Pubblichiamo oggi un profilo dello scrittore argentino Julio Cortázar uscito sulla rivista Pulp nel 2002, in occasione della ristampa del suo romanzo «Il gioco del mondo».
di Raul Schenardi
“La verità, la triste o gioiosa verità, è che mi piacciono sempre meno i romanzi, la narrativa come si pratica di questi tempi. Quello che sto scrivendo adesso (se un giorno o l’altro lo finirò) sarà qualcosa come un anti-romanzo.” Così Julio Cortázar in una lettera a un amico. Il libro, Rayuela, sarebbe uscito tre anni dopo, nel 1962 (Il gioco del mondo nella traduzione italiana di Flaviarosa Nicoletti Rossini del 1969). Sulla copertina, disegnata dall’autore, l’illustrazione del gioco infantile cui allude il titolo: un rettangolo tracciato per terra e diviso in sei caselle che bisogna occupare, saltellando su una gamba dopo avervi gettato un sasso, per raggiungere il traguardo del Cielo. (Rivelatore il titolo primitivo che Cortázar poi cambiò, giudicandolo “un po’ pedante”: Mandala.) Subito baciato dal successo e tradotto in varie lingue, entrò di prepotenza nel ristretto numero di opere – Cent’anni di solitudine in testa – che a partire dalla fine degli anni Sessanta hanno forgiato l’idea che ci si è fatti in Europa della letteratura latinoamericana, a controbilanciare l’impressione che tutto quanto proveniva di lì fosse sotto il segno del barocco e del realismo magico.
Soprattutto era una conferma, quasi un inveramento, di posizioni che si affacciavano allora nel panorama critico internazionale: proprio nel 1962 uscivano Opera aperta di Eco e l’edizione italiana di un testo del ‘57 dal titolo altrettanto battagliero, La hora del lector, di Castellet, entrambi imperniati sull’importanza del ruolo del lettore nella genesi dell’opera letteraria. Erano in fondo le medesime preoccupazioni di Cortázar, espresse con chiarezza in uno dei frammenti metanarrativi più pregnanti di Rayuela: “Tentare un testo che non vincoli il lettore e invece lo renda necessariamente complice nel suggerirgli, attraverso la trama convenzionale, altre mete e vie più esoteriche… Provocare, impegnarsi in un testo ingarbugliato, slegato, incongruente, accuratamente antinarrativo (ma non antiromanzesco)”. Il “lettore-femmina” – Cortázar si scuserà poi con le sue lettrici per questo residuo di machismo linguistico sudamericano –, ovvero il lettore passivo abituato a prodotti omologati e predigeriti, è avvertito: “non andrà oltre le prime pagine, terribilmente smarrito e scandalizzato, maledicendo il prezzo del libro”.
Suscitò reazioni viscerali: per un critico entusiasta si trattava della dichiarazione d’indipendenza del romanzo latinoamericano, un altro pronosticò che avrebbe avuto sulla lingua spagnola lo stesso impatto dell’Ulisse di Joyce sull’inglese; non pochi, affezionati a forme narrative più convenzionali (realismo, naturalismo, psicologismo, critica sociale ecc.), si accanirono a enfatizzarne i difetti. Sta di fatto che da allora questo romanzo non ha smesso di ispirare interpretazioni appassionate e studi accademici, e malgrado – o pour cause – la sfida che presenta la sua lettura, ha sedotto generazioni di lettori, soprattutto giovani, a dispetto delle previsioni dell’autore, che si sono immedesimati in Horacio e nella Maga, soffrendo per il loro disincontro, o si sono abbandonati alle elucubrazioni del bizzarro gruppo di bohémien del Club del Serpente, o si sono rinfrancati con la brezza libertaria ed esistenzialista che scompiglia le pagine del libro.
