Fra pochi giorni esce Voci fuori campo di Ali Smith, nell’attesa di sfogliarlo in libreria vi proponiamo un assaggio del romanzo. Se invece volete conoscere meglio l’autrice candidata al Premio Strega europeo per L’una e l’altra, qui l’intervista della sua traduttrice italiana Federica Aceto. Buona lettura!
di Ali Smith
traduzione di Federica Aceto
Mia madre mi cominciò una sera del 1968 su un tavolo del bar dell’unico cinema della città. Solo una rampa di scale più su, dietro il velluto rosso spelacchiato della tenda della galleria, la maschera sbadigliava, appoggiata con il gomito sopra i rumori di lingue e vestiti che si strusciavano nell’ultima fila, giocherellando con la torcia spenta; staccava piccole schegge dal tramezzo di legno e le tirava sulle teste provinciali, al buio. Il film che scorreva sullo schermo sopra di loro era Poor Cow, con Terence Stamp, un attore talmente divino che mia madre, giovane, chic, snella e imperiosa, mentre guardava il film per la terza volta quella settimana, si alzò lasciando richiudere il sedile dietro di lei con un leggero tonfo, si fece largo tra le gambe della gente seduta nella sua fila e proseguì per il sudicio corridoio verso l’uscita, oltre la tenda e fuori, alla luce.
Nel bar non c’era nessuno, tranne il ragazzo che sistemava le sedie sui tavoli. Stiamo chiudendo, le disse. Mia madre, che ancora sbatteva le palpebre per riabituarsi alla luce, scese con cautela le scale rosse consumate. Prese la sedia che il ragazzo aveva in mano e la posò per terra, sottosopra com’era. Si sfilò le scarpe. Si sbottonò il cappotto.
Dietro la cassa, le arance immerse per metà nel succo continuavano a girare infilzate dentro la macchina per le spremute; nella vaschetta, i pezzettini di arancia si sollevavano e si riposavano sul fondo, si sollevavano e si riposavano sul fondo. Sui tavoli, le sedie stavano a gambe all’aria; sotto, le briciole di torta sparse qua e là aspettavano passive l’arrivo dell’aspirapolvere. In fondo allo scalone principale che conduceva in strada – dove mia madre si sarebbe trovata nel giro di qualche minuto con le calze di nylon nella tasca del cappotto a formare un caldo gomitolo e le scarpe in mano tenute per la cinghietta posteriore che dondolavano – Julie Andrews e Christopher Plummer sorridevano dalla loro cornice, proprio nel modo in cui avrebbero sorriso ancora, sbiaditi e affascinanti, e più vecchi di un decennio, alla vampata di luce che cinque anni dopo avrebbe annerito la scalinata, quando l’aiuto proiezionista (il quale pensava di essersi assicurato un lavoro che invece gli fu sottratto con l’inganno: la direzione, dopo la morte del proiezionista precedente, ne assunse uno nuovo che veniva dalla città) distrusse l’edificio con una lattina di creosoto e un mozzicone di sigaretta.
I costosi posti a sedere in galleria dove era vietato fumare? In fumo. La platea con il suo persistente odore di pelle? Dileguata per sempre. I drappi di velluto, il lampadario di vetro a coppa? Cenere soffiata via, una spruzzatina di minuscoli frammenti di luce sulla superficie della storia locale. I quotidiani del giorno dopo non ebbero il minimo dubbio: un incidente. Il proprietario del cinema riscosse il denaro dell’assicurazione e vendette l’area demolita a un emporio cash and carry che si chiamava, senza grande fantasia, Mackay’s Cash and Carry.
Ma quella notte del 1968, nel bar quasi chiuso, voci profonde al di là dei muri ancora parlavano di amore moderno. La musica volteggiava ancora proveniente da un luogo indefinito. Poco prima del momento in cui gli sbirri catturano Terence Stamp e lo portano nel posto che si merita, lei aveva stretto le gambe attorno a mio padre, e lui, sorpreso, le era scivolato dentro piano, con un lamento, offrendole letteralmente milioni di possibilità, tra cui lei ne scelse solo una.
Salve.
Mi chiamo Alhambra, dal nome del luogo dove sono stata concepita. Credetemi. Niente avviene per caso.
Da mia madre: l’eleganza anche nei momenti critici; i vari usi del mistero; la capacità di ottenere ciò che voglio. Da mio padre: saper scomparire, saper non esistere.
© Ali Smith, 2005. Tutti i diritti riservati.
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