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Elogio dell’esitazione / 2

Susanna Basso SUR, Traduzione

Pubblichiamo la seconda parte del discorso che Susanna Basso ha tenuto in occasione del Premio Giovanni, Emma e Luisa Enriques, assegnatole durante le Giornate della traduzione letteraria di Urbino. Il discorso è apparso originariamente sullo Straniero, ringraziamo la rivista, la traduttrice e le Giornate per averci concesso la riproduzione. Buona lettura. La prima parte è disponibile qui.

di Susanna Basso

[Leggi qui la prima parte della conversazione]

Lo so, sarebbe bastato leggere senza sosta l’Amleto per acquisire quanto occorre sull’esitazione. Che Amleto abbia esitato per tutti noi è un conforto che, per un traduttore, si trasforma in motivo di orgoglio. E, senza bisogno di spodestare Gerolamo del suo ruolo di protettore della categoria, al suo severo ascetismo da anacoreta, alle sue penitenze, prediligo in effetti l’incontinenza verbale di Amleto, quel suo stare, fingere, giocare anche a vuoto con il senso e il nonsenso delle parole. Del resto, ben pochi tra noi credo possano vantare una qualsiasi assonanza con il rigore dei ventitré anni trascorsi da Gerolamo sul testo sacro, mentre l’inesistenza di Amleto e la sua scontrosa irritazione nei confronti di ogni nota falsa nel linguaggio di tutti, da Polonio a Osric, da Ofelia alla coppia tragi-comica di Rosencrantz e Guildenstern, non possono non risuonare nelle nostre vite quotidiane, insieme alla onnipresente e benedetta esitazione.

E questo vale per qualsiasi specie di traduttore nella quale ci riconosciamo. Già, perché immaginando una sorta di tassonomia linneana dei traduttori è possibile individuare, all’interno della grande famiglia, generi e specie assai diverse.

Ci sono, tra gli altri, gli intuitivi viscerali, gli etimologhi/entomologhi, gli inguaribili accademici, gli straniatori compulsivi, gli spietati addomesticatori, la specie dei deliranti sinonimici che dovrebbe portare il nome della amata collega alla quale si deve la loro classificazione, vale a dire Yasmina Melaouah, i filologi devoti, gli inquieti itineranti altrimenti noti come traduttori con la valigia, gli anatomisti irriducibili, i frombolieri di metafore. Vorrei proporvi una breve analisi di due o tre delle specie nominate, a partire dall’ultima, quella dei frombolieri di metafore tra i quali, modestamente, mi annovero.

IL FROMBOLIERE DI METAFORE

Il fromboliere di metafore è il traduttore ispirato, in grado di inanellare sulla traduzione una quantità di immagini che rimedia ovunque, dai libri letti a quelli tradotti, dalla vita di tutti i giorni alla sterminata abbondanza di aforismi forniti dalla rete, dai colleghi alle sacre scritture, fino alle battute dei magneti da frigo.

Il fromboliere di metafore ha scoperto presto che metafora è traduzione greca di traduzione e che pertanto metafora è traduzione e traduzione metafora. Da allora inesorabilmente non ha smesso di traslocare idee passando dai metalli alle arti bianche per chiarire, illustrare, riformulare e confezionare pensieri sulla traduzione. Frattanto ha anche tradotto, corroborando le proprie metafore con una selezione di esempi a effetto per chi, semplice amante sublunare della traduzione, si lascia incantare dalle sue fantasmagorie.

Il fromboliere di metafore è un onesto appassionato del mestiere. Almeno per i suoi primi vent’anni di militanza ha goduto e creduto nelle sue metafore e vi ha trovato lo spazio intellettuale, il respiro, per alzare gli occhi dalla pagina su cui faticava e dirsi che c’era di più in quello che faceva, che c’erano, appunto, le metafore.

Il pensiero gli ha sinceramente scaldato il cuore mentre arrancava su paragrafi in salita e si diceva, sfido io che sei senza fiato, stai arrancando su un paragrafo in salita…

E la pagina successiva, al primo accenno di noia, sfoderava innanzitutto per sé un’altra immagine ed ecco che nuotava nella corrente della scrittura; traghettava parole da una sponda all’altra di due lingue; eseguiva al flauto traverso della propria lingua un brano composto per violoncello in un’altra; trapiantava su un terreno ferroso germogli di specie non autoctone e quindi delicate, eccetera, eccetera, eccetera.

