In attesa di incontrare Alan Pauls al festival Voci dal Sur, riproponiamo un bell’articolo di Christian Raimo sullo scrittore argentino e la sua «Trilogia della perdita». L’articolo è uscito originariamente su Internazionale il 22 novembre 2014, per la prima edizione di Storia del denaro.
di Christian Raimo
I lettori come i veri tossici cercano sempre nuove sostanze da provare. Per questo, nonostante ormai Amazon e Goodreads (che poi sono la stessa cosa) ci riempiano di «se hai letto x ti potrebbe piacere y» e «i clienti che hanno comprato questo articolo hanno comprato anche», li vedi aggirarsi in libreria come nel piazzale sul retro di una stazione ferroviaria, compulsando gli incipit dei volumi esposti negli scaffali più alti. Capita anche a me, da quando sono adolescente. Di provare a placare la lieve angoscia dei tardi pomeriggi o dei fine settimana fermandomi in libreria.
Eppure, con gli anni, per lo stesso motivo credo per cui la pelle si inspessisce o lo spazio tra le vertebre si restringe, questo sollievo, quest’idea di sollievo è sempre più raro che si realizzi. E dunque m’infilo in una libreria ed esco anche dopo un’ora senza niente in mano se non il libro che avevo già quando sono entrato.
Ogni tanto, per fortuna, accade il contrario. Qualche mese fa per esempio, dopo almeno una mezz’oretta di questa flânerie a basso costo, entra un mio amico in libreria e mi dice: «Prova questo». Sono perplesso, ma mi fido. E leggo questo incipit.
Non c’è giorno che lui non pensi ai capelli. A tagliarli molto o poco, a tagliarli subito, a lasciarli crescere, a non tagliarli più, a farsi rapare a zero, a radersi la testa per sempre. La soluzione definitiva non esiste. È condannato a tornare incessantemente sulla questione. Sempre così, schiavo dei capelli, finché crepa, magari. E perfino dopo. Non ha forse letto che… che i capelli crescono anche… o erano le unghie?
Una volta, d’estate, per sfuggire al caldo – sono le quattro del pomeriggio e in strada non c’è quasi nessuno – si infila in un negozio di parrucchiere deserto. Si fa lavare i capelli. Se ne sta a faccia in su, la nuca appoggiata nell’incavo di plastica. La posizione è scomodissima, ha male alla cervicale e un po’ lo inquieta la leggerezza con cui la sua carotide sembra offrirsi alla lama del primo tagliagole di passaggio, ma la frizione dei polpastrelli, la dolce nuvola di profumo vegetale che esala dalla schiuma e la pressione dei getti d’acqua tiepida lo stordiscono, trasportandolo gradualmente in una specie di dormiveglia. Non tarda ad addormentarsi. La prima cosa che vede nel riaprire gli occhi, così vicina da apparirgli sfocata, come dipinta su una superficie di sabbie mobili, è il viso della ragazza che gli lava la testa, chino su di lui, capovolto, la fronte sospesa sopra la sua bocca. Che cosa sta facendo? Lo annusa? Vuole baciarlo? Rimane immobile, la sorveglia con occhi ciechi finché, dopo attimi di concentrazione in cui smette addirittura di respirare, la ragazza intercetta con un’unghia affilata il rivolo ribelle di shampoo che stava per finirgli in un occhio. Ora che è sveglio, non riesce più a ricordare, neanche provandoci, come fosse quel viso dieci minuti prima, quando è entrato nel salone, e la ragazza certamente gli è andata incontro per domandargli: «Li vuoi lavare?». Adesso ce l’ha così vicina che non sarebbe capace di descriverla. Potrebbe innamorarsi. In verità non saprebbe dire se non si sia già innamorato, riaprendo gli occhi e scoprendo quel volto quasi incollato al suo, gigantesco, un po’ come quando al cinema si addormenta per qualche secondo e svegliandosi si consegna alla magia, sempre infallibile, della prima cosa che vede sullo schermo.
È la prima pagina di Storia dei capelli di Alan Pauls.
Che cos’è che mi convince subito in questa voce? Quattro cose.
