In questi giorni la redazione si è sparpagliata nelle case di tutti noi: ecco allora i dispacci dalle sedi distaccate di SUR, che mai come adesso si sente una CASA editrice. Oggi scrive Giulia Zavagna, editor e redattrice.
Cari lettori,
diciamo la verità, questo momento ci ha presi tutti un po’ alla sprovvista. Stava arrivando la stagione più bella dell’anno, quella in cui lasciamo computer e scrivanie per incontrarci ai festival e alle fiere, conoscere nuovi autori e scambiarci consigli di lettura. Il programma era di passare la primavera in giro per l’Italia a far circolare libri e storie.
Come tutti abbiamo rimandato ogni impegno, e come tutti ci chiediamo quale sia la strada migliore da percorrere adesso. Non ho una risposta, anzi ammetto che personalmente nei giorni passati sono stata un po’ sopraffatta, dalle notizie, certo, ma anche dalle reazioni a queste, e ho avuto bisogno di un po’ di silenzio. Ho pensato allora che avrei preferito scrivere, e non parlare, e che per quanto la mia timidezza (e il mio lavoro di redattrice) mi portino naturalmente a stare in disparte, ho avuto voglia di scrivere a voi, perché è solo insieme a voi che il nostro lavoro ha un senso.
Ecco quindi questa newsletter, un po’ per farci compagnia, un po’ per trovare un piccolo spazio di silenzio, un po’ per continuare a fare quello che ci piace, che è ascoltare e raccontare storie.
La cosa più simile alla situazione che stiamo vivendo, forse, nella mia vita l’ho provata solo in aereo, bloccata su un sedile troppo stretto per le diciassette ore di un volo intercontinentale. Non puoi muoverti, se riesci a fare qualche passo sarà per arrivare al massimo in fondo al corridoio. Eppure è ormai una delle pochissime parentesi di silenzio che ci è rimasta… e allora perché non approfittarne?
Vi lascio qualche pagina da Trance di Alan Pauls, nessuno sa raccontarlo come lui:
celda [cella]. Una sera dei primi anni Ottanta, camminando in avenida Callao, Fogwill [ndr, sì, anche lui è un nostro autore, e ha scritto uno dei miei libri preferiti del nostro catalogo, lo trovate qui], che non è ancora del tutto Fogwill, gli confessa che presto, questione di giorni, sarà arrestato. «Confessa» è un modo di dire, di dirlo male: perché Fogwill lo dice e basta, o meglio: lo racconta – come se dovesse succedere a un altro, non a lui, o come se fosse già successo a un altro e adesso fosse solo questo: un racconto. Lui, molto giovane, certo atterrito davanti alla possibilità, per nulla infrequente in quei giorni, di perdere qualcosa di prezioso, quella specie di antipadre al quale, suo malgrado, è molto legato, lo ferma di colpo e cerca di fargli coraggio. Perché non scappa, se ne è tanto sicuro? Perché non raggiunge l’Uruguay su una delle sue barche a vela, se gliene è rimasta qualcuna, o si ritira per qualche anno in campagna? Fogwill ride. «Sei pazzo? Sai quanto potrò leggere e scrivere in galera?»
La privazione: pietra di paragone del piacere di leggere. Impara la lezione – anche se forse l’ha già imparata prima, da bambino, grazie a quegli esercizi privati cui si abbandona in piena trance di lettura, quando finge che il mondo sia sparito con tutto dentro, compreso tutto ciò che ama tranne quel che sta leggendo, e all’improvviso, solo in mezzo al nulla, perché la catastrofe non ha lasciato neppure rovine, vede sé stesso con il suo libro e si dice a voce molto bassa, perché il cosmo vuoto non lo senta: «Sono felice». Non è mai stato in carcere, ma quando pensa al posto ideale per leggere non pensa alla sua poltrona, né al suo studio, né al suo letto, né a una biblioteca, né a un’amaca davanti al mare. Pensa a un aereo. Pensa a quei sedili stretti, attaccati uno all’altro, senza spazio per allungare le gambe, con i braccioli su cui sopravvive spesso, abitato da una gomma da masticare antidiluviana, il posacenere in cui hanno spento le loro sigarette intere generazioni di passeggeri che fumando fingevano che lassù, a diecimila metri di altezza, la vita continuasse come sempre. In altre parole: pensa a ciò che più assomiglia a una prigione fra tutte le cose che la gente che si crede libera consuma eccitata. Lassù, impossibilitato a muoversi, intrappolato fra il segnale delle cinture di sicurezza acceso, i sobbalzi notturni del volo e le zaffate alcoliche con un tocco di curry che gli esala all’altezza di un orecchio il vicino addormentato, lui è in zugzwang (vedi).
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zugzwang. Così chiamano i tedeschi, negli scacchi, la situazione critica, a quanto pare indesiderabile, in cui un giocatore si trova nello stesso vicolo cieco in cui si trova lui in aereo: l’obbligo di muovere. Solo che mentre il giocatore la prende per una crisi definitiva, perché la mossa a cui è condannato conduce al disastro, lui, nel suo stretto sedile, con la cintura ben allacciata e la luce che cade implacabile al centro della pagina del libro aperto sulle sue gambe, lui è in paradiso. L’annullamento di ogni altra possibilità, lungi dall’essere una tortura, assomiglia molto a un miracolo, in quanto realizza nella pratica, senza opposizione, un’utopia che nessun lettore conquista se non a prezzo di sangue, sudore e lacrime. È obbligato a leggere. Per il modesto masochista acquattato in lui, esiste forse sentenza più irresistibile?
Alan Pauls, Trance. Autobiografia di un lettore, traduzione di Gina Maneri
Quindi ne sto approfittando per lavorare con calma, per ritrovare da casa un po’ della lentezza che è fondamentale nel mio lavoro, e che a volte nel caos dell’ufficio si perde. In questi giorni sto rileggendo le bozze del nuovo romanzo di Rodrigo Hasbún, Gli anni invisibili, che tra Bolivia e Stati Uniti racconta una storia che abbiamo vissuto tutti: quella frazione di secondo – che pure dura anni – in cui passiamo dal tumulto dell’adolescenza, con tutti i suoi meravigliosi eccessi, all’impatto della vita adulta. (Tra l’altro presto arriverà anche una nuova edizione di Andarsene: se non l’avete ancora letto, segnatevi il nome di Trixi, poi mi direte se non è un personaggio indimenticabile.)
E ne approfitto per leggere un po’, che lavoriamo con i libri ma libri per noi non ne leggiamo mai. Sul mio comodino c’è Il dono oscuro di John M. Hull, tradotto da Francesco Pacifico per Adelphi. L’ho comprato a Più Libri Più Liberi su consiglio di Andrea, amico e libraio di fiducia. È una sorta di diario che, pur parlando di cecità, di oscuro non ha nulla, anzi, è luminoso: «Quando sorrido, me ne accorgo quasi sempre».
Approfittatene anche voi, buone letture e a presto!
giulia
p.s. La mia idea di silenzio è questa qui.
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