Il fromboliere di metafore ha concentrato la propria ricerca su modesti voli della mente che di volta in volta lenivano la sua inadeguatezza. Si è nutrito di immagini della differenza, si è protetto dal senso di insuccesso ricorrendo per quanto possibile alla praticata poesia del trasloco. Ha sempre trovato un po’ irritante la pedanteria dei filologi devoti, degli anatomisti irriducibili ed è arrivato ingenerosamente a definire autopsie alcune traduzioni poco alate. In segreto, tuttavia, si procurava i testi dei filologi devoti, ne ascoltava con spazientita curiosità le riflessioni, detestava pensare che gente piuttosto in gamba, come, che so, Hölderlin o Nabokov si sarebbero schierati dalla parte di scelte da lui giudicate spente, senza vita, mera e grigia acribia professionale, talvolta addirittura, nei casi più riprovevoli, semplice pigrizia mascherata da principio teorico. Il vero e profondo rammarico del fromboliere di metafore è che sette volte su dieci ha dovuto ammettere che le soluzioni filologiche , etimologiche, stranianti, eccetera eccetera lo convincevano; che almeno tre volte su dieci lo entusiasmavano.

Subito inaugurava metafore feconde per i principi alla base del lavoro altrui e tornava al proprio testo «a sadder and a wiser translator».

Il fromboliere di metafore sa che la sua posizione è sostanzialmente attaccabile; questo lo inquieta e può renderlo in certi casi permaloso. Conosce l’effettiva quantità di dubbi che fa da sfondo alle sue scelte e si sente forte di un amore per la ricchezza delle lingue che ritiene dimostrato dalla instancabilità delle sue metafore.

Il fromboliere di metafore trova con il passare degli anni l’accatastamento di metafore al suo attivo un po’ soffocante, per non dire stucchevole ma, prigioniero della sua stessa metrica, non sa più come uscirne e si consola inventando a suo uso e consumo la metafora della camicia di forza metaforica nella quale si è cacciato.

Nei momenti di più sereno ottimismo si dice che con ogni probabilità anche il più consumato traduttore filologico si sarà beccato in castagna chissà quante volte e che si sarà raccontato la favola dell’aderenza al testo fonte mentre si concedeva capriole e avvitamenti discutibili, che avrà sbirciato al lavoro di un fromboliere di metafore consapevole di farlo per il puro bisogno di prenderne le distanze.

Nei momenti di più nera stanchezza si è ripetuto la domanda amara, ma chi ti credi di essere per presumere di sapere che cosa ci sia dietro e a fianco per esempio di una andatura paratattica, orizzontale della prosa che hai trasformato qua è là in gerarchia sintattica in ossequio, ti dicevi, alla legge silenziosa della tua lingua madre? Chi ti dà l’autorità di sostituirti all’altro a partire dalla sua grammatica, come sai con certezza che è l’uso di una lingua a imporre un passo e non, proprio lì in quel preciso punto, una scelta di stile che combacia casualmente con le strutture della lingua?

Vacilla, il fromboliere di metafore.

Perfino i complimenti lo confondono; con pronta metafora autopunitiva arriva a dirsi, di fronte a chi si congratula per la bontà di un suo lavoro: magari piace perché ci ho aggiunto un po’ di zucchero, magari ho impoverito la ricetta, banalizzato il sapore, ma assecondato il primo piacere del palato.

Il fromboliere di metafore non ama di solito le spericolate metafore dei giochi di parole. Strano, no? No, invece, non così strano. Perché i giochi di parole, le parole-valigia, i calembour, i puns sono il luogo franco dei filologi devoti, l’unico spazio linguistico nel quale possono finalmente dirsi e dire: non si poteva utilizzare la lettera, è stato necessario cedere al criterio della libertà. Perciò i frombolieri di metafore non li amano, perché offrono ai loro naturali avversari teorici un margine giustificato di movimento nella lingua.

Il fromboliere di metafore riconosce la qualità delle metafore classiche in cui si imbatte, perché dispone di una bussola infallibile, per individuarle: l’invidia.

IL FILOLOGO DEVOTO

Il filologo devoto ha ben presenti i testi sacri dei Translation Studies. E ha ben presente il percorso filosofico sulla traduzione del Testo Sacro. Conosce pressoché a memoria “Die Aufgabe des Übersetzers” di Benjamin. Può sostenere con orgoglio che parlare di traduzione letterale è tautologico in quanto la vera traduzione rispettosa della fonte e onesta verso il lettore non può che essere letterale.

Può sostenerlo e lo sostiene.

Il filologo devoto è spesso un accademico, ma non sempre. Raffinato assaporatore di linguaggio, non tollera neppure il pensiero di un annacquamento. Il vino della poesia ha da essere merum, sennò, meglio dichiararsi astemi.

Il filologo devoto sa di essere inattaccabile in quanto promotore di una tesi che per primo definisce tautologica.

Trova da sempre un po’ irritante la spensierata faciloneria con la quale i frombolieri di metafore credono di poter agitare la lingua prima dell’uso.

