Pubblichiamo oggi un toccante ricordo di Juan Carlos Onetti a cura dello scrittore e saggista spagnolo Antonio Muñoz Molina. L’articolo è uscito originariamente su El País, che ringraziamo.
di Antonio Muñoz Molina
traduzione di Pier Quarto
Quando si è vissuto molti anni nella stessa città uno a volte ha la sensazione di imbattersi in una versione molto anteriore di sé stesso, un fantasma che sarebbe difficile riconoscere se lo si potesse veramente vedere. Io passo di frequente sul marciapiede di avenida de América, a Madrid, dove si trova l’edificio nel quale visse fino alla sua morte Juan Carlos Onetti, e ogni volta mi ricordo della mattina di quasi ventidue anni fa in cui andai a trovarlo. Accanto a questo largo marciapiede davanti al portone scesi da un taxi, portando una borsa da viaggio, poiché avevo trascorso a Madrid poco più di un giorno e di lì a poche ore dovevo essere sulla strada per l’aeroporto. Solo alcuni giorni prima avevo viaggiato da Granada a Lisbona. Sarei tornato a Granada quello stesso pomeriggio. Vivevo quindi sballottolato in uno stordimento di viaggi e non sapevo che mi stavo avvicinando a una frontiera invisibile del tempo che avrebbe cambiato con ugual forza la mia vita e la mia letteratura. Quel marciapiede, il paesaggio del traffico per l’aeroporto, la confusione per la mancanza di sonno, li vedo adesso nel ricordo come indizi sicuri di quello che era già cambiato in me senza che io lo sapessi. Mi fermai davanti al portone con la borsa in mano e verificai di nuovo l’indirizzo che avevo annotato. In pochi minuti, dopo un breve tragitto in ascensore, avrei incontrato Onetti.
Il pomeriggio precedente una signora molto amabile, con occhi chiari e accento portegno, mi si era avvicinata alla fine di un evento letterario. Mi disse che era Dolly Onetti. «A Juan piacerebbe che venisse a casa domani». Tutto mi succedeva allo stesso tempo, in una tempesta di emozioni simultanee. L’evento a cui avevo partecipato, insieme a Enrique Vila-Matas e al poeta Juan Luis Panero, era un omaggio a Adolfo Bioy Casares. Avevo appena conosciuto Bioy e sperimentato per la prima volta la sua generosa cortesia, e di colpo mi si presentava l’opportunità di incontrarmi anche con Onetti nel giro di poche ore.
I due, ciascuno a suo modo, erano, insieme a Borges, i miei maestri più cari nella letteratura in spagnolo: quelli che facevano risuonare le corde più profonde della mia immaginazione letteraria, coloro che modellavano la mia maniera di intendere la professione di scrittore. In Bioy c’era la delicatezza ironica, in Onetti lo squarcio, la pura poesia nel raccontare qualcosa di così doloroso o così impetuoso che quasi non può essere raccontato. Tra gli altri scrittori latinoamericani, coloro che ammiravo per i loro romanzi mi respingevano per le loro figure pubbliche, troppo ufficiali, troppo assuefatte ai protocolli. Di Onetti e di Bioy mi piaceva l’intensa sensazione di riservatezza che emanavano. Per schivare le occasioni di parlare in pubblico Bioy diceva: «Io sono scrittore per iscritto». Quanto a Onetti, viveva ritirato leggendariamente in quella casa in cui stavo andando a trovarlo, come in un esilio all’interno di un altro esilio, senza alzarsi dal letto, a fumare, a bere whisky e a leggere romanzi gialli.
