Riprendiamo il discorso sul romanzo di Fogwill pubblicato dalle Edizioni Sur, «Scene da una battaglia sotterranea» (l’ultima recensione in ordine di tempo comparsa sulla stampa si può leggere qui) con un saggio che approfondisce la tematica del testo. Il saggio di Julio Schvartzman, docente presso l’Univeristà di Buenos Aires, è stato pubblicato in «Microcrítica: Lecturas Argentinas», nel 1996.
di Julio Schvartzman
Traduzione di Giuseppe Trovato
Si può scrivere a favore della guerra. Basta mettere tutta l’efficacia della scrittura al servizio di una fazione e scaricare l’artiglieria verbale contro l’altra. Hanno iniziato così, con la guerra nazionale. I nostri canti patriottici, a cui sono seguiti fogli e gazzette gaucho-politici nelle lotte civili.
Si può scrivere contro la guerra scatenata da altri e denunciare così l’ingiustizia di entrambe le fazioni o di una delle due, esibendo le cifre di un’allarmante riduzione della curva demografica (come Alberdi) o rammaricandosi per le perdite (come Guido e Spano).
Infine, si può sperimentare una scrittura di resistenza che rifiuta qualsiasi assimilazione del discorso bellico (e del discorso politico, si tratti o no della sua prosecuzione “con altri mezzi”). Questa posizione mette in discussione la guerra, ma non è pacifista: combatte la propria guerra. A questo scopo riunisce vari aspetti: il disinganno della guerra, le aspettative tradite, il risentimento plebeo verso gerarchie e discipline. Non oppone altri valori ai valori invocati, almeno non in maniera esplicita, né l’obiezione di coscienza. Parla d’altro; non dell’economia bellica, per esempio, ma dei benefici economici derivanti dalla guerra. Può risultare minaccioso per l’atteggiamento antistatale, ma solo per senso di abbandono, per spirito individualista, per sfiducia irriducibile.
Se si dovesse scegliere un modello argentino di questa posizione, potrebbe rivelarsi utile un componimento fondamentale, l’anonimo Cielito del blandengue retirado (1821-1823 circa). Il “canto patriottico” del “rammollito in congedo” sintetizza l’atteggiamento e il tono di colui che, dopo essere passato attraverso la guerra nazionale e quella civile, non vuole più avere nulla a che fare con le varie fazioni nelle quali individua, quasi parafrasando Samuel Johnson, uno stratagemma per appropriarsi delle cose altrui: “Non venite da me con storie / di patria né di guerriglieri”.
Questa via d’uscita dallo spinoso dilemma della guerra può spingere all’indignazione, al cinismo o all’astuzia, ma non entra nel gioco delle utilizzazioni della guerra, o vi entra instaurandovi la propria utilizzazione, che è una rifrazione o un’esasperazione di quelle.
UN TRAUMA
La guerra delle Malvine non divise la società argentina, in quanto solo piccoli settori manifestarono la propria reticenza e contrarietà alla riconquista e/o alla difesa delle isole. Tuttavia il consenso maggioritario si ebbe sotto il regime autoritario di una dittatura e di un esercito che imposero alla guerra e alla cultura della guerra le proprie modalità operative e discorsive.
(Sul risvolto di copertina della prima edizione – Buenos Aires, De la Flor, 1983 –, luogo da cui in genere parla l’editore, si attua uno spostamento. “La versione del romanzo che viene pubblicata ora” dice l’autore, senza necessità di firmare “non è stata scritta contro la morte né contro l’idea della morte o l’idea della guerra, ma piuttosto contro la realtà che impone uno stesso stile ipocrita di fare la guerra e la letteratura”.)
Per questa ragione, al successo pubblico seguì il silenzio pubblico, e all’entusiasmo della società il trauma, la difficoltà o l’impossibilità di parlare di tale questione. Ma durante i due mesi e mezzo del conflitto l’adesione popolare si espresse in numerosissime modalità, dall’arruolamento volontario all’offerta di preziosi beni di famiglia alla formulazione di parole d’ordine ed esercizi di lirismo patriottico.