- L’assenza di preamboli ossia di trucchi: «Non c’è giorno che lui non pensi ai capelli».
- L’attenzione iperscopica ai dettagli – «la nuca appoggiata nell’incavo di plastica», «la frizione dei polpastrelli», «la ragazza intercetta con un’unghia affilata il rivolo ribelle di shampoo che stava per finirgli in un occhio».
- Gli incisi, le subordinate, l’ipotassi, l’iperfetazione di apposizioni.
- Quest’idea, anche se qui solo accennata, dell’ossessione – in questo caso, i capelli.
Questi quattro indizi portano per me a una prova inconfutabile, che appunto mi sarà solo confermata quando, nei due mesi successivi, avrò letto tutti e quattro i libri pubblicati in Italia di Pauls, la trilogia Storia del pianto, Storia dei capelli e Storia del denaro, e Il passato, ed è la capacità di controllo assoluta che Alan Pauls ha sulla pagina che mi farà dire che i suoi romanzi condividono con i classici contemporanei una caratteristica precisa: non sono da leggere, ma da rileggere.
Alan Pauls è a Roma tre giorni fa, lo incontro nella libreria Altroquando, con Violetta Colonnelli che ci fa da interprete. È stanco, ancora per il jet-lag e un carico di interviste che non riesce a smaltire perché ha presentato il suo ultimo libro – Storia del denaro appunto. Ho letto molte delle interviste che ha rilasciato negli ultimi anni (qui ne trovate una microsilloge). E c’è un’affermazione che torna spesso: Pauls dice di cercare un ritmo nella scrittura. Per chi non abbia letto nulla di suo, questa dichiarazione potrebbe sembrare generica, ma prendete questo brano estratto a caso da Storia del denaro – qui parla di un figlio che osserva il padre appena morto nel feretro.
Ma ciò che gli resta di lui in tutto quel tempo non è il falsetto della sua voce, né i suoi nervi fragili, sempre a fior di pelle, né le arie che si dà quando prende un calice di vino per lo stelo e lo rigira sopra il bracciolo del divano. Non sono i suoi occhiali da sole, né i maglioncini chiari annodati al collo, né i mocassini con la fibbia, né quella specie d’impazienza tesa che è il marchio distintivo del suo rapporto con gli altri e con il mondo, due cose o categorie di cose la cui esistenza accetta controvoglia, come se la loro sola ragion d’essere fosse fargli perdere tempo, specialmente i personaggi secondari che per un motivo o per l’altro gli finiscono tra i piedi, stallieri, caddies, autisti, camerieri, per non parlare del contingente scelto di domestiche che pattugliano a ogni ora la villa di Mar del Plata e che ogni giorno, nel doppio turno del pranzo e della cena, mettono in tavola su piccoli piatti di specchiante acciaio inossidabile i crostini che lui, dopo averne esaltato le virtù per un’intera estate, finisce per imporre, destituendo i più banali crackers, e che da allora in poi accompagneranno tutti i pasti della casa.
Li ho messi in grassetto, otto gradi di subordinazione: tra relative, apposizioni, concessive, comparative, senza contare le parentetiche. Se non li avessi sottolineati, probabilmente non ve ne saresti accorti. Ma questo per me significa lo stile, tenere in un composto perfettamente amalgamato il flusso della narrazione. L’anafora dei né, e poi nel periodo successivo una serie di cerchi concentrici, per cui se non ci fosse il ritmo di cui parla Pauls, questa impalcatura qui non si reggerebbe, sarebbe un disastro.
«Molte volte succede un disastro», si schermisce Pauls.
«Forse i libri che non hai pubblicato», gli rispondo.
