Pubblichiamo un intervento di Mira Jacob sulle chiusure dell’industria editoriale americana nei confronti delle minoranze etniche. L’articolo è apparso originariamente su BuzzFeed, che ringraziamo.
di Mira Jacob
traduzione di Giuliano Velli
Ieri sera, ho vissuto un piccolo dramma. Per essere più precisi, ero in piedi su una sedia a recitarvi la mia parte.
Poche settimane fa, quando Publisher’s Weekly mi ha chiesto di tenere il discorso di apertura a una serata in onore degli astri nascenti dell’editoria, ho colto al volo l’occasione. Parla di com’è stato essere pubblicati, mi hanno detto. Parla di com’è stato per te l’anno passato.
È stato un anno movimentato. È uscito il mio primo libro, Manuale di danza del sonnambulo, ho passato qualche mese a promuoverlo in giro per il mondo e, apparentemente, era tutta una grande festa. Ma la realtà era un po’ diversa. Era proprio questo che mi premeva approfondire, perché a volte, quando discutiamo dei numeri deprimenti con cui devono confrontarsi gli scrittori di colore, ci riduciamo a parlare solo di numeri. Volevo corroborare le statistiche parlando della mia esperienza personale.
Ma ieri sera il destino non era dalla mia parte. L’amplificazione della sala era tremenda, il che costituiva un bel problema. E nonostante sia salita su una sedia e mi sia messa a urlare per farmi sentire, metà della sala mi ha girato le spalle e ha cominciato a parlarmi sopra. Quando stavo per finire, ad ascoltarmi erano rimaste solo poche persone sedute in cerchio, ed ero davvero desolata. Ma ancora più desolate erano le facce deluse delle minoranze etniche presenti nel pubblico, i pochi che mentre andavo via mi abbracciavano e sospiravano: Vorremmo proprio che fossero stati a sentirti.
Be’, l’avrei voluto anch’io. Qualcuno ha una sedia?
Vi racconto una storia vera: pochi mesi fa, il produttore di un programma di letteratura della Boston Public Radio mi ha chiesto di leggere in diretta un brano del mio libro. Dopo averglielo mandato mi ha detto che avrebbe dovuto modificarlo. Capivo perfettamente. La radio è un mezzo diverso. I racconti vanno adattati. Nessun problema, adatta pure! Poi l’adattamento è arrivato. C’erano i soliti tagli, da 300 a 25 parole e così via, ma c’era anche altro. I nomi dei miei personaggi, mi ha scritto, erano inconsueti. Una scena ne conteneva tre, se proprio insistevo a tenere quei nomi insoliti, avrei potuto almeno ridurli a due? E poi una richiesta ancora più strana. In una frase che introduceva la scena, avevo scritto «tre adolescenti indiani, figli di immigrati, parlano seduti sul tetto di una casa». Nei suoi appunti il produttore aveva barrato «indiani» e scritto «INDIANI ASIATICI». Indiani asiatici. Come se, eccetto quando si dice «Non indiani d’America, indiani asiatici», fosse un’espressione che le persone comuni usano. La nota proseguiva: «Ahimè!» – non scherzo, diceva davvero Ahimè! come se fosse una vergine vittoriana – «Ahimè! Gli americani si confondono quando sentono la parola indiani – non è così che si dice da queste parti».
A questo punto la mia anima si è prodotta in un verso alla Chewbecca. Avete presente, quell’ululato mostruoso.
Ho fatto un respiro profondo. Ah, chi voglio prendere in giro? Mi sono fatta un goccio di whisky. Poi gli ho risposto. «Ahimè!», ho scritto – principalmente per vedere se mi sarei trasformata in una signora bianca in sottana – «Ahimè, Produttore di Programmi Radiofonici della Boston Public Radio – io sono americana! È qui che sono nata, e qui che vivo, da decenni, tra altri americani, altri americani indiani, anche, perché è così che ci chiamiamo, ma se per qualche motivo questo termine la mette a disagio allora usiamo pure il più generico sud asiatici».
Abbiamo usato sud asiatici.