Mancava da vent’anni una riedizione italiana, ben venga dunque, i lettori già affezionati all’autore dei racconti raccolti in Bestiario, Finale del gioco, Ottaedro, Qualcuno che passa di qui, Tanto amore per Glenda, avranno modo di scoprire l’altra faccia, quella più trasparente e in fondo più generosa, di uno scrittore conscio dei propri mezzi ma immune da deformazioni professionali, e molti avranno occasione di conoscere un’opera che ebbe l’impatto di un manifesto letterario e contribuì ad ampliare le nostre capacità di fruizione dei materiali narrativi. Perché Il gioco del mondo è un ipertesto, oggi lo sappiamo, possiamo chiamarlo così e, avvezzi ai cd-rom e ai link, possiamo persino sorridere delle difficoltà che Cortázar dovette affrontare per “montare” i testi e per redigere la Tavola d’orientazione per il lettore, dove spiega che: “A modo suo questo libro è molti libri, ma soprattutto è due libri. Il primo, lo si legge come abitualmente si leggono i libri, e finisce con il capitolo 56 … Conseguentemente il lettore potrà prescindere senza rimorsi di coscienza da quel che segue. Il secondo, lo si legge cominciando dal capitolo 73 e seguendo l’ordine indicato a pié di pagina di ogni capitolo”.
A complicare ulteriormente le cose, il lettore diffidente che consultasse l’indice scoprirebbe che il libro si suddivide in: “Dall’altra parte” (le peripezie parigine), “Da questa parte” (il ritorno a Buenos Aires) e “Da tutte le parti, capitoli dei quali si può fare a meno”, che raccoglie episodi e personaggi minori, citazioni da libri e giornali, e soprattutto le riflessioni critiche e filosofiche dello scrittore fittizio Morelli, alter ego dell’autore. Ma altre cabale si annidano nella Tavola d’orientazione. Seguendo lo schema proposto, infatti, si salta il capitolo 55 (imperdibile!), alla fine ci si avvita in una lettura infinita dei capitoli 131 e 58, e rimane in sospeso – al giudizio insindacabile del lettore-complice – il dilemma se il protagonista si suiciderà oppure no. Cortázar, ottimista a ogni costo, dal canto suo fu categorico: no.
L’incipit del romanzo ci situa alle origini della sensibilità dell’autore. Horacio, un intellettuale argentino spiantato, cerca sul Pont des Arts la silhouette della Maga, la sua amante, come lui emigrata latinoamericana a Parigi, come lui sradicata e inquieta, ma a differenza di lui incolta, meno raziocinante e dunque più vicina al senso elementare delle cose. Sarebbe troppo banale per loro darsi un appuntamento, si affidano piuttosto al caso che li farà incontrare, oppure no. Breton descrive una passeggiata analoga in Nadja, del 1963, un altro libro difficilmente classificabile che mette in discussione la forma romanzo: “Non so perché sia proprio là che mi portano i miei passi… senza acun motivo determinante salvo l’oscura sensazione che è in quel luogo che ciò (?) accadrà”, e Cortázar condivide con i surrealisti anzitutto l’atteggiamento di fondo nei confronti della vita: il rifiuto dell’appiattimento razionalistico, del grigiore della routine borghese, l’attenzione e la disponibilità verso segnali provenienti da altre dimensioni, si tratti dell’inconscio o delle inattese e misteriose “corrispondenze” che illuminano il mondo con bagliori di senso. Del resto, questo sentimento del fantastico è la sorgente d’ispirazione di molti suoi racconti, che denunciano la stessa ansia di aprire spazi all’impensato, anche quando assume lineamenti inquietanti.
Cosa cerca Horacio a Parigi? Fra le braccia della Maga, di Pola, o – in uno slancio disperato di comunione umana che vince la logica della repulsione – della clochard Emmanuelle? La stessa cosa che il suo amico Traveler (il viaggiatore: si noti l’ironia di Cortázar nella scelta dei nomi), che non si è mai mosso da Buenos Aires, cerca dall’altra parte dell’Oceano: il proprio centro, che coincide con il centro del mandala, con il Cielo, il traguardo del “gioco del mondo”. E intorno a loro ruotano Etienne e Babs, Ronald e Gregorovius, gli amici del Club del Serpente, entusiasmandosi all’ascolto di Jelly Roll Morton o di Thelonius Monk (il romanzo riflette i ritmi sincopati e le improvvisazioni del jazz, di cui Cortázar era un cultore), impegnandosi in una discussione sul Bardo Todol, il Libro tibetano dei morti, o in spassosi giochi verbali, o in sbronze malinconiche. Tutto crolla d’improvviso quando muore Rocamadour, il figlioletto della Maga. Horacio allora torna a Buenos Aires, dove trova lavoro prima in un circo, poi in un manicomio, rivede i vecchi amici, Traveler e Talita, nella quale rivede il fantasma della Maga, e intreccia con la coppia una rischiosa dinamica in cui mettono in gioco se stessi.