Poi ammette: «Per ottenere questo risultato bisogna lavorarci sopra, e non sempre viene alla prima stesura. Questo brano che hai citato va letto. Scrivere è come leggere, bisogna assecondare una musica. È anche un po’ come ballare. Come non ci sono frasi difficili non ci sono musiche difficili, no? Bisogna entrare in sintonia, una volta che si entra nella melodia le frasi vengono. E per me scrivere è questo; non c’è poi tanto bisogno di storie, di personaggi, è il ritmo il luogo in cui la finzione vive, è una questione ambientale, territoriale, non solo una questione formale. Io posso anche avere le storie, i personaggi, la trama, l’ambientazione, ma se non trovo quella musica, se non sento quella musica, non ho niente. Appena quella musica compare, la storia prende vita. C’è bisogno di tempo per trovare questa musica, e finché non la trovo non scrivo, aggiro, assedio la pagina ma non scrivo perché mi accorgo che non trovo il ritmo, le situazioni non combaciano. E quando dico musica dico anche rumore strepito, dissonanza, non parlo di musica in un senso melodico, lineare. Ad esempio per me uno scrittore molto musicale è Kafka, anche se la sua è una musicalità fatta di dissonanze e non di armonie, una musicalità cacofonica, kafkofonica, per esempio ciò che di sconosciuto c’è in uno strumento come la chitarra, una dissonanza».
È una dichiarazione di poetica che mi segno alla lettera ma non mi basta. Cos’è questa musica? Come si trova questo ritmo? Come si crea una sintassi del genere che non è un’anomalia nel romanzo? I suoi sono romanzi costruiti tutti così, in maniera molto circolare, molto avvolgente; non è un caso, gli dico, che qui ci sia una postfazione di Giorgio Vasta, che ama questo tipo di scrittura spiraliforme, e non è un caso forse che sia uno scrittore molto amato dai suoi colleghi scrittori. Come si pensano questo tipo di frasi? Per accumulo? C’è una frase magari all’inizio di una riga in cui a un certo punto provi a inserire un altro pezzetto in mezzo, attraverso un’incidentale, e poi un’altra e così via, oppure fai una prima stesura seguendo un flusso e poi lavori di fino, aggiungi un aggettivo, né togli un altro?
Pauls mi spiega: «Di solito scrivo una frase un po’ più lunga di una frase normale, non troppo, un poco più lunga. Quando finisco di scriverla, mi rendo conto che dentro c’è ancora spazio per continuare. La frase a quel punto comincia ad aprirsi, si riempie di pieghe, di spazi, e c’è qualcosa della storia che comincia a venire in superficie. A me piace pensare alla frase come a un habitat, come a un luogo in cui stare, in cui vivere, mi piace che il lettore possa percepire questo fatto. Quindi vedo il libro come un luogo in cui vivere, attraverso il quale si viaggia, ci si perde, e così vedo che anche la frase si espande dall’interno. In realtà concepisco tutto il romanzo in questo modo, è come se la frase fosse il plastico dell’intero romanzo. Il passato, che è un romanzo lungo che ho impiegato cinque anni a scrivere, l’ho scritto mentre avevo in testa una linea, una specie di sceneggiatura da seguire, e quindi sapevo che sarebbe dovuto andare da un punto a un altro. Avevo davanti a me una serie di punti da seguire e all’interno dei quali inserire i fatti della narrazione. Però mentre scrivevo il romanzo mi rendevo conto che diventava sempre più importante ciò che esisteva fra i punti, piuttosto che i punti stessi, quindi il romanzo si andava sviluppando in un modo anomalo, e quello che doveva essere su un livello secondario diventava l’oggetto principale. Quindi probabilmente questo metodo, la legge del metodo che uso è trattare gli elementi secondari come se fossero i principali e invertire la gerarchia. Ovviamente questo metodo non l’ho inventato io… Per me i dettagli non sono un ripieno della storia e dei personaggi, sono il punto di partenza, in questo senso sono molto hitchcockiano».
Gli faccio una domanda più secca, voglio capire: «E quando dai un termine a questo lavoro di accumulo potenzialmente infinito? Perché a me questa cosa piace molto, da un punto di vista creativo è una goduria sia leggere sia scrivere così: parli di un oggetto qualunque, un tavolino, una sedia, e già vedo una storia. Chissà di chi era, era forse un regalo di questa persona?, e questa persona era un tizio che viveva lì?, e questa casa era fatta in un certo modo?, eccetera. A un certo punto ci si potrebbe allargare infinitamente. Negli intervalli ci sono altri intervalli, nei dettagli ci sono altri dettagli e così via. Invece poi a un certo punto tu chiudi, e questa cosa sembra quasi naturale, perché il ritmo che tu tieni nel racconto non è un ritmo di digressioni infinite, di dilazioni; ci sono sempre delle chiusure, ci sono sempre dei ritorni. Questo lavoro qui è un lavoro che fai dopo? Ed è un lavoro che ti viene naturale?»
