Siamo lieti di pubblicare un approfondito reportage di Marco Archetti sulla situazione in Venezuela, un paese ormai in guerra contro la dittatura del presidente Maduro. L’articolo è apparso originariamente sul Foglio, e lo riproponiamo qui su gentile concessione dell’autore.
di Marco Archetti
«Maledetto Maduro». «Maduro dittatore». «Viva Maduro, viva la fame». I muri di Caracas sono lucida disperazione autobiografica e parlano il linguaggio di una realtà che è sempre più una maledizione, un incubo costellato di umilianti penurie e abusi avvilenti, di prevaricazioni e arbitrio, di corruzione generalizzata e incontenibile violenza, con la ciliegina-flagello di un’inflazione reale che il Fondo Monetario stima collocarsi tra i 7 e i 10 milioni per cento. Se «qual è il tuo piano B?» è stata per mesi la domanda più frequente per rompere il ghiaccio con uno sconosciuto, ad oggi l’argomento è già superato dai dati di fatto, e ovunque si sente parlare solo di piani A. «Mio padre e mia madre sono sposati da trent’anni, sono figli di abruzzesi e non hanno mai chiesto il passaporto italiano. Adesso stanno avviando le pratiche». Giulio Cellini, segretario giovanile di Primero Justicia, ha ventidue anni e molte cose da dire. Durante il poderoso ciclo di proteste del 2017 è stato uno dei principali ispiratori della trasformazione del movimento studentesco da disorganico collettivo di protesta a interlocutore accreditato presso le numerose ambasciate della capitale. Lo incontro a margine di un concerto, parliamo e lo rivedo qualche giorno dopo. Ha una lucidità che intimidisce e lo sguardo da giovane che non può concedersi la giovinezza. Quando gli domando della sua vita, sintetizza: «Lotto per qualcosa che non conosco e studio Diritto in un Paese senza legge». Democrazia è il nome di tutte le sue speranze. «È inevitabile. Ogni mese saluto gruppi di amici che se ne vanno, uno scenario desolante. Ma ancor più desolante è stato congedarne moltissimi l’anno scorso, durante i mesi delle proteste. Andavamo a un funerale dopo l’altro: ogni giorno, alle sei di sera, ricevevamo il bollettino di guerra e venivamo a sapere che qualcuno di noi era stato ammazzato. Innumerevoli i messaggi WhatsApp che rimanevano senza risposta. «Tua mamma mi ha scritto, dove sei?» Ci davamo il turno, alcuni andavano in piazza e altri ricevevano avvocati. Mi chiedevo: perché questo castigo? Cosa stiamo pagando? Di una cosa però sono sicuro: un giorno saremo orgogliosi di aver vissuto tutto questo. Presto torneremo a uscire senza paura. Presto torneremo a camminare di notte per le strade di Caracas».
Tra il 4 aprile e il 30 luglio dell’anno scorso, le pericolosissime notti di Caracas – abissi di macerie e buio che si stanno ingoiando una città che fu bellissima e che, non si sa come e per quale capriccio della persistenza, ancora lo resta – si sono inondate di una marea di cittadini che hanno sfidato la feroce repressione poliziesca dando vita a migliaia e migliaia di episodi di protesta in tutto il Paese. Com’era prevedibile, il randello bolivariano non è stato tenero e la reazione è costata 163 morti, 2000 feriti, 5326 arrestati tra i quali 1068 attualmente ancora in stato di fermo e 566 passati per un tribunale militare. La protesta esplose dopo che lo sceriffo Nicolas Maduro, pur avendo perso le elezioni legislative, partì con la sua zelante compagine all’assalto dell’Assemblea Nazionale con l’obiettivo di destituire e sequestrare la Costituzione e inflisse un mortale scacco matto alle istituzioni in due sole mosse: revocando con la sentenza 155 l’immunità parlamentare ai deputati dell’opposizione e autorizzando l’esecutivo a legiferare in materia penale secondo lo Stato di Emergenza economica dichiarato l’anno prima contro la Costituzione stessa (nella quale è prevista l’approvazione dell’Assemblea nazionale, che votò a maggioranza contro) e attribuendosi con la sentenza 156 la possibilità di creare attività imprenditoriali miste in materia di idrocarburi e di stabilirne le regole senza aspettare il via libera parlamentare. Oggi, a un anno e mezzo dagli scontri, lungo le più significative strade della protesta, sfavillano frasi-murales rosse, gialle e blu che celebrano il Presidente di tutti – alle elezioni del 2013 Maduro vinse col vantaggio dell’1% sull’avversario e ammise che il Paese era spaccato in due metà, poi aggiunse che però una metà era più importante dell’altra – e l’irrevocabilità della vincente scelta socialista, la stessa che Hugo Chávez fece di tutto per introdurre nella Costituzione ma perse il referendum. («La vostra è una vittoria di merda», ringhiò in tv, «la nostra una sconfitta di coraggio!»)