Un numero della rivista La Maga del 1992 deplorava che un evento di tale natura non avesse lasciato nella letteratura, come sarebbe successo nel rock nazionale, una traccia significativa, eccezion fatta per Los Pichiciegos. (Nella prima edizione sulla si legge: Los pichy-cyegos. Visiones de una batalla subterránea. Rodolfo Enrique Fogwill”. Sulla seconda: “Fogwill – Los Pichiciegos”.) E, tuttavia, la traccia, nel rock, non potrebbe essere più fastidiosa e conflittuale anche nei suoi aspetti più positivi, poiché si associa al suo ininterrotto inserimento nella cultura ufficiale e nel mercato. E quei recital solidali vengono dimenticati o ricordati senza orgoglio.
La difficoltà di superare il trauma risuonava in una parola d’ordine che decine di migliaia di gole inneggiavano in coro per le strade nel 1983, dopo sette anni di morti, sparizioni, esilio, torture, bavagli e proscrizioni. Era il frammento di un’opera teatrale che tentava di riassumere, in chiave antimilitarista, le disgrazie di tutti quegli anni. Chiedeva: “Cos’è successo alle Malvine?” e subito dopo una risposta di commiserazione: “Quei ragazzi non ci sono più”.
Osceno, il riferimento pietistico ai soldati come “ragazzi” (parola di “grandi” ripresa erroneamente da alcuni dei suoi destinatari) e, in particolare, la rapida decisione che faceva sparire “ragazzi” che, nella maggior parte dei casi, per infortunio o promemoria del trauma, erano ancora lì.
“QUESTO È LORO”
Los Pichiciegos adotta la prospettiva e la lingua di un genere picaresco di guerra, della corrosione dei confini tra le fazioni, del cinico rifiuto di parlare seriamente dei valori invocati.
La formazione di un gruppo di disertori che costruisce un covo sotterraneo e baratta con entrambe le fazioni, con l’unico obiettivo di sopravvivere, mette a repentaglio qualsiasi altra certezza. In effetti, lo scambio di beni instaura al fronte la legge della domanda e dell’offerta e la richiesta di attrezzature, materiali e (per dirlo con un termine gauchesco, un genere che parla anch’esso di diserzione) “vizi”. La legge del valore equipara le fazioni, screditando qualsiasi altra creazione simbolica (come succede, per fare un esempio lampante, in Comma 22 di Joseph Heller). Decidere che una fazione è peggio dell’altra (gli inglesi sono peggio degli argentini) è proprio questo: una decisione sottoposta al consenso, frutto dell’esperienza e della valutazione, se possibile, dei livelli d’infamia.
A differenza della situazione che condizionava l’atteggiamento del “rammollito” (quando la guerra nazionale sfocia in guerra civile), qui la guerra nazionale si verifica dopo la repressione interna e replica alcune sue caratteristiche: discorso ambiguo, ipocrisia, corruzione. Per questo (e per la vertiginosa percezione delle trasformazioni storiche nella cultura mediatica) la delusione e l’infrangersi delle aspettative non avvengono dopo il conflitto: sono simultanee.
Però, in sintonia con il genere picaresco di guerra, la scoperta dell’inganno non porta, all’interno del racconto, alla denuncia, bensì all’adattamento e all’adozione di strategie analoghe. Tutto ciò suggella la figura di alto tradimento, vale a dire, sviluppa una pratica senza sensi di colpa, che si muove nella guerra come un pesce nell’acqua e che solo il discorso statale potrebbe etichettare come alto tradimento, concetto mai menzionato nel testo. Un ufficiale argentino che si congela una mano per percepire un buon vitalizio è oggetto di ammirazione: nelle parole degli “armadilli” si merita la grana perché ha avuto le palle. C’è di più: si hanno le palle per fare soldi. La scoperta che gli ufficiali inglesi fraternizzano con quelli argentini e che sono capaci di “scambiare” un armadillo con “qualcosa” (un altro bene) e farlo fucilare non spinge alla semplice condanna, ma all’elaborazione di una tattica neutralizzatrice, nella logica dello scambio: “Ecco perché vorrei che avessimo qualche inglese qui come armadillo, insieme a noi”.