Pauls ci pensa prima di rispondere: «Mi è piaciuto quando dici che leggi la mia prosa e hai un’impressione di controllo; per me è fondamentale il controllo quando scrivo un romanzo ma c’è qualcosa che deve essere tenuto fuori controllo, non potrei scrivere se avessi tutto sotto controllo. Mi piacciono gli scrittori di controllo, ma è una cosa che deve rimanere totalmente fuori; se ho tutto sotto controllo non mi diverto. Non so quando arriva il momento in cui fermare la digressione, l’importante è il ritmo. Il mio criterio è musicale più che tematico o narrativo. Ho una specie di regola: quando faccio un errore non lo correggo immediatamente. Seguo un po’ la pista di questo errore perché ho fiducia nell’errore, proprio come se fosse quella porzione di non-controllo di cui parlavo prima. Probabilmente un errore non è un errore, semplicemente è qualcosa di sconosciuto, e bisogna seguirne la pista».
Se si segue la pista di Pauls si resta ammirati da queste digressioni, da queste continue inflorescenze: nuovi dettagli, nuove storie, piste che si aprono seguendo gli errori, anche appunto molte false piste, che poi vengono tenute insieme da un legame, da un’intensità che a volte è soltanto pretestuosa – i capelli, il denaro, il pianto – che però ti porta a sentire come se seguissi il filo di un’ossessione, un’ossessione quasi nominale. Di volta in volta è una parola, un termine che tiene su un intero romanzo. La sua trilogia è creata in questo modo. Storia del pianto è la storia delle scene di lacrime all’interno di una saga famigliare, Storia dei capelliuna biografia di un ragazzo nella dittatura argentina vista dalla prospettiva dei suoi tagli di capelli, Storia del denaro è la mappatura di un rapporto genitori-figli attraverso il bastone da rabdomante dei soldi.
In Storia del denaro il denaro viene trattato in tutte le sue declinazioni, in tutte le sue accezioni. Si potrebbero estarre tre parti che esemplifichino i tre toni del romanzo. Eccone una. È una citazione un po’ lunga, ma vale la pena tenerla insieme.
Nessuno sa contare come suo padre. Contare nel senso di fare i conti, il che significa, nel caso di suo padre, formatosi in un istituto industriale dal quale esce con un solo patrimonio, un talento inusitato per quella cosa che lui stesso chiama i numeri, solo talento, d’altra parte, di cui sia disposto a menar vanto (lui, nemico giurato di ogni vanteria) e che esibisce in pubblico più o meno spudoratamente, conti esclusivamente fatti a mente, escludendo l’ausilio di qualunque strumento suppletivo, tariffari di taxi, com’è ovvio, ma soprattutto macchine, calcolatrici, pallottolieri, contatori manuali – per non parlare delle contatrici di banconote elettriche, grandi come macchine del caffè o come distributori d’acqua, che anni dopo entreranno in voga con l’inflazione e il mercato nero della valuta, le Galantz, le Elwic, la mf Plus di Cirilo Ayling, orgoglio argentino –, protesi che rappresentano il peggio, il livello più basso dell’abiezione e della dipendenza umana, ma anche carta e matita e perfino mezzi per così dire naturali come le dita della mano.
Ma anche contare nel senso dell’azione fisica, come quando si dice contare i soldi. È una cosa che lo colpisce fin da piccolo, una volta che non ha scuola il pomeriggio e accompagna suo padre nel suo giro per il centro della città, dove lavora, e lo vede incassare assegni in diverse banche, pagare biglietti aerei, comprare o vendere valuta straniera in agenzie di cambio, e continuerà a colpirlo sempre, fino agli ultimi giorni, quarantadue anni dopo, quando in ospedale, poco prima della crisi polmonare che lo condannerà alla maschera dell’ossigeno e all’intubazione, suo padre sceglierà da una mazzetta già considerevolmente assottigliata i due biglietti da cinquanta pesos che ha deciso di dare, ‘prima che sia tardi’, come lui stesso dice, all’infermiera del mattino, che lo sorprende parlandogli in tedesco mentre gli cambia la flebo, gli fa un’iniezione o gli prende la temperatura.
