La rivista el malpensante ha di recente pubblicato una serie di articoli dal titolo «Brevi incontri felici e infelici», in cui si narrano diversi modi di avvicinarsi a Gabriel García Márquez. Pubblichiamo oggi la prima crónica, dello scrittore colombiano Paul Brito, ringraziando l’autore e la testata.
«Gabo, il mio primo odio»
di Paul Brito
traduzione di Chiara Muzzi
Gabriel García Márquez non è stato il mio primo amore, come lo è stato per molti altri scrittori, ma il mio primo odio. Per lui ho provato quel sentimento puro e implacabile che, come lessi molti anni dopo, aveva coltivato con disciplina e devozione Amaranta Buendía per tutta la vita.
Il mio rancore nacque il giorno in cui il signore in questione si accanì contro di me come se fossi uno dei suoi personaggi tragici. Solo molto tempo dopo avrei letto del modo atroce in cui tolse di mezzo Mauricio Babilonia in Cent’anni di solitudine: «Morì vecchio in solitudine, senza un lamento, senza una protesta, senza un solo tentativo di risentimento, tormentato dai ricordi e dalle farfalle gialle che non gli concedettero un istante di pace, e ripudiato da tutti come ladro di galline».
Anche per me aveva concepito il modo più crudele ed efficace di distruggermi: si appropriò dell’unico giorno dell’anno che sentivo completamente mio, si scagliò ferocemente contro il mio settimo compleanno, che è il più importante per un bambino e sicuramente il più importante anche per un adulto, perché è il primo di cui ci si ricorda per tutta la vita.
Erano mesi che aspettavo con ansia quel giovedì 21 ottobre del 1982, lo avevo segnato con una faccina sorridente sul calendario che c’era dietro a tutti i miei quaderni di scuola, e quando finalmente arrivò l’alba di quel giorno eccezionale, nessuno venne a farmi gli auguri. Mia madre non entrò neanche nella mia stanza a svegliarmi, men che meno mi cantò «Las mañanitas» o mi regalò il Mazinga che avevo sognato per un anno intero. Al contrario, mi svegliò un brutto presentimento: il fermento dei miei familiari riuniti in salotto.
I miei zii, i miei cugini, i miei genitori, mia sorella e mia nonna, con i quali vivevo a Barranquilla in una casa stretta ma lunga di calle 74 all’altezza di carrera 47, a un isolato dallo Stadio Romelio Martínez, circondavano una radio Sanyo da cui Juan Gossaín solennizzava la notizia del premio Nobel per la letteratura a Gabriel García Márquez. Lo diceva con l’emozione di un Edgar Perea quando il Junior conquistava una nuova stella. E infatti, come succedeva solamente quando il Junior vinceva il campionato, i taxi di Barranquilla passavano euforici suonando il clacson all’unisono.
«Quando succede una cosa simile a Barranquilla», disse mio zio Miguel spalancando gli occhi e senza accorgersi che le sue parole mi seppellivano ancora di più nell’indifferenza e nel silenzio, «quando succede una cosa simile a Barranquilla», ripeté solennemente, «è perché è successo qualcosa di veramente importante».
Pensai che sarebbe stata una cosa momentanea, addirittura credevo che mio zio mi stesse prendendo in giro e che di lì a poco mi avrebbe abbracciato ridendo del suo scherzo pesante, ma tutti in casa continuarono a commentare la notizia, identificandosi come se riguardasse il trionfo di un familiare, parlandone come se fosse più grandiosa e trascendentale del mio compleanno.
La notizia fece sì che mia madre e le mie zie ricordassero con entusiasmo le serate da signorine, quando vivevano in una casa del quartiere Boston in calle 62 all’altezza di carrera 45, dove sarei poi nato io, e da dove Álvaro Cepeda Samudio e Gabriel García Márquez passarono più volte. Percorrevano la strada lentamente sulla jeep sgangherata di Cepeda, fumando sigarette infinite ed esibendo look afro patibolari che la gente di quel quartiere per bene non era abituata a vedere.
Mia madre, le mie zie e le loro amiche si riunivano in veranda davanti casa per aspettare di uscire con la luce della luna, quando all’improvviso passavano quei lupi in agguato sulla loro jeep africana. Erano usciti ubriachi dalla Cueva e, anni dopo, dalla Tiendecita, un isolato più su, dove calle 62 incrocia carrera 44, e si fermavano a fare i complimenti. Loro rispondevano con un grido categorico: «Crescete, drogati!»