Quando gli inglesi, per demoralizzare il nemico e favorire la resa, chiedono agli armadilli di diffondere la foto del tè che hanno preso insieme gli ufficiali inglesi e argentini, gli armadilli rifiutano e, per una coincidenza paradossale con quello che sarebbe stato un atteggiamento patriottico, ingannano i loro mandanti, non per risollevare il morale delle truppe, ma perché – sulla scia del “rammollito in congedo” – gli argentini non si arrendano, la guerra continui, ed entrambe le fazioni “si ammazzino fra loro”. Questo “loro” unificante (ma che allo stesso tempo segna la differenza rispetto alla terza posizione rappresentata dagli armadilli) è particolarmente significativo. Attenzione ai pronomi nei Pichiciegos: “Qualcuno starà bombardando forte altra gente”; o un bagliore, frutto della sensazione di estraneità assoluta che suscitano le isole: “Questa roba è loro”. Per la complessità asistematica del genere picaresco di guerra, tale percezione, nel romanzo, assume aspetti totalmente diversi.
IL MITO DEGLI ARMADILLI
In contrasto con la diffidenza verso i valori in gioco nella guerra ufficiale, si dipanano tutta una serie di elementi sensibili ed empirici che si focalizzano sulla credibilità della propria situazione bellica, “il fatto di essere stati lì”, forte contrasto con il film Los chicos de la guerra (un’altra volta i ragazzi) di Bebe Kamin: il colore della neve, la sensazione di freddo, il buio della tana e la fotofobia dei suoi abitanti, il rumore e l’odore degli elicotteri, la valutazione soggettiva del pericolo e l’orrore (maggiore davanti agli elicotteri e agli uomini sicuri di sé e implacabili, che scendono attraverso corde sottili, rispetto agli Harriers devastanti ma lontani).
Mentre sopra i valori non sono credibili, sotto, nel pozzo, sottoterra, nella tana degli armadilli, i saperi sono soltanto credenze, miti, opinioni. La storia è il risultato di voci e fatti presunti o dubbi: Gardel, uruguaiano o francese: Videla ammazzò (o no) quindicimila persone; Santucho festeggiava il 17 ottobre, a Tucumán, con trecento Peugeot nere; Firmenich, all’età di quindici anni “ha fatto secco il presidente”, “se l’è svignata” ed “è pieno di grana, ha soldi a palate” (cioè, ha le palle ed è degno di ammirazione); a Rawson ha “liberato mille guerriglieri che ci erano rinchiusi”.
Ma nei Pichiciegos si analizza anche il mito nel momento della sua nascita, o meglio, nella sua materialità, nella sua realtà di storia che si fa mito. La creazione del mito degli armadilli ne è il miglior esempio e costituisce, d’altro canto, un potente effetto letterario. Le truppe argentine ritengono che gli armadilli siano morti che vivono sottoterra (e, come in ogni mito, in parte è così). Nella prima edizione il testo riporta pichis ma ha come titolo pichy-cyegos (esistono dunque diverse versioni).
Lo sviluppo tecnologico inglese viene vissuto come stupore, show (“la Grande Attrazione”), miracolo, mito. E l’apparizione delle suore sullo scenario di guerra – come un segnale che il romanzo lancia sulla presenza, lì, di un’altra guerra, quella “antisovversiva” – suscita un dibattito sulla loro realtà fantasmagorica: questa volta gli armadilli, fra i quali c’è sempre stato consenso (su qualsiasi cosa “sono sempre stati tutti d’accordo”) si dividono. Ed è proprio con il dissenso tra credere e non credere che si dà la scena all’origine della narrazione dei Pichiciegos: la trascrizione del dialogo tra Quiquito (l’armadillo informatore) e lo scrittore.
Anche questo aspetto dà il proprio contributo alla rivendicazione della realtà empirica. Talvolta il verbo “dire” è sostituito da “registrare”, che rimanda a una terza istanza: ascoltare la registrazione. È l’esperienza della guerra che Quiquito riporta allo scrittore. Naturalmente, sulla copertina si leggeva ancora (nel 1983) Rodolfo Enrique Fogwill (dal libro di racconti Pájaros de la cabeza, come risultato di un processo di condensazione e mitologizzazione, l’autore è semplicemente Fogwill). Scrittore che chiamano Quique [diminutivo affettuoso di Enrique; ndr], al quale allude simpaticamente – in “Testimonianze”, un racconto della raccolta Mis muertos punk – la narratrice (una Orlando vernacolare che diventa Victoria Ocampo) in questo modo: “Si chiamava Quique e, sebbene fosse argentino e sociologo, era una persona perbene”.
La relazione informatore-scrittore, mediata dal registratore (da cui risulta che la narrazione è una transazione tra quelle precedenti) si acuisce tra il credere, il registrare (“annotare”) e il sapere. Lo scrittore sostiene di sapere, allorché l’informante lo nega: “Tu non sai”, “Non capisci nulla!”.
