrapposti a incendiare la regione che li separa e ne rimane schiacciata. Il Messico, lo stato del Sonora e Ciudad Juárez nello specifico, incarnano la controparte selvaggia dell’occidente. È lì che nell’immaginario dei cittadini americani – e per esteso europei – si possono ancora vivere esperienze reali, fuori dal controllo, non confezionate sulla misura dei nostri desideri. Ma è proprio lì che scoppiano le contraddizioni più violente e si sgretolano le sicurezze di cartapesta di un mondo che ha provato inutilmente a barricarsi dietro le mura del proprio sterile, arrogante e ridicolo benessere.
[1] Da 2066 di Roberto Bolaño, Adelphi, 2011. [2] «Il nome di Maria Fresu», dalla raccolta Idioma. [3] Da 2066 di Roberto Bolaño, Adelphi, 2011.Condividi