Cepeda e Gabo ridevano con sghignazzi satanici e proseguivano lungo la strada prendendosela anche con i bambini che giocavano a calcio sul selciato, tra cui i miei zii, che in quel periodo erano ragazzi. Facevano ruggire il motore minacciando di investirli se non si spostavano.
Alla fine, molti anni dopo, Gabo ne investì uno.
Bevvi un caffelatte che sentii amaro come un principio di vomito, presi la cartella con i miei libri anonimi e aspettai che arrivasse l’auto. Sulla jeep che mi portava tutti i giorni a scuola, Libia de Dacunha (la moglie del brasiliano che aveva giocato nel Junior) stava ascoltando un’emittente nazionale che trasmetteva la prima intervista al premio Nobel. Gabriel García Márquez affermava con voce addormentata che gli sembrava di stare ancora sognando. Contemporaneamente, a molti chilometri dal Messico, dicevo a me stesso che quello che stava succedendo non poteva essere altro che un incubo orribile da cui mi sarei svegliato da un momento all’altro.
Mi sporsi dal finestrino per non sentire la voce nasale del mio stesso dolore, ma tutto mi ricordava il mio dramma. Ovunque vedevo la gente in festa: nelle verande, nei parchi, agli incroci, come non avevo mai visto prima. Tutti sembravano felici tranne me.
Neanche a scuola si ricordarono del mio compleanno. La professoressa Lourdes García, che controllava sempre puntualmente tutti i compleanni, dimenticò di farlo e passò subito a parlare di García Márquez, dell’importanza del premio per la Colombia e la Regione Caraibica, addirittura arrivò a insinuare di essere una sua parente.
Una volta a casa, la gente continuava a commentare la benedetta notizia del Nobel. Avevo sentito dire addirittura che la madre di García Márquez gli aveva dato molto olio di fegato di merluzzo da bambino e che, secondo lei, aveva vinto il premio per quello. Per essere migliore di lui almeno in una cosa, mi dissi che io ero più fortunato dato che ero stato l’unico bambino al mondo cresciuto a crema di spinaci, come Popeye.
Pranzai con un nodo in gola, ascoltando i notiziari che ripetevano senza sosta la notizia del premio svedese. La solitudine continuava a circondarmi, come se fossi isolato in un cerchio vuoto simile a quello dell’intoccabile Santiago Nasar prima di essere assassinato, o all’interno del circolo di gesso che, come avrei letto molti anni più tardi, tracciavano gli aiutanti di campo del colonnello Aureliano Buendía ovunque arrivasse perché nessun essere umano gli si avvicinasse a meno di tre metri. Allora mi degnai di guardare lo schermo e per la prima volta vidi il volto del mio boia, il colpevole assoluto di tutti i miei mali, la verruca da stregone sopra i baffi. Rideva tranquillo, come per burlarsi di me.
In quel momento lo odiai con una forza ciclonica, con una potenza cataclismatica, e con così tanto rigore che per molto tempo tenni alla larga tutti i libri con il suo infelice volto burlone sopra; e con tanta fedeltà che il primo libro di García Márquez lo lessi solo quando compii diciannove anni e la ferita ormai era cicatrizzata un po’. Me lo regalò mia madre per il mio compleanno, come se il tempo girasse in circolo.
Entrò presto nella mia stanza cantandomi «Las mañanitas» e mi consegnò il regalo senza pacchetto, sapendo che avrei capito comunque che era un libro, dato che da poco tempo avevo iniziato a interessarmi seriamente alla letteratura.
«Tieni, con tanto amore», mi disse stampandomi un bacio sulla guancia e consegnandomi una banconota. «Oggi verranno sicuramente gli zii, le zie, i cugini e la nonna a farti gli auguri, quindi tagliati questi benedetti capelli che ormai sembri un drogato».
Quando quella stessa mattina lessi tutto in una volta Cronaca di una morte annunciata, sentii che le sue pagine gloriose compensavano di molto quella lontana mattina grigia in cui non conobbi la felicità. Allora capii, come non mi era successo nemmeno con gli amori barcollanti dell’adolescenza, e con la rassegnazione del destino irrevocabile che si allontana per sentieri intricati ma che torna sempre sulla sua strada, quell’eterno cliché dell’amore e dell’odio così vicini, separati solo da una linea di gesso che lo stesso piede finisce per cancellare quando la oltrepassa.
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