Quando, nella narrazione, intervengono portatori della funzione sociale del sapere, i sociologi, sono oggetto di scherno da parte dei soldati e della censura dei servizi segreti militari (li arrestano). Le informazioni della radio argentina sono un sapere falso, mentre la Chiesa manifesta la sua impostura (come i discorsi dei colonnelli) nel linguaggio, che è anche il termine di paragone che stabilisce la differenza socioculturale tra gli stessi armadilli: la “madre” diventa “la vecchia”, da “lavorare” si passa a “sgobbare”.
Di lì i nomi e soprannomi attribuiti ai soggetti. Quelli che comandano sono “re” e, per associazione, “Re Magi”. Il racconto li chiama a volte re, a volte Magi. Quando qualcuno confonde un riferimento a re “veri” con i capi degli armadilli, viene corretto: “con i re veri, coglioni”. C’è un armadillo chiamato “Galtieri” [Leopoldo Galtieri fu un militare coinvolto nel colpo di Stato del 1976; ndr] e un altro, sorpreso in una inconfondibile vicinanza a una pecora, soprannominato “Caprone”; García è detto “sorprendente” perché usa troppo questa parola. In definitiva, uno sarebbe come parla o ciò che dice. È il sistema popolare dei nomi, affidabile perché il suo acume emerge elaborando dati dell’esperienza. Per contro, la radio inglese è sospetta: nei suoi messaggi usa termini cileni (guaguas per figli, polola per fidanzata), ma sbaglia l’accento sudamericano, evidenziando la propria fallacia, la propria malafede.
Il risultato principale, in questo ambito, è il nome stesso degli armadilli. Da un lato rimanda totemicamente all’animale di cui gli armadilli sembrano riprodurre habitat e abitudini; dall’altro, la loro dispersione geografica coincide con una pluralità di nomi; inoltre, il romanzo, lavorando con grande efficacia alla mitizzazione, fa rientrare il termine in frasi che, accumulandosi, finiscono per imporre, come dato, l’universo degli armadilli: tenere qualcuno come armadillo, usare un armadillo con qualche scopo, in tono di rimprovero “farsi un armadillo” rispetto a “farsi un tipo”, avere odore di armadillo. Nello stesso senso, una frase perentoria è come la punta del iceberg di una deducibile paremiologia degli armadilli che l’allitterazione altro non fa che confermare: “El pichi guarda, agranda, aguanta” (L’armadillo mette via, s’ingrandisce, resiste). Bisognerebbe considerare inoltre la sfumatura fallica del termine armadillo, ripresa dal lunfardo, in una narrazione in cui sono tutti uomini.
EFFETTI
La tensione credere-sapere-capire si orienta in una direzione. Nella tradizione della letteratura di guerra, Sarmiento, nel Facundo, postula che Rosas, il mostro, sia la sfinge che formula l’enigma argentino. Risolverlo, come Edipo, comporta l’uccisione della sfinge. E, aggiunge Sarmiento, l’attuazione del programma liberale. Però nel genere picaresco di guerra non si tratta di sconfiggere alcun nemico. Pertanto, la funzione, diciamo, cognitiva, è al servizio di un’altra causa: salvarsi, sopravvivere. Rispetto al “sapere” derivante dalla divisione sociale del lavoro, di cui il testo fa la parodia (“… disse l’ingegnere. Lui se ne intendeva”; anche Viterbo: “La sapeva lunga, il padre era radicale”), sorge un sapere empirico finalizzato alla sopravvivenza: “se capisci ti salvi, altrimenti dalla guerra non torni”.
Questo pragmatismo del sapere inquina anche la dimensione del credere, perché non approda alla presunta realtà di ciò che si crede o è credibile, ma a una serie di impressioni ed effetti che, in ogni caso, ripristinano la realtà, che ormai è cambiata: “Comunque faceva impressione: anche se la storia che ti raccontano non ti impressiona e addirittura non ci credi, impressiona vedere quanto impressiona chi la racconta semplicemente a raccontarla. No?”.
Si vedano i versi di “El camino del cisne” (Il cammino del cigno), di Fogwill, tratti da El efecto de la realidad, del 1980:
Saluto l’armonia che nasce dal riconoscimento del miraggio dell’ordine, del miraggio dell’armonia.
