Perché l’inizio dei Mondiali sia anche un’occasione di memoria storica, pubblichiamo oggi l’estratto di una riflessione di Beatriz Sarlo, giornalista, scrittrice e critica letteraria argentina, apparsa su Perfil.
«I Mondiali del ’78, un tabù nella coscienza argentina»
di Beatriz Sarlo
traduzione di Giulia Zavagna
Ogni quattro anni la stessa cosa. Quando si avvicinano i Mondiali, a professori ed esperti viene voglia di immaginare qualche pietoso trucchetto per approfittarsi dell’inevitabile: i ragazzi guarderanno le partite a scuola (se quel giorno hanno lezione) e i responsabili della loro educazione dissimuleranno il tumulto calcistico immaginando di potergli insegnare molte cose interessanti sulla geografia, il sistema politico, i costumi, le lingue e le istituzioni dei paesi che giocano con l’Argentina.
Ogni quattro anni si ripete quest’omelia didattica che, alla base, ha una carenza immensa: non si è mai proposto di insegnare che cosa stava succedendo in Argentina mentre si giocavano i Mondiali del 1978 (si vedano le direttive distribuite quattro anni fa dal ministero). Ai professori di Letteratura non si suggerisce, per esempio, di scuotere i loro alunni adolescenti con la lettura di Dos veces junio di Martín Kohan. Ai professori di Storia non si propone di aprire il Nunca más[1] perché gli studenti scoprano i centri di detenzione attivi in quel momento e ne facciano una mappa con il professore di Geografia. A nessun ingegnoso è mai venuto in mente di organizzare un concorso nazionale, utilizzando i computer forniti dal Governo, per una ricerca sull’anno 1978, per far sì che gli adolescenti vedano su internet le foto di Videla che tocca la coppa con le sue mani e, se le avessero già viste prima, che le guardino di nuovo e pensino che, come in un racconto di fantascienza, nel giugno del 1978 la realtà era divisa in due dimensioni parallele: la dimensione di coloro che festeggiavano con le bandiere e la dimensione sotterranea di coloro che soffrivano. Non si suggerisce di appendere in ogni scuola una cartina della Ciudad de Buenos Aires che impedisca di dimenticare che a poche centinaia di metri dallo stadio del River, dove i terroristi di Stato ricevevano la coppa insieme alla selezione nazionale vincente, c’è la ESMA, dove in quello stesso momento si torturava, si violentava e si uccideva per ordine dei signori in uniforme che festeggiavano al Monumental.
Silenzio. La memoria è intermittente e selettiva. Nel paese del Nunca más, nel paese in cui si denuncia qualsiasi oblio, i Mondiali sono il tabù della coscienza argentina. Si impone un silenzio ipocrita a molti che della memoria storica hanno fatto un lavoro.
Qual è il trucco? Il nazionalismo sportivo, senza dubbio. Eppure vi è una forza oscura che lo sostiene alla base, poiché esaminare i festeggiamenti dei Mondiali ’78 implica giudicare non solo la perversità dei militari, ma l’incoscienza coltivata da coloro che sapevano ciò che stava succedendo. Ci furono articoli sui giornali scritti da persone che erano al corrente di alcuni fatti e tuttavia reclamavano un blando diritto all’allegria; in televisione ci furono vignette e caricature sul Camerun e i suoi tifosi (vignette che oggi sarebbero considerate fasciste e verrebbero denunciate); ci furono riunioni di esiliati che festeggiavano i gol con la bandiera argentina; molti di coloro che normalmente ripudiavano la dittatura, tuttavia, decisero di abbattere la cortina per due settimane di alienazione.
È tutto negli archivi dei giornali, quindi non sto rivelando verità incognite. La maggior parte degli argentini festeggiò i Mondiali, come fosse una parentesi dalla propria vita. Si credette che fosse possibile separare la dittatura dagli stadi nuovi, dall’arrivo della tv a colori, dalla notte in cui l’Argentina fu consacrata campione del mondo, dagli entusiasmati militari in platea. Si credette che fosse possibile una specie di chirurgia molto complessa che avrebbe permesso alla palla di mantenersi pulita, ai tifosi della nazionale biancoceleste di gridare felici e contenti, ai dittatori di sorridere e ai morti e ai torturati di aspettare un po’. Dopo tutto, che la gente festeggiasse i Mondiali non avrebbe peggiorato troppo la situazione.
[…]Nelle scuole, tra una partita l’altra, si dovrebbero insegnare aneddoti di quegli anni. Non dico che sia un antidoto contro il nazionalismo sportivo, che è una piaga resistente e quasi universale, ma sarà, per lo meno, un atto di memoria. La coppa del ’78 è macchiata.
[1] Titolo del rapporto della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas. [n.d.t.]
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