In ogni caso, al di là della grottesca assertività cubana degli slogan che ammoniscono «qui non si arrende nessuno», la verità è che i venezuelani si sono arresi tutti. Non all’idea che non ci sarà mai un cambiamento. Ma alla quotidianità. Come non capirli? Al momento, gli unici risultati del baldanzoso sovranismo petro-fanta-bolivariano sono un Paese vandalizzato capillarmente dal punto di vista economico e sociale, atterrito dall’assenza di opzioni a breve termine e allarmato dal panorama angosciante di ben cinque indici di cambio (fino ad agosto c’erano il DIPRO, cambio ufficiale; il DICOM, cambio ufficiale variabile; il tasso della Banca Centrale stabilito sulla base delle riserve monetarie; quello parallelo di Miami basato su DolarToday e quello di Cúcuta calcolato in Colombia). La portentosa inflazione porta con sé il trionfo di una sola certezza: che il giorno dopo sarà peggio del giorno prima. «Sono anni che nessun bene cala di prezzo. Io devo lavorare metà mese per metter via i soldi necessari a comprare un pezzo di sapone. E quando li ho, il sapone è aumentato», confessa Lucidio, un taxista coi baffi a scopetta che si raccomanda mille volte che io non porti mai con me il cellulare. «Anche ieri hanno ucciso un ragazzino per rubarglielo», mi dice. Poi scuote la testa. «Guardi questo Paese: è il sogno di Pablo Escobar realizzato».
Qui tutto e tutti stanno soffrendo le conseguenze letali dell’immiserimento e della povertà. Perfino l’industria petrolifera è azzoppata, molte raffinerie olandesi sono a rischio chiusura e la gestione economica è sempre più delirante: nazionalizzazioni scriteriate (abbattuta ormai anche la Kellogg’s, che dava da mangiare a mezza Maracay), cicliche campagne di arresto dei CdA delle sopravviventi banche private (a maggio è toccata a Banesco, domani chissà), incontrollato accaparramento di capitali da parte delle insaziabili oligarchie di governo presso le quali vige solo la legge del bottino, mai una seria strategia di prevenzione del crimine e sempre una singolare mancanza di polso in materia di narcotraffico. A dispetto del monte-ore di allocuzione a reti unificate, infatti, Nicolás Maduro non si è mai soffermato a lungo né sui suoi due nipoti Efrain Campos Flores e Francisco Flores de Freitas, arrestati ad Haiti con 8 quintali di cocaina e passaporto diplomatico, né sulla loro condanna a diciotto anni. Silenzio anche sui sospetti a carico del suo numero due, il ruspante soldato della patria Diosdado Cabello, su cui la Dea sta elaborando un dossier lungo come la Recherche di Proust. Cabello intanto tira dritto, buffoneggia e ruggisce in un smisurato one man show televisivo intitolato «Dando mazzate», che è poi il sogno leghista di ogni grillino: irrompe tra due ali di folla plaudente e cantereccia, si siede a una scrivania disseminata di statuette di Chávez più variegate chincaglierie votivo-bolivariane, agita una clava e, troneggiando sull’hashtag #QuiNonSiParlaMaleDiChavez, denigra gli Usa coi medesimi toni che usa Salvini con l’UE, sbraita e lancia stravaganti filmati che negano il fatto che due milioni di venezuelani se ne stiano andando dal Paese, spesso affigge a una lavagna una selezione di articoli di giornale che barra di rosso scandendo «questo-non-va-bene», poi manda in onda una manciata di intercettazioni telefoniche e le commenta, raccoglie delazioni e schiaffa manate sul tavolo, legge paranoiche lettere di patrioti, interminabili poesie socialiste e ammaestra un pubblico in gran parte di militari che ripete «sono chavista e difendo la mia patria» prima di lanciarsi in balli e risate. Quattro ore incredibili, assurde, lunari quanto una passeggiata in plaza Bolivar, paradossale parco tematico filochavista – «Seguimos venciendo!» su tutti i muri – assediato ai quattro lati da una realtà di quartieri degradati, edifici popolari bielorussi simili ad arnie, criminalità anche poliziesca e negozi tutti vuoti. È proprio all’interno di questo spazio onirico che, nelle prime due settimane di novembre, si è svolta la 14esima Fiera del Libro, una deprimente carrellata dei soliti testi, dei soliti Fidel, dei soliti Diari in Bolivia più «due tonnellate di libri dalla Turchia ospite d’onore», con tutti che ciondolano e nessuno che compra perché chi accidenti se lo può permettere, e la silhouette di Geraldina Colotti, Norma Desmond di ogni Fallimento, che vaga trasognata di stand in stand.
