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Do you remember Osvaldo Lamborghini?

redazione Poesia, SUR

Pubblichiamo oggi un contributo di Massimo Rizzante, che ringraziamo, sul poeta e scrittore argentino Osvaldo Lamborghini (1940-1985), maestro di César Aira, che ha curato in Argentina l’edizione completa dei suoi romanzi e racconti.

Sconosciuto in Italia e autore di culto in patria, Lamborghini appartiene a quella schiera di autori “raros” che l’Argentina sforna senza sosta e che hanno influenzato in modo sotterraneo ma implacabile le nuove generazioni di scrittori.

L’occasione è la pubblicazione di un volume di poesie di Lamborghini tradotte da Rizzante, che scrive anche il saggio introduttivo. La nota è già comparsa il 21 gennaio su Nazione Indiana. Sul sito Zibaldoni e altre meraviglie è possibile leggere qui altri frammenti dell’introduzione e altre poesie della raccolta.

di Massimo Rizzante

In questi giorni sta per andare in libreria Osvaldo Lamborghini, Il dottor Hartz e altre poesie (Scheiwiller Libri). Oltre al mio saggio introduttivo sarà possibile leggere la Postilla di Alan Pauls. È la prima volta che in Italia viene pubblicata un’opera di Osvaldo Lamborghini, poeta e prosatore argentino. I lettori italiani non si devono sentire in colpa. Lamborghini è un maestro, anzi un classico segreto, anche in patria. Dopo Borges, è difficile trovare negli ultimi decenni un’opera poetica così originale e inclassificabile. Fatali e generose, violente e allo stesso tempo sentite come «disgrazie passeggere», disobbedienti a qualsiasi metrica e a qualsiasi genere letterario, le sue poesie incorporano mitologie personali, la psicoanalisi, la storia politica argentina degli anni ’60 e ’70, il surrealismo, l’epica gauchesca, il parlato con tutte le sue eresie popolari e tutti i suoi tic intellettuali.

Siamo lontani dai simboli e dalla metafisica di Borges. Il mondo di Lamborghini è materiale, violento e crudele come un coltello domestico che una volta preso in mano si trasforma in uno strumento di tortura. Parlando della letteratura argentina contemporanea come di una casa, Roberto Bolaño ha detto una volta che Lamborghini è una scatola dimenticata sulla credenza della cantina: una scatola piccola e piena di polvere. Ma se uno la apre ci trova l’inferno.

Ecco alcune poesie precedute da un frammento della mia introduzione, intitolata Come un coltello domestico che si trasforma in uno strumento di tortura…

Ci sono molte leggende sulla vita di Osvaldo Lamborghini, poeta e prosatore argentino nato nel 1940 e morto a Barcellona nel 1985. Una di queste afferma che fin da ragazzo avesse avuto nostalgia di un lignaggio aristocratico il cui blasone in realtà non riuscì mai a ricostruire. Soprattutto dopo che il padre, ritiratosi prematuramente dall’esercito, fallì in tutte le sue imprese, portando alla rovina l’intera famiglia. Un’altra è che lesse sempre e solo nella sua lingua: Rimbaud, Kafka, Dostoevskij, Hegel, L’ideologia tedesca di Marx e Engels, L’estrememismo, malattia infantile del comunismo di Lenin, Broch, Musil, Gombrowicz, Freud, Lacan… Sembra che già a vent’anni, dopo alcuni tentativi, avesse rinunciato a imparare qualsiasi idioma. L’epica gauchesca del Martín Fierro, Arlt, Leopoldo Marechal, Girondo, Borges, il lunfardo gli bastavano per crearsi una lingua originale? Probabilmente. Tuttavia, un’altra leggenda, diffusa da molti amici, riporta che Lamborghini fosse incapace di apprendere. Non si trattava solo del fatto che l’impazienza e l’incostanza gli facevano abbandonare rapidamente ogni proposito di studio. Lamborghini, come ha detto qualcuno, amava soprattutto una cosa: non far nulla.

