Pubblichiamo un profilo dell’artista giamaicana Grace Jones, la cui autobiografia è da poco uscita in America. L’articolo, firmato da Daniele Cassandro, è apparso originariamente sulla rivista online Soundwall. Ringraziamo l’autore e la testata.
di Daniele Cassandro
Le autobiografie degli artisti di solito vivono in una zona letteraria a metà tra la parabola edificante e il romanzetto di formazione. Botte da bambini, adolescenza complicata, presa di coscienza del proprio talento, successo, droga assunta da ogni orifizio e sesso praticato per ogni orifizio, proprio e altrui. Poi depressione, illuminazione (cristalli, buddismo, veganismo, Gesù), figli e alla fine dissolvenza verso una serena vecchiaia. Ogni tanto si parla anche di musica ma mai quanto di orifizi e di illuminazioni.
L’autobiografia di Grace Jones uscita ieri in tutto il mondo (Grace Jones e Paul Morley, I’ll Never Write My Memoirs, Simon & Schuster) ci porta in tutt’altro territorio. L’incipit da solo ci fa capire che non siamo né in una favola e neanche in un manuale di autoaiuto VIP.
«I was born».
Sono nata. Punto. Nessun C’era una volta, nessuna descrizione: dal caos primordiale nasce Grace Jones. Armata, come Atena dalla testa di Zeus.
La narrazione, spesso caotica e psichedelica, ci porta dalla Jamaica (paese in cui Grace nasce nel 1948 da una famiglia borghese e molto religiosa), a New York, passando da Parigi e Los Angeles. La vita dell’artista non è raccontata come una storia lineare ma più come una specie di mito primitivo. I’ll Never Write My Memoirs è forse il primo esempio di autobiografia pop afrofuturista. Grace, nel corso della narrazione, cambia forma, cambia corpo, cambia sesso, come gli spiriti delle religioni animiste. È un libro sull’identità e sull’iniziazione: sulla scoperta di superpoteri che portano a grandi (ir)responsabilità.
La carriera di Grace Jones è frammentaria, caotica, casuale. Sulla sua strada ci sono incontri folgoranti che la trasformano (il compagno Jean Paul Goude, le coinquilne Jessica Lange e Jerry Hall, Timothy Leary, Andy Warhol, Issey Myiake, Keith Haring). Poi ci sono le iniziazioni continue, quasi dei rituali: il primo, liberatorio orgasmo (avuto non più giovanissima col suo parrucchiere), l’LSD sperimentato in una comune hippy ad appena 17 anni, la prima volta sul palco di un locale gay, il ritorno in Jamaica e la riscoperta delle radici. L’unico punto fermo della sua vita, e Grace lo dice chiaramente, è stato il bisogno di «allontanarsi da Dio». Da quel Dio oppressivo, maschilista e violento che le era stato inculcato da bambina dal nonno predicatore pentecostale.
Si parla spesso di droghe nel libro di Grace Jones. E lei ammette di averle provate tutte: «Sono convinta di dover sperimentare tutto almeno una volta», dice. Ma le droghe per lei non sono solo ricreazione o fuga. La sua iniziazione all’LSD l’ha portata ad avere un rapporto quasi sciamanico con gli stupefacenti. Scopre che ci sono sostanze che ti aprono porte nella mente, altre che ti annullano, altre che ti rendono simpatica, altre che ti uccidono, altre ancora che non ti fanno un bel niente. Di lei si è detto che è stata una leggendaria cocainomane: Jones non smentisce ma sottolinea che la cocaina non è mai stata la sua droga preferita. Si trovava dappertutto negli anni Ottanta, tutto qui. Lei ha solo imparato a stare alla larga dalla quella cattiva.
La musica è arrivata per caso. Lei, modella non esattamente richiestissima tra Parigi e New York («Ero troppo scura e troppo piatta di seno»), aspirava più al cinema. Convinta da un suo maestro di recitazione, fa anche un provino come cantante a metà anni Settanta. Ma è un disastro: «Era come non saper nuotare ed essere buttata a largo. Forse avrei dovuto prendermi un Quaalude per rilassarmi… quella gente aveva lavorato con Aretha Franklin e Dusty Springfield e io gli stavo facendo perdere tempo. Non c’è stato neanche uno sguardo, dopo… si accomodi, quella è la porta».