Nessuno ha quell’aplomb, quell’efficienza elegante e altera che trasforma l’atto di pagare in un gesto sovrano annullando il carattere sempre secondario, di risposta, che comunque possiede. Suo padre conta il denaro ed è come se lo contasse per contarlo, per il puro gusto di farlo, ovverosia perché è un atto bello in sé, non perché la logica della transazione lo richieda. Mai un inciampo, mai un biglietto che aderisce a un altro o che s’impiglia o si piega, né, men che meno, che si rompa. Sempre asciutte – se talvolta si inumidisce i polpastrelli con la lingua, come a suo dire fanno i cassieri incapaci, i commercianti voraci e gli avari, è solo per fare dell’ironia, così come ironizza sui sotterfugi con cui molti suppliscono alle capacità di cui la natura non li ha dotati, e sempre caricando il rituale con i gesti eccessivi di un cattivo attore –, le dita scivolano agili, senza esitazioni e a ritmo costante, e le rarissime volte che si fermano e ricominciano, forse perché qualcosa di esterno le ha distratte, forse perché loro stesse si sono perse, inebriate dalla velocità, riprendono l’operazione con la stessa impassibilità di prima, come se nessun contrattempo fosse intervenuto, proprio come un musicista riprende l’esecuzione dello spartito dalla frase su cui era incespicato e va avanti.
Non vi sembra come se effettivamente ci fosse un tema melodico che segue il denaro (in questo caso il contare), e attraverso questo tema, poi venissero fuori le improvvisazioni, quasi in una forma jazzistica? La domanda che faccio a Pauls allora è non più formale ma tematica: «Perché tra le mille hai scelto proprio l’ossessione del denaro? È un caso, un gioco, o era necessario questa ossessione e non un’altra, la gioia, l’amore, o che ne so? In un’intervista hai dichiarato che Storia del denaro è una storia d’amore, in cui tu in realtà hai fatto una sostituzione. In ogni scena di sesso, hai messo, al posto del sesso, il denaro. Ma non c’è soltanto questo qui dentro, c’è molto altro».
«Per questi i tre romanzi della trilogia», dice Pauls, «un romanzo fondamentale è stato Edad de hombre di Michel Leiris: è un’autobiografia, ma non ricostruisce la vita dell’autore a partire dai fatti, piuttosto lo fa da un insieme di fissazioni, di piccole scene o visioni che lo perseguitano per anni e anni. Io l’ho letto quando avevo più o meno vent’anni e questo libro mi ha segnato, ma non l’ho più riletto. È riapparso nella mia testa quando è nato il progetto di questi tre libri; l’idea fondamentale che mi ha colpito è stata quella di una vita che possa rimanere cristallizzata attorno a una mezza dozzina di ossessioni. Invece, le mie ossessioni, intorno alle quali ho costruito i tre romanzi sono appunto le lacrime – il pianto –, i capelli e il denaro. Sono incapace di dare una spiegazione sul perché abbia scelto questi tre argomenti; posso dire però che attorno a questi tre temi orbitano sempre scene, fatti, situazioni per me importanti, e che hanno sempre a che fare con gli anni settanta in Argentina. Sicuramente è qualcosa di personale, sono fatti personali, non so bene perché ho scelto questi tre argomenti, però quando ho finito di scriverli mi sono accorto, naturalmente con un ragionamento a posteriori, che queste tre cose hanno qualcosa in comune, cioè che tendono a perdersi».
Il senso della perdita è fortissimo nei libri di Pauls. Questo è dovuto anche al modo in cui racconta il tempo. Nel brano che ho citato poco fa c’è questo dettaglio.