Il cuore mi batteva fortissimo quando uscii dall’ascensore all’ultimo piano e suonai alla porta. Mi aprì Dolly, con il suo sorriso grave di benvenuto. Le librerie della piccola sala da pranzo erano piene di libri, quasi tutte in edizioni tascabili molto consumate, molti erano romanzi polizieschi. La sala da pranzo la ricordo in penombra. Nella stanza di Onetti c’era una forte luce mattutina. Una finestra con dei vasi dava su una terrazza e sui tetti di Madrid. Onetti mi ricevette steso sul letto, in pigiama, un pigiama azzurro chiaro come quello dei servizi sociali, in una postura forzata, sul fianco, appoggiato su un gomito. Aveva la pelle pallida e arrossata, e una barba scarsa. Siccome non portava gli occhiali risaltavano molto i suoi grandi occhi sporgenti, quegli occhi di pena o di tedio abissale che gli si vedevano nelle foto.
Si appoggiava su un gomito e nell’altra mano teneva la sigaretta. Era una mano con dita molto lunghe, l’indice e il medio macchiati di nicotina, una mano apatica che da molti anni non faceva altro sforzo che quello necessario a sostenere bicchieri e sigarette, una di quelle mani che si piegano e cadono come cedendo dal polso.
Nella parete, dietro la testiera, c’erano foto e ritagli fissati con puntine e nastro adesivo. Sul comodino era posato un insicuro posacenere vicino a una pila di romanzi. Onetti era raffreddato e non sentiva bene. Quando non capiva qualcosa che avevo detto e si avvicinava un po’ per sentirmi meglio, gli attraversava la faccia un gesto rapido di impazienza, come di rancore contro la vecchiaia. Parlammo soprattutto di Faulkner e di Nabokov. Gli piacque che gli raccontassi che quando ero molto giovane, in un’epoca in cui era molto difficile trovare i suoi libri, avevo rubato Il cantiere dalla casa di qualcuno. Quando menzionai che il giorno prima ero stato con Bioy disse, con un disdegno rioplatense nel diminutivo: «Adolfito». Onetti era molto radicale a livello politico, molto cosciente delle differenze di classe. Però non gli costò nulla riconoscere che Bioy aveva scritto almeno un capolavoro, del quale parlò in seguito con entusiasmo, Il sogno degli eroi.
Beveva ogni tanto un sorso di whisky commerciale allungato con l’acqua. Beveva e fumava. Io portavo nella borsa da viaggio una bottiglia di whisky di malto che avevo comprato al duty free dell’aeroporto di Lisbona. Chiesi permesso a Dolly di lasciargliela come regalo. Lei assentì, scrollando le spalle: «Almeno berrà qualcosa di buona qualità».
Fu così che bevvi del whisky di malto con Onetti a mezzogiorno, a digiuno, e la nausea immediata accentuò l’irrealtà di quelle ore, il tempo in sospeso della conversazione, in cui si insinuava poco a poco in me l’urgenza di andare per non perdere il mio aereo per Granada. In quell’anziano malato, ancorato al suo deterioramento fisico, c’era una lucidità intatta e qualcosa che io avevo sempre trovato nella sua letteratura, e che aveva avuto fin da giovanissimo un effetto su di me paragonabile a quello del whisky a mezzogiorno e al fervore segreto che mi accompagnava in quel giorno di novembre: la disillusione per la vita e l’amore per la vita, la propensione a una tristezza senza sollievo e allo stesso tempo a una tenerezza pudica e senza limite. L’indignazione lo rianimava. Si lamentò dei vescovi spagnoli e della loro dedizione a invadere il diritto alla felicità sessuale della gente. Chiese a Dolly di darmi il primo volume della biografia di Faulkner di Joseph Blotner. «E perché non tutti e due?», disse Dolly. «Perché così dovrà tornare».
Ma il mio tempo stava per terminare, e lui era stanco. Per timidezza, per paura di importunare un uomo malato, non tornai mai. Quello che ricordo esattamente, ventidue anni dopo, è la sua mano debole che nel congedarsi stringe la mia, e le parole che mi disse: «È bello sentirsi amici».
© Antonio Muñoz Molina, 2012. Tutti i diritti riservati.
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