Alla disco music Grace approda più tardi, sempre poco convinta e spinta dai suoi agenti che volevano farne una modella cantante, un po’ come Amanda Lear. Con il leggendario produttore Tom Moulton inizia il suo periodo disco, di recente raccolto in un cofanetto laccato con i tre album Portfolio (1977), Fame (1978) e Muse (1979). Moulton è abituato a lavorare da solo e usa Grace Jones come se fosse uno strumento come un altro. Il suo apporto è solamente cantare con voce cavernosa classici di Broadway che vengono poi trasformati in lunghe suite riccamente orchestrate. Grace non si accontenta e cerca di muoversi nell’angusto spazio che le è concesso da Moulton. «Cantavo in questo inglese alieno: era come se mi inventassi la lingua sul momento». Con il francese il gioco funziona ancora meglio: Moulton stava già lavorando su un arrangiamento disco-tropicale de «La vie en rose» e Grace è al posto giusto con l’immagine giusta. Con lei il pezzo diventa una fantasia post-coloniale cantata da una Josephine Baker transessuale piovuta dallo spazio.
In quegli anni Grace inizia a mettere a punto la sua immagine: si rasa a zero, gioca con gli stereotipi sessuali e razziali. È diva coperta di lustrini ma anche belva in gabbia. Cita la vergogna tipicamente coloniale di esporre i negri come bestie nelle Esposizioni Universali, ma allo stesso tempo si offre come sofisticato sex symbol androgino ed europeo. La sua immagine e la sua voce sono gli unici margini di creatività che le sono concessi e lei li sfrutta fino in fondo.
Cantando «I need a man» a seno nudo in un locale gay ha una delle sue tante epifanie: si rende conto che mentre canta è un uomo che dichiara il suo desiderio per un altro uomo. È l’ennesima canzone disco più o meno esplicita sul desiderio insoddisfatto. C’è «Gimme! Gimme! Gimme! (A Man After Midnight)» degli Abba, ma le voci angeliche di Frieda e Agnetha volteggiano immacolate su qualunque doppio senso. C’è «Hot Stuff» di Donna Summer/Giorgio Moroder che diventa quasi messianica e più tardi ci sarà la caricaturale, pantagruelica pioggia di maschi di «It’s Raining Men» delle Weather Girls. Nessuna, prima di Grace Jones, si era spinta a cambiare sesso in scena per entrare in sintonia sciamanica con il proprio pubblico. Grace, quando canta «I Need a Man», diventa maschio: flette i bicipiti, la sua voce già bassa diventa baritonale. Il transfer è totale. E il desiderio di cui canta diventa carnale, pornografico.
Ci sono mille modi per essere icona gay: si può essere ambigue e cosmopolite come Amanda Lear, baraccone e nazionalpopolari come Raffaella Carrà, oppure tutte queste cose insieme come Eartha Kitt. Si può esserlo con la mentalità da belva del marketing di Madonna o con il disperato esibizionismo di Lady Gaga. Si può essere incoronate proprio malgrado come Cristina D’Avena o ci si può arrivare per onorata carriera come Cher o Tina Turner. Nessuna artista è arrivata a essere icona gay come Grace Jones: in modo quasi fisiologico, come per una mutazione genetica.
Lavorando con tanta attenzione alla sua immagine, Grace inizia anche ad assumere un maggior controllo sulla musica. Nel 1980 esce Warm Leatherette che la vede abbandonare la disco per un suono ibrido tra New Wave e Reggae. Sono gli anni in cui si riavvicina alla sua terra e in cui sente l’esigenza di reinventare una Jamaica tutta nuova da abitare da donna adulta e libera, lontana dalla schiavitù della religione e della violenza domestica. Con i Compass point all stars (Sly & Robbie più altri strumentisti e produttori), nel loro studio di Nassau alle Bahamas, Grace riparte da zero, come se la disco non fosse mai esistita. In quelle sessioni raccolte più tardi nell’album Private Life: The Compass Point Sessions si sperimenta un suono che poi tornerà in lavori di Tom Tom Club, Marianne Faithfull e degli stessi Sly & Robbie. E Grace è ben felice di fare da cavia. Nel giro di due anni si producono le cose migliori della sua carriera: il monumentale Nightclubbing e Living My Life.