È una cosa che lo colpisce fin da piccolo, una volta che non ha scuola il pomeriggio e accompagna suo padre nel suo giro per il centro della città, dove lavora, e lo vede incassare assegni in diverse banche, pagare biglietti aerei, comprare o vendere valuta straniera in agenzie di cambio, e continuerà a colpirlo sempre, fino agli ultimi giorni, quarantadue anni dopo, quando in ospedale, poco prima della crisi polmonare che lo condannerà alla maschera dell’ossigeno e all’intubazione, suo padre sceglierà da una mazzetta già considerevolmente assottigliata i due biglietti da cinquanta pesos che ha deciso di dare, ‘prima che sia tardi’, come lui stesso dice, all’infermiera del mattino.
Di fronte alla morte di suo padre si ricorderà… Viene in mente ovviamente Aureliano Buendia davanti al plotone di esecuzione all’inizio di Cent’anni di solitudine. Ma questi salti della memoria sembrano avere per Pauls un’ambizione opposta a quella marqueziana: ridimensionare i suoi personaggi, non renderli epici. Pauls ama i suoi personaggi, non li ammira. Segue i loro errori, come un innamorato segue gli errori di chi ama.
«L’errore lì sarebbe attribuire tanta importanza a un elemento così idiota, così semplice, come contare i soldi, lì sarebbe l’errore, tra virgolette. Invece quell’errore per me è la chiave di ciò che scrivo. L’idea che il padre in punto di morte scelga di dare delle banconote all’infermiera mi viene dopo aver scritto la scena del padre che conta i soldi: sono proprio quei dettagli che a priori non sarebbero così rilevanti, e per questo per me è così importante sconvolgerli nella gerarchia fra i punti più importanti quelli secondari. Per me le parti secondarie sono proprio le più importanti, molto più importanti di quelle importanti. Questa», ride, «è la legge di Pauls».
«Un mio amico scrittore, Daniel Guebel, che non so se sia tradotto in italiano, ma sarebbe bene che lo fosse, a metà fra l’ammirazione e il disprezzo mi dice che sono il Proust della stupidità; per me è assolutamente un elogio. Per me il primo Proust della stupidità è stato Proust medesimo, il primo a scoprire il valore della stupidità, insieme probabilmente a Freud. A me interessa vedere fino a che punto l’elemento incosciente è cristallizzato in un gesto automatico, altamente stupido, come quello di contare i soldi. In questo senso parlo di errore: probabilmente un autore un po’ più convenzionale mi potrebbe consigliare, prima di concentrarmi su questi dettagli, di avere un’impressione d’insieme, quindi vedere i personaggi nel loro insieme, i loro valori, in che direzione vanno, che forze hanno, ma questo a me non interessa. A me no, a me interessa il dettaglio, il piccolo neo. È nei dettagli che per me i personaggi sono importanti».
A me invece, in quanto lettore, in quanto scrittore, interessa il tempo, il racconto del tempo, e nei romanzi di Pauls, pieni di flashback e flashforward (forse anche perché Pauls è anche uno sceneggiatore – ha appena finito di scrivere il copione tratto da La pista di ghiaccio di Bolaño), si respira questa concezione molto proustiana, quindi bergsoniana, del tempo. Conta molto la durata, non conta il tempo meccanico. È tutto legato a ricordi, è tutto legato all’immaginazione, alle proiezioni mentali, ci si sposta avanti e indietro. Tutto questo, gli chiedo, ha a che fare con il tempo storico che ha scelto di raccontare, l’Argentina degli anni settanta e ottanta? Ossia fondamentalmente un tempo vuoto, invisibile, rimosso?
Qualche anno fa era uscito un film di Fernando Solanas che si chiamava La nube, in cui molte delle cose che accadevano nel film accadevano all’indietro: c’erano le macchine che andavano in retromarcia, c’erano le persone che camminavano al contrario, ed era in un certo senso una metafora forse ovvia di che cosa è accaduto in Argentina negli ultimi trenta, quarant’anni, cioè come se il tempo si fosse neanche fermato, ma proprio si fosse rovinato.