Nella struttura convulsa del romanzo spiccano una serie di episodi (happening, li chiamò un critico) quasi autosufficienti, di straordinaria tensione: il concerto della cantante Berthe Trépat, l’incontro con Morelli, la morte di Rocamadour, Talita a cavalcioni delle assi sospese sulla strada (il primo capitolo scritto dall’autore), la trappola costruita da Horacio nel manicomio, ecc. Curiosa l’opinione di Cortázar al riguardo: “Contrariamente a moltissimi lettori che si appassionano a Rayuela per questi capitoli, quelli che ricordano maggiormente, a me sono quelli che piacciono di meno… perché Rayuela intendeva proprio distruggere… questa concezione del racconto ipnotico… E in quei capitoli tradisco un po’, mi lascio trasportare dal dramma… La mia idea era di far avanzare l’azione e poi arrestarla proprio nel momento in cui il lettore ne rimane prigionero, e sbatterlo fuori con un calcione, affinché torni a guardare il libro oggettivamente dal di fuori e a considerarlo da quell’altra dimensione”.
Sarebbe insensato tentare di andare oltre nel tentativo di riferire la trama, forse è più istruttivo aprire Il gioco del mondo a caso, come fosse un oracolo, per iniziare l’avventura: “Appena lui le amalava il noema, a lei sopraggiungeva la clamise e cadevano in idromorrie, in selvaggi ambani, in sossali esasperanti…”. L’incipit del capitolo 68 dà un’idea approssimativa dello spirito ludico dell’autore, ben noto ai lettori delle sue Storie di cronopios e di fama. C’è da stupirsi se Rayuela diventò un libro da zainetto per la generazione dei figli dei fiori e dell’amore libero? Con le sue allusioni allo zen e alle dottrine orientali, il sottofondo musicale jazz, l’impegno politico che si profilava (anche per lui) all’orizzonte, Cortázar è stato come un fratello maggiore che sapeva dire una parola d’incoraggiamento senza risultare pedante. E siccome non ammetteva “una chiara differenza fra vivere e scrivere”, non sarà inutile ricordare qualche circostanza della sua vita.
Julio Cortázar nasce a Bruxelles nel 1914 da genitori argentini che in seguito rientrano in patria, ma presto il padre lascia la famiglia e lui cresce in un gineceo, situazione che si riflette in alcuni racconti dal gusto vagamente rétro, con ambientazioni realistiche piccolo-borghesi. Il suo primo esordio in libreria è un volumetto di poesie firmate con uno pseudonimo e presto dimenticate, mentre si guadagna da vivere insegnando francese in piccoli centri rurali, finché nel 1945 rinuncia all’incarico a causa della vittoria elettorale di Perón. L’anno successivo Borges gli pubblica su una rivista il racconto “Casa occupata”, che inserirà anche nella seconda edizione dell’Antologia della letteratura fantastica; ne seguiranno altri, poi riuniti in Bestiario, la cui prima edizione nel 1951 è apprezzata in ristretti circoli ma rimane pressoché invenduta. “Diversi racconti di Bestiario furono, senza che io lo sapessi (me ne resi conto dopo) autoterapie di tipo psicoanalitico. Scrissi quei racconti mentre soffrivo di sintomi nevrotici che mi disturbavano.” Eppure si tratta di una prova già pienamente matura, sembra che quest’omone dall’aria di eterno adolescente conosca a menadito regole e ingredienti per costruire marchingegni narrativi perfetti, e – come succede del resto anche per Borges – è difficile individuare nelle raccolte successive tracce di una qualche “evoluzione”: variano le tematiche o le ambientazioni, i registri stilistici, le soluzioni, ma la voce rimane assolutamente inconfondibile.