Ci sono stata male per giorni. Giorni. Perché? Rispetto ad altre discriminazioni che ho affrontato nella vita, non era tanto grave. Non era nulla che non avessi già vissuto durante il tour promozionale, come quando, ad esempio, al party di un festival letterario in Florida, un donatore con cui parlavo da tutta la sera improvvisamente se n’è uscito dicendo: «Il tuo inglese è davvero buono, l’accento non si nota quasi!» O quando, durante le domande alla fine di una presentazione nel Massachusetts, un uomo sulla sessantina ha alzato la mano e mi ha chiesto: «Mio figlio esce con una donna indiana?»
Ma l’irritazione che avevo provato quelle volte era niente rispetto a quella che ho provato nei confronti del produttore radiofonico di Boston. Non riuscivo a capire il motivo, finché non ne ho parlato con Alison, la mia migliore amica, che mi ha detto: «Penso sia per il modo in cui si è fatto scudo del lavoro per nascondere il suo incurante razzismo, come se farti notare quanto puoi essere spiazzante per il suo pubblico fosse solo una questione professionale».
Perché è così che funziona la discriminazione; nessuno ti dice mai: «Non ti vogliamo». Nell’editoria, non ti dicono: «Il tuo romanzo non ci interessa». Ti dicono, invece: «Non siamo certi che i lettori possano immedesimarsi nei tuoi racconti». «Non puoi rischiare di alienarti una parte del pubblico». «Non siamo sicuri di sapere chi potrebbero essere i tuoi lettori», ti dicono.
Questo lo so bene. So bene che in questo settore ci sono ancora persone che non sanno qual è il mio pubblico. Ma non voglio credere neanche per un istante che sia così perché non esiste un mio pubblico.
Non fraintendetemi, sono consapevole di come stiano andando bene le cose, di che fortuna ha avuto il mio libro a passare attraverso le cure di un editore appassionato e premuroso. L’editing, le vendite, sono andati bene, e sarebbe fuorviante fingere che non sia così. Ma fuori dalla casa editrice, nel corso della promozione del libro, sono stata sorpresa da quante volte mi venisse chiesto di occultare il contenuto della mia storia, di presentare il mio libro al pubblico in maniera accattivante, come se tra i lettori non potessero esserci persone come me. Credo sia di questo che vorrei parlarvi, questa sera. Di questa idea contorta, ostinata e pervasiva che, per qualche motivo, sia difficile per l’americano medio entrare in sintonia con romanzi come il mio, questo presupposto che l’americano medio non mi somigli affatto.
Ed è proprio questo il punto: il mio non è un libro su personaggi dai nomi inusuali o incapaci di identificarsi etnicamente! Il mio libro parla di quello che succede a una famiglia quando vede che uno dei suoi membri comincia a svanire davanti ai loro occhi. Parla di come andiamo fuori di testa nel tentativo di salvarci l’un l’altro, di come l’amore possa, allo stesso tempo, incasinarci e toglierci dai guai.
Adesso vi racconterò una cosa che, da quando è uscito il libro, mi capita spesso. La prima volta che è successo ero in New Mexico, il pubblico era gente della mia città. C’era una donna in prima fila, me la ricordo perché indossava una maglietta verde e teneva le mani strette a pugno. Era bianca, forse sulla sessantina. Sembrava spaventata. Dopo la presentazione, mentre firmavo gli autografi, mi ha passato la sua copia del libro e mi ha detto sottovoce: «Mio marito è morto due mesi fa. Il suo libro me l’hanno dato i miei figli. Da quando è morto non ero più uscita di casa, ma volevo ringraziarla di persona per aver scritto di gente come noi».
Mi ha toccato il cuore. Ancora adesso, se ci penso, vorrei abbracciarla come ho fatto in quel momento. Sapete quella cosa che facciamo noi esseri umani, quando vuoi sostenere il peso di qualcuno con il tuo e dirgli: «Ti tengo io».