In questo senso Pauls si rivela uno scrittore molto più politico di quanto si mostra e di quanto lo siano molti altri suoi colleghi militanti: «Volevo scrivere tre romanzi sugli anni Settanta, ma non volevo scrivere dei romanzi storici, perché credo che il genere del romanzo storico sia un genere ingenuo. Trovo ingenuo credere che si possa andare dal passato al presente con l’idea di scoprire, dissotterrare delle verità rinchiuse nel passato e riportarle al presente. M’interessa invece considerare il passato e il presente come due luoghi diversi della stessa esperienza. Mi interessano gli anni settanta non perché abbiano una verità rinchiusa al loro interno, ma perché credo che siamo ancora in una sorta di anni settanta, mi interessa vedere cosa degli anni settanta che abbiamo ancora nel presente. Viviamo probabilmente in più tempi diversi insieme nel presente, come se il presente fosse un millefoglie di tempi. Sempre lo stesso libro di cui parlavo prima, Età d’uomo, mi insegna che in una vita le scene che tornano, quelle ossessioni di cui parlavo prima, sono quelle scene che mi aiutano a dimostrare come ci sono più tempi che si intrecciano in uno stesso tempo».
Il tempo che non passa, le colpe dei padri che si rispecchiano in quelle dei figli. Noi che finiamo per essere parte di questo ritmo.
Prendiamo un ultimo brano di Storia del denaro.
Lui, se c’è una cosa che sa fare con i soldi, è pagare. Ed è l’unica di cui potrebbe vantarsi, per patetica che possa sembrare. La accetta come un ruolo assegnato da una regia arbitraria ma insindacabile. A lui non è toccato fare soldi, come a suo padre, né ereditarli, come a sua madre. Di tutte le missioni possibili, a lui tocca quella di saldare, di ripianare i debiti. C’è chi dà da mangiare agli affamati, chi cura gli ammalati. La sua maniera di cicatrizzare le ferite – passione non sempre compresa – è pagare. E lui la accetta con la stessa convinzione rassegnata con cui dichiara, quando glielo chiedono – di solito le donne, donne che non desidera e che lo desidereranno più di tutte quelle che potrà mai desiderare –, il suo segno zodiacale, di gran lunga, secondo lui, quello che gode di peggior fama in tutto lo zodiaco, ma che mette in atto con inspiegabile soddisfazione, in stato di euforia, come quando, dopo avere esplorato a lungo il fondo piastrellato di una piscina, e avere esaurito la sua riserva d’ossigeno, riemerge dall’acqua e con le ultime forze rimaste spalanca la bocca per riempirsi i polmoni d’aria.
C’è una strana urgenza nel pagare, sempre, non importa se entro i termini stabiliti o no, un brivido che la natura sottomessa dell’atto sembra contraddire. Mentre i suoi amici spendono i soldi che rubano dai cappotti dei genitori appesi nell’ingresso, o che sottraggono alla spesa familiare, in dischi, birre, capi d’abbigliamento, sigarette, pomeriggi in alberghi a ore, lui i primi soldi davvero suoi, i soldi che si guadagna col primo lavoretto – la traduzione di un articolo sulle raffinate eccentricità di un drammaturgo inglese che vent’anni dopo, consumato da un cancro allo stomaco, vince il premio Nobel –, li destina in parte, ma senza indugio, a pagare il debito contratto mesi prima con un compagno di scuola, il satrapo ricco e smemorato che lo tira fuori da un guaio non proprio infrequente – sua madre, rimasta un’altra volta a corto di spiccioli la sera tardi, ha usato senza avvertirlo i soldi che teneva da parte per mangiare il giorno dopo – e gli paga il pranzo, ed è naturalmente il primo a stupirsi quando lui cerca di saldare il debito, visto che ormai sia il prestito che il pranzo sono usciti dalla sua mente senza lasciare traccia. Ci riflette. In due secondi vede sfilare davanti a sé tutto quello che potrebbe fare con i soldi se non li restituisse, tutte le cose che il denaro addita e colora con la sua luce rendendole disponibili, e che di colpo, mentre lui è in piedi sulla porta del tremendo ristorante di carne alla brace dove tenta di restituire i soldi prestati, lo stesso dove mesi prima li ha investiti in una bistecca che lascia a metà e in un’insalata flaccida, cominciano in qualche modo a tentarlo, come sirene abbacinanti.
© Christian Raimo, 2014. Tutti i diritti riservati.
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