«Per un venezuelano un libro costa come uno stipendio. Qui con cinque birre ti sei bevuto il salario. Ma lo consideriamo normale, perché ormai la gente è entrata in un’ottica di carestia. Anche la luna di miele con Hugo Chávez è durata i primi tre o quattro anni, quando l’erosione degli spazi democratici era già in corso ma la bonanza petrolifera e il benessere che ne derivava ci distoglievano dal problema. Poi è finita. Ora, con elezioni regolari, il governo faticherebbe a racimolare un 15% di consenso», racconta Garcilaso Pumar mentre mi accompagna al mercato Guaicaipuro, nel quartiere di Las Palmas, guidando una vecchia Opel come fosse a cavalcioni di un missile. 40 anni, altissimo, pencolante, barba a punta, un curriculum da fotografo e da sound designer di telenovelas messicane, fondatore della gagliarda casa editrice «El estilete» e di cinque librerie chiamate «Luogo comune» che sono state uno dei punti di riferimento della vita culturale della capitale e che in pochi mesi hanno chiuso una dopo l’altra, oppositore «dall’ora zero del chavismo-madurismo», sposato con una regista teatrale e lietamente succube di un labrador nero chiamato Marmellatina che mi giura essere il proprietario della Opel, prima di portarmi a fare un giro al mercato vuole mostrarmi il quartiere popolare di Chapellín, ripido rompicapo di strade e stradine, una caterva abitativa che confina col Country Club più chic della città. «Il barrio articola una trama affettiva che è la base della venezuelanità. I barrios si sviluppano tra gli interstizi urbani e prolificano come funghi, ed è difficile comprendere perché dal barrio nessuno se ne va e tutti vivono uno sopra l’altro, perché per noi è normale dividere le famiglie. Lì no. Lì si mantengono unite. I venezuelani sono esseri relazionali prima che razionali». E così camminiamo un po’ per le strade sconnesse di queste unità affettive di sopravvivenza, tra sfasci di tettoie, case aggrappate le une alle altre, auto in panne, necropoli di taniche, lucidi sguardi di sconosciuti e abbacinante ceffone solare. Il mercato è invece un grande antro buio, un vascellone di cemento, grate e vetrine opache. Ci sediamo a mangiare una cachapa straripante di formidabile formaggio a pochi passi da una nicchia che ospita una gigantesca Vergine Maria contornata di fiammelle votive. Amalis, guance piatte arrossate dal calore della piastra e autrice del piccolo capolavoro gastronomico, ci sorride stanca e attacca bottone. «Vivo nel quartiere Los Valles del Tuy», ci racconta. «Dodici km da qui, ma per venire mi sveglio alle 3 tutte le mattine. Il mio stipendio è carta straccia e va tutto in trasporti. Ieri sull’autobus mi hanno rapinata di ogni cosa, perfino dei sandali. Sono arrivata a piedi nudi al lavoro. Mio figlio l’hanno ammazzato a diciotto anni per rubargli la moto. Tu da dove vieni? Sei italiano? Bene, fai una prova e chiedi in giro: ogni dieci persone, ti accorgerai che quasi tutte hanno avuto problemi coi sequestri. Perché? Siamo animali? Nel mio quartiere non ci meritiamo nemmeno la corrente elettrica. Io continuo a venire a lavorare perché mi trovo bene coi colleghi. E perché sennò impazzisco». Garcilaso mi guarda e annuisce. «Esseri relazionali». Poi, mentre torniamo verso la macchina, è attraversato da un’intuizione, una vena luminosa, un ultimo pensiero di speranza. «Fino a cinque anni fa, su venti vicini di casa, ne conoscevo sì e no cinque. Adesso li conosco tutti uno per uno. E ci aiutiamo l’un l’altro, quotidianamente. Sai cosa significa? Che quando usciremo da tutto questo lo faremo insieme. Questo Maduro lo sa, e questo teme: in mezzo a una guerra, ora sta nascendo un popolo».
© Marco Archetti, 2018. Tutti i diritti riservati.
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