Un successo. Posso barattare la mia vita per un successo: il mio cuore per un effetto nitido sul mio cuore.
RIFERIMENTI
In Fogwill è una consuetudine: abbondano le allusioni, le chiavi di lettura. Non sono particolarmente importanti, al di là di una serie di connotazioni legate a gruppi di appartenenza, strizzate d’occhio, sgambetti. C’è Zabaljáuregui (il poeta argentino), un colonnello di nome Víctor Redondo (un altro poeta argentino), il Turco (in un’epoca in cui lo scrittore di successo nel periodo della dittatura era Jorge Asís), ecc. C’è un grossolano riferimento a Puig: l’armadillo Manuel, che racconta film che nessuno ha visto al cinema e poi viene scopato da un inglese. Questo in un testo che in vari punti reca il marchio di Puig: la divisione in due parti con otto capitoli ognuna: l’elencazione “delle cose di cui si parlava di più” fra gli armadilli, che somiglia a quelle che in Una frase, un rigo appena servivano a caratterizzare i personaggi (la cosa più temuta, più desiderata); infine, la tecnica di riferire una storia (film, racconti). Qui la poetica di Puig sarebbe: de me fabula narratur: Toto, in Il tradimento di Rita Hayworth, si caratterizzava per il modo in cui trasformava i film, proprio come Molían in Il bacio della donna ragno. Lo scrittore personaggio dei Pichiciegos opera molteplici trasformazioni (pp. 106-109 dell’edizione italiana) sul racconto Los buques suicidantes (le navi che si suicidano) di Horacio Quiroga, ed è difficile scoprirvi un’intenzione diversa dalla sovrapposizione con il fantasma di Puig (che riappare nel tono iniziale del romanzo di Fogwill Una pálida historia de amor).
Contemporaneamente, la tecnica di riferire un racconto ha definito in parte, e in un determinato momento, la posizione di Fogwill nel panorama e nel mercato letterari argentini, all’interno di quel meccanismo che con alcuni colleghi abbiamo denominato – plagiando Carlos Correas e il suo La operación Masotta – operazione-autore. Nel 1985, nel quadro dell’ambigua promozione di uno scrittore (Alberto Laiseca, che nel testo di Fogwill Help a él [anagramma di El Aleph, il celebre racconto di Borges; ndr.] ritorna come Adolfo Laiseca, contaminato con Bioy [che di nome faceva appunto Adolfo], per riassumere successivamente le funzioni del Carlos Argentino Daneri dell’Aleph borgesiano), Fogwill propose al pubblico dei lettori del quotidiano Tiempo Argentino di considerare la qualità letteraria del racconto di Laiseca “El árbol Tulasi”. A questo scopo raccontò nuovamente il testo, e l’apparente favore si trasformò in una cancellazione: la versione di Fogwill sprigionava ed esibiva una scrittura scintillante che oscurava la riscattata versione originale.
VALORI
La letteratura del genere picaresco di guerra sembra estranea ai valori delle fazioni. A qualsiasi valore? Negli interstizi della storia si infiltrano e si sovrappongono altri valori. L’eroismo espulso da un lato ritorna nella fedeltà del Turco verso un soldato che gli salva la vita; nell’ironica proposta di Quiquito che mette in discussione l’idea di “riabilitare” i soldati delle Malvine, proponendo che siano loro invece a riabilitare quelli rimasti nella retroguardia: nel suo sogno di essere un abitante delle Malvine, senza inglesi né argentini che gli rompano le scatole; nell’interpretazione della bomba che massacra la fila di poveracci che vanno ad arrendersi, “come se all’improvviso Dio avesse deciso di castigare tutti gli illusi e i fifoni”.
Ma c’è di più. Il testo contiene riferimenti, apparentemente estranei alla storia narrata, che passano inosservati agli occhi dei personaggi. Il 29 maggio, giorno del cordobazo [importante movimento di protesta del 1969 nella città di Córdoba; ndr], è menzionato due volte. E in tono critico lo scrittore cita, davanti a Quiquito, un medico argentino “che consigliava ai giovani di lasciare le città e di andarsene in montagna”. Si dice che questo sia successo “molto tempo fa”.
Si tratta chiaramente del Che. E non è accaduto molto tempo fa, solo che nella memoria del nuovo “rammollito in congedo” appartiene a un passato lontano, remoto, che ogni tanto si manifesta come nostalgia, sconfitta, ironia, dolore.
Condividi