Quella è stata la prima volta, ma si è ripetuto spesso, davvero. Con gente di tutte le età, generi e razze. Succedeva alle presentazioni, nelle email che ricevevo, e se spesso si trattava di un semplice grazie per aver scritto questo libro, altrettanto spesso erano commenti sulle dinamiche familiari. «So che sei indiana», mi dicevano, «ma è come se parlassi della mia famiglia, gli italiani. La mia famiglia, gli ebrei. La mia famiglia, i greci. I dominicani. I coreani. Gli irlandesi».
Se vi racconto queste cose non è perché sono una specie di Pollyanna. Non mi aspetto che la condizione degli scrittori di colore si risolverà se ci mettiamo a cantare in coro come in un musical. Ma voi, astri nascenti dell’editoria, siete la mia speranza più grande. Voi che già adesso forzate i limiti di quello che l’editoria è pronta ad accettare. E credo che abbiate bisogno di sapere quello che ogni pezzo che pubblico mi fa riscoprire: che i lettori americani sono molto più capaci di quanto alcuni, nella nostra industria, credono. Quello che voglio dire, in poche parole, è: non è vero che agli americani bianchi sta a cuore solo ciò che li tocca più da vicino. Non è affatto vero. E che dire di noi invece? Noi MORIAMO dalla voglia di riconoscerci negli altri.
Voglio essere chiara: non vi chiedo di essere altruisti. Prima che il mio libro fosse pubblicato, sono stata per vent’anni un’impiegata dell’America capitalista; conosco gli interessi e le dinamiche economiche. Quello che dico ha valore anche dal punto di vista commerciale: lì fuori c’è un pubblico vasto e ancora inesplorato. Un pubblico che avete bisogno di raggiungere.
Viviamo una fase storica dove il significato di «altro» sta cambiando drammaticamente, dove è la mia migliore amica bianca che mi aiuta a districarmi da una situazione di un razzismo inquietante. Dove pubblico un estratto da un memoir illustrato al quale sto lavorando in questo momento – che parla dell’ossessione di mio figlio per Michael Jackson e di com’è connessa ad avvenimenti diversissimi come Ferguson e lo stato del mio matrimonio – e un’ora dopo è diventato virale. Sono andata a vedere chi lo condivideva, e indovinate un po’? Non erano solo indiani. Erano persone di tutti i tipi. Perché siamo tutti ansiosi di parlare del mondo in cui viviamo. E non vediamo l’ora che anche l’editoria diventi finalmente parte di questo mondo.
So che alcuni di voi adesso stanno pensando: «Ma io faccio tutto quello che posso per migliorare la situazione!» Vi capisco. So chi siete, e apprezzo i vostri sforzi. Ma so anche che tra voi c’è chi non fa niente. Probabilmente si rende conto dell’enorme divario esistente tra le esperienze di tanti americani e i libri che gli vengono proposti. Scorre con cautela su Twitter le conversazioni a riguardo, ma non ha idea di che posizione prendere, o se prendere posizione sia o meno un suo dovere. Quindi vi dico: è un vostro dovere. Venite. Partecipate. Se ci ignorate è a vostro rischio e pericolo, a rischio e pericolo di tutta l’industria.
Perché, siamo sinceri, è l’amore per i libri il motivo per cui siamo qui, giusto? Amiamo il ruolo che i libri hanno nel mondo, il modo in cui aiutano i lettori a coltivare l’introspezione e la compassione. Chi è stato premiato questa sera, di fatto, lo è stato fondamentalmente per una cosa necessaria e meravigliosa, il difficile lavoro di fare in modo che gli esseri umani possano comprendersi l’un l’altro. Certo, vi occupate anche di norme redazionali, coccolate scrittori fragili e bevete un po’ troppo il mercoledì, ma vi siete fatti carico del cuore di questo lavoro, e non credo che lo abbiate fatto per i soldi. Lo avete fatto perché sapete quanto è importante. Che valore abbia. Come possa cambiare le cose. Perciò questa sera voglio ringraziarvi tutti. Non è sempre un lavoro facile, ma lo fate, e io vi vedo farlo. Spero che anche voi vediate me.
© Mira Jacob, 2015. Tutti i diritti riservati.
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