Rispettoso di un criterio ferreo che affatica le sue giornate di lavoro, il filologo devoto trova conforto nella consapevolezza di una superiorità etica e cerca di evitare il rischio di uno scivolamento nel moralismo professionale. Entra in crisi quando è costretto ad ammettere di aver tradito, qua e là, il proprio inflessibile decalogo. Si assolve ricordando a se stesso l’impegno profuso nello sforzo di non lasciare mai la retta via, anche quando, ed è il più delle volte, la via da percorrere non è retta per niente, ma tortuosa e piena di insidie. In condizioni ottimali il filologo devoto traduce classici che, nelle sue mani scrupolose, restano tali.

L’INTUITIVO VISCERALE

L’intuitivo è di norma un avido lettore. Ha al suo attivo uno sterminato accumulo di pagine e di storie lette a partire da una prima infanzia di bambino quasi sempre prodigio. Può vantare la conoscenza, per non dire la conquista onnivora e focosa di ogni riga uscita dalla penna di Emilio Salgari e Roald Dahl, Victor Hugo, Lewis Carroll, Roberto Piumini, Robert Louis Stevenson e J. K. Rowling, Tolkien, Umberto Eco e David Foster Wallace, solo ovviamente per fare qualche esempio. L’intuitivo viscerale dispone di una ricchezza lessicale talmente vasta da poter diventare pericolosa. La sua immaginazione, vitaminizzata da anni di lingua letteraria, non teme rivali. L’intuitivo è un thesauro ambulante, una risorsa pressoché inesauribile di «soluzioni».

L’intuitivo viscerale nutre una certa avversione per la sterile artificiosità del delirante sinonimico che, a suo giudizio, non possiede le parole ma le cerca e si illude di trovarle nei dizionari dei sinonimi.

L’intuitivo viscerale è indiscutibilmente BRAVO. Emoziona, diverte, sorprende, sa sommuovere la lingua e, così facendo, la sveglia, la rinnova. Tendenzialmente poco incline alle teorizzazioni sul mestiere, corre il pericolo di «sentire» l’autore che traduce fino allo sfortunato limite di «sentirsi» l’autore che traduce, il che lo colloca in uno spazio dominato dall’assoluta imprudenza.

L’intuitivo di rango traduce praticamente solo classici, nel senso che rende tali i libri che traduce.

L’INQUIETO ITINERANTE

L’inquieto itinerante è connesso.

Viaggia leggero da un capo all’altro del mondo, con pochi raffinati stracci dentro piccole valigie, ma utilizza le più sofisticate tecnologie che gli permettono di vivere per mesi a Berlino, o a Mumbai, senza perdersi un solo convegno, né un festival o un incontro letterario, e al tempo stesso di tradurre romanzi ambientati in Messico per case editrici con sede a Trento, ficcando le parole dentro minuscoli ordigni, gli stessi sui quali le riceve, le legge, le traduce, le scarica, le salva, le spedisce.

L’inquieto itinerante nutre una velata irritazione per la categoria che ama definire dei traduttori nell’armadio, ovvero gli stanziali antichi e solitari, tarli di paragrafi dal colorito verbale tendente al giallognolo.

L’itinerante conosce un numero incalcolabile di persone, coltiva amicizie, è curioso, poliglotta, colto.

Traduce nei caffè, nei vagoni panoramici di treni canadesi, sulla metropolitana di Parigi, nelle bodegas di Madrid, nei parchi di Londra mentre prende il sole, tra una tappa e l’altra del cammino di Santiago.

Le sue sono traduzioni in movimento, aperte, capaci di restituire al mestiere l’intelligenza del viaggio. E di stanare l’esotico presente in ogni vero classico che non sia soffocato dal monumento di se stesso, di avvertire boccate di aria nuova tra le pagine di qualunque buona storia.

 

Si potrebbe continuare, naturalmente, e a poco a poco tratteggiare un grande ritratto che contenga tutti noi. Ci potremmo riconoscere in una delle specie o, più probabilmente, sentirci in transito dall’una all’altra, a seconda del momento della vita, del libro al quale stiamo lavorando, della stanchezza provvisoria che può appannare il nostro entusiasmo di traduttori, come pure del vigore che può restituircelo.

Resterebbe ad accomunarci la pratica dell’esitazione con la quale, nelle splendide parole di Yves Bonnefoy, giungiamo all’oscura coscienza che in ogni traduzione non siamo stati che noi stessi, nel nostro proprio giorno, e che questa transitorietà ha avvolto tuttavia una testimonianza.

Grazie.

Susanna Basso

 

© Susanna Basso, 2016. Tutti i diritti riservati.

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