In quel periodo Grace incontra Jean-Paul Goude, il fotografo e artista che saprà interpretare al meglio la sua tendenza naturale all’evoluzione, alla trasformazione. Goude, che è anche il padre di suo figlio Paulo, usa Jones come una tela vivente su cui creare. Scompone la sua immagine in mille pezzi. Fa un collage futurista di tutte le sue personalità precedenti. E lei diventa sia domatore che belva, sia Pierrette che Querelle di Brest. E spesso tutto nello stesso fotogramma. Goude è l’artefice della copertina della raccolta The Island Life in cui Grace si trasforma in una versione afrofutirista del Discobolo, una forma classica rivisitata attraverso un’estetica animista. La loro storia d’amore procede ma lei si accorge che Goude è più innamorato della «sua» Grace Jones che di quella reale. Iniziano anni di crisi in cui Grace è famosissima ma sente i suoi superpoteri affievolirsi. Fa finalmente cinema ma il ruolo della perfida May Day in A View to a Kill (lo 007 con l’omonima canzone dei Duran Duran prodotta da Bernard Edwards degli Chic) e una parte quasi grottesca nel già grottesco Conan il distruttore non sono quello che lei sperava.
Nel 1985 Grace Jones capisce che la musica è davvero la sua strada. E con «Slave to the Rhythm», prodotto da Trevor Horn, porta a casa un record: il singolo più costoso della storia del pop. Il lavoro sul pezzo dura quasi tre anni ma Grace ne è entusiasta. «La canzone è una specie di autobiografia della mia voce», spiega nel libro. Il produttore l’ha incoraggiata a cantare nel modo più estremo: Grace non ha paura di scendere giù e di sembrare più uomo che mai. Ma poi risale, gioca a fare la cantante d’opera, l’attrice drammatica e la clown. E la musica la segue: percussiva e tribale e ancora una volta ferocemente ironica e kitsch, con quell’utilizzo dell’ingombrante parola «slave» che viene radicalmente cambiata di senso e trasformata in un segno di nobiltà. Il singolo è costato talmente tanto che l’album omonimo è essenzialmente una raccolta di remix dello stesso brano.
I due album seguenti, The Inside Story (1987) e Bulletproof Heart (1989), la vedono barcamenarsi in un equilibrio sempre più precario. I tempi cambiano e la produzione di Nile Rodgers nel primo dei due album la incatena troppo saldamente ai primi anni Ottanta. Il singolo «I’m Not Perfect but I’m Perfect (For You)» è una bomba synth-funk (con un video in cui compaiono Keith Haring, Andy Warhol e Tina Chow), ma non ce la fa a reggere da solo l’intero lavoro.
L’evoluzione di Grace Jones è seguita passo passo nella parte finale del libro. La sua sfiducia nello showbusiness, l’atto di coraggio quasi suicida di andare a cantare (uscendone a suo modo bene) un’aria del Werher di Massenet con Luciano Pavarotti al Pavarotti & Friends, e il suo ritorno alla musica con l’ottimo album Hurricane del 2008. Nelle pagine finali Grace non fa marcia indietro. Non rinnega nulla del passato: è felice di essere nonna (la nipote si chiama Athena) ma sa che non cambierà mai. «Cos’è l’integrità?», si chiede alla fine del libro. «Penso che abbia a che fare con la tua identità. Ho lavorato così tanto per definirmi che non voglio perdere tutto trasformandomi in una caricatura. È così facile perdersi seguendo gli altri per far parte di una combriccola. Per me l’integrità è una guerra che non è mai finita». Una guerra che a fine agosto l’ha portata di nuovo in prima linea: come headliner dell’Afropunk Festival di Brooklyn si è esibita praticamente nuda davanti a una folla stupefatta. A 67 anni.
Un’ultima parola su Paul Morley, coautore del libro insieme a Grace Jones. Oltre a essere stato giornalista per testate come NME e il Guardian, era nel team di lavoro di Trevor Horn durante le lunghissime sessioni per Slave to the Rhythm ed è autore del fondamentale saggio Words and Music: The History of Pop in the Shape of a City (uscito in Italia per ISBN edizioni con il titolo di Metapop) in cui cerca di trovare il nesso tra la musica di avanguardia di Alvin Lucier e il pop sintetico di Kylie Minogue. Morley è sposato con Claudia Brücken, già cantante della band synthpop tedesca Propaganda.
© Daniele Cassandro, 2015. Tutti i diritti riservati.
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