Sul modello di Joe Brainard, poi seguito da Perec e molti altri, il primo di una serie di contributi tratti dalla rivista Traviesa, che ringraziamo: i ricordi dell’autore argentino Hernán Ronsino.
di Hernán Ronsino
traduzione di Stefania Marinoni
Mi ricordo lo zio Paco, le sue risate, il modo in cui lo accoglievamo in casa quando veniva a trovarci di domenica poco prima di pranzo, la gioia con cui si accoglie chi racconta storie.
Mi ricordo i telefoni pubblici. Ho avuto il primo telefono in casa a vent’anni. Prima, quando si doveva chiamare qualcuno – ed era un evento straordinario – lo si faceva dall’osteria del circolo Cerámica. Lì, c’era un telefono pubblico. Mi ricordo il suono dei gettoni quando li inserivo, lo sforzo per digitare i numeri, il rantolo spezzato che si sentiva nella cornetta prima che dall’altra parte rispondesse qualcuno. La cosa mi provocava un brivido. Una lieve alterazione cardiaca.
Mi ricordo una gara di nuoto. Era a Bragado. Io nuotavo a rana. E quella volta, il ragazzo che vinceva sempre non partecipò. Eravamo in tre e vinsi io. Era l’unica occasione in cui il vincitore riceveva un attestato anziché una medaglia. Provai una leggera frustrazione. E pensai che in un certo senso, proprio perché non c’era una medaglia come primo premio, tutti sapevano che chi avrebbe meritato di vincere era quello non aveva potuto gareggiare. Insomma, il ragazzo che vinceva sempre.
Mi ricordo quando insieme ai miei fratelli e alcuni amici del quartiere costruii una zattera in un paesino della pampa ben lontano dal mare. Per un’intera settimana, facemmo avanti e indietro da un bosco per scegliere il legno adatto. Gli ideatori erano i miei fratelli. Il piano era di navigare lungo il fiume Salado fino ad arrivare alla foce, fino ad arrivare al mare. Avevamo otto anni.
Mi ricordo la sensazione di noia. Annoiarsi in un paese è girare intorno più volte alla propria ombra, è smettere di percepire il tempo. Per quello mi ricordai di Cioran. Annoiarsi è masticare il tempo, dice.
Mi ricordo quando di pomeriggio andavo alla stazione dei pullman di Chivilcoy a guardare gli autobus arrivare e partire. Mi sedevo su una scala e rimanevo lì per ore. A osservare, come si dice, il movimento. Una volta vidi il Negro Granados. Era con sua moglie, in partenza per La Plata. Mi avvicinai e lo salutai. Gli dissi: Sono il figlio di Lito. Non capì di cosa stessi parlando. Non sapeva chi fossi. Era nervoso per il viaggio. E vestito in modo diverso. Il Negro Granados era il protagonista di molte storie che raccontava, ogni tanto, mio padre. Era una specie di mito. All’improvviso entrò in una bottega e quando uscì, scartando una gomma da masticare, mi disse: Prendi, ragazzo. Mi aveva dato dei gettoni per giocare a flipper. Presi i gettoni e lo ringraziai ma preferii rimanere seduto. Volevo, prima, vederlo partire. Perché mi piaceva più quello – osservare gli arrivi e le partenze – che il folle rumore delle macchinette.
Mi ricordo la guerra delle Malvinas, o delle Falkland, ogni volta che canto l’inno nazionale. Ogni volta che si dice «Al grande popolo argentino, salve» mi torna in mente un pensiero che mi venne a scuola mentre era in corso la guerra. Un giorno ci fu una simulazione di bombardamento. Ci dissero che quando sentivamo la sirena dei pompieri in tutto il paese – quello era il segnale – il paese poteva rimanere al buio, se era notte, perché il rischio di un bombardamento era imminente. Poi, dopo aver detto così, la signorina Mercader ci fece, a mo’ di prova, andare tutti sotto i banchi, con le mani incrociate sulla nuca. Ogni volta che sento «Al grande popolo argentino, salve» immagino il fantasma di un aereo inglese pronto all’attacco.
Mi ricordo quando andai per la prima volta a cavallo con mio fratello Javier. Lui sapeva già cavalcare e sapeva, anche, che io avevo paura. Ma insistette, insistette tanto che mi disse: Ti porto io. E mi fidai. Una volta in sella mi aggrappai completamente al corpo di mio fratello, sentivo l’odore pungente emanato dalla lana, e lui di colpo si gettò nella campagna. Cavalcammo per la campagna. In movimento le cose si vedono come se fossero nuove.
Mi ricordo quando Walter Perruelo mi fece perdere la ragione, un pomeriggio di pioggia nella palestra del circolo San Lorenzo, mi ricordo la mia reazione e quello che provocò, quasi inaspettatamente, sulla sua faccia. Mi ricordo che la mia mano fu spinta da una forza estranea. Mi ricordo l’impatto che sentii sulle nocche quando la mano sbatté contro la faccia di Walter Perruelo. Non ci volle molto perché si formasse quel tipico alone scuro intorno all’occhio sinistro.
Mi ricordo la trama della luce che spunta dietro le cupole della chiesa principale verso le sette di sera e in primavera.
Mi ricordo la lettura di un libro di Haroldo Conti, Mascaró; mi ricordo che sui campi pioveva una pioggia estiva, e l’aria e quello che leggevo erano quasi la stessa cosa, la meraviglia che mi circondava.
Mi ricordo Mercedez Varela. A scuola, era l’addetta alla recita di poesie. Quando leggeva sembrava un’altra. Invece di dire, con accento argentino, iuvia, diceva gliuvia, perché, secondo Mercedez Varela, quando si recita una poesia in pubblico, bisogna parlare bene.
Mi ricordo un sogno. Sognai, una volta, che dalle fondamenta della casa di mia nonna in Italia usciva uno strano fumo. Due giorni dopo quel sogno che mi aveva inquietato, la stufa a cherosene di una stanza della casa della stessa nonna, in Argentina, prese fuoco. Dovettero chiamare i pompieri. Non sono mai riuscito a capire se ci fosse una connessione tra queste due forme di fumo.
Mi ricordo la notte in cui morì lo zio Paco. Quella notte, lontano dalla veglia funebre, imparai a contare.
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