Cortázar in seguito offrirà il suo autoritratto di quegli anni: “Dal 1946 al 1951 vita porteña, solitaria e indipendente; convinto di essere uno scapolo irriducibile, con pochissimi amici, melomane lettore a tempo pieno, appassionato di cinema, piccolo borghese cieco a tutto ciò che succedeva al di fuori della sfera estetica”. Approfittando di una borsa di studio del governo francese si trasferisce a Parigi, la Mecca degli intellettuali latinoamericani dell’epoca (oggi rimpiazzata da New York), per stabilirvisi fino alla morte, nel 1984. Durante un viaggio in Italia inizia a tradurre Poe, che ammirava fin da ragazzo e di cui ha mutuato suggestioni e tematiche (come quella del “doppio”), e poi Keats, Gide, le Memorie di Adriano della Yourcenar, prima di intraprendere una lunga carriera di traduttore indipendente per l’Unesco.
Si sposa (è il primo di tre matrimoni) e insieme alla moglie, anche lei traduttrice, vive immerso nei libri, lavorando alacremente: nel 1956 pubblica i racconti di Finale di gioco. Tre anni dopo è la volta di Las armas secretas, una raccolta comprendente Las babas del diablo, che ispirò Blow-up di Antonioni, e Il persecutore, che segna una svolta significativa nella sua produzione. Cortázar dice di averne iniziato la stesura subito dopo aver saputo della morte di Charlie Parker, di cui il sassofonista protagonista del racconto, oltre al cognome, condivide le stesse fatali passioni: alcol, droghe, donne. Insieme al critico di jazz Bruno (controfigura dell’autore), è il primo personaggio a tutto tondo creato da Cortázar, che fino a quel momento si era sempre servito di personaggi-pretesto, emblematici ma sacrificati, nella loro dimensione psicologica o vitale, all’intenzione primaria di creare atmosfere peculiari o di sviluppare un tema fantastico. (Un po’ come succede a Gekrepten, la fidanzata porteña di Horacio nel Gioco del mondo – stereotipo di donna banale e prevedibile, depositaria di un destino di rassegnazione – volutamente annichilita, ridotta a macchietta, nel confronto con la Maga e Talita.) Il musicista del Persecutore rappresenta invece un passo decisivo verso la costruzione di personaggi complessi e sanguigni, e la lunghezza del racconto prelude alla prosa torrenziale del Gioco del mondo.
Ma c’è un altro libro, Storie di cronopios e di fama, pubblicato nello stesso anno del romanzo, che apparentemente si situa agli antipodi e tuttavia funziona come una cerniera nella produzione di Cortazar. Secondo Calvino: «I cronopios e i fama, due genie d’esseri che incarnano con movenze di balletto due opposte e complementari possibilità dell’essere, sono la creazione più felice e assoluta di Cortázar». I primi sono spiriti liberi, un po’ pasticcioni e un po’ asociali, incoercibili poeti (il cronopio medico prescrive contro l’insonnia l’acquisto di un mazzo di rose), mentre i fama sono implacabili sostenitori della razionalità e dell’efficienza (se hanno bisogno di una pasticca contro il mal di gola, tagliano un eucalipto). Maneggiando queste “categorie antropologiche primordiali”, Cortázar crea una miniatura di universo patafisico retto da proprie categorie etiche ed estetiche. Completano il libro altre sezioni (Manuale d’istruzioni, Lavori insoliti e Materia plastica), anch’esse costituite da testi brevissimi, talora vere e proprie vignette, benché temperate da tocchi lirici
Un viaggio a Cuba nel 1962 e l’influenza della seconda moglie, una lituana molto politicizzata, segneranno una profonda presa di coscienza da parte di Cortázar delle problematiche sociali del sottosviluppo latinoamericano e lo indurranno ad assumere posizioni romanticamente rivoluzionarie (che manterrà nel corso del tempo con coerenza, devolvendo per esempio gli introiti delle vendite di due suoi libri alle forze sandiniste e alle associazioni di rappresentanti dei desaparecidos argentini). Ma i testi in cui affronta in pectore temi politici (alcuni racconti delle ultime raccolte, e soprattutto il romanzo El libro de Manuel) sono decisamente trascurabili, così come risulta eccessivo Componibile 62, una storia di vampirismo psichico che denuda il versante più oscuro delle problematiche dell’autore e che nasce come sviluppo di un’idea contenuta nel capitolo 62 del Gioco del mondo.
A testimonianza dell’enorme affetto dei suoi lettori, una scritta murale viene puntualmente rinnovata nella piazza che gli è stata dedicata a Buenos Aires: “Julio, torna, cosa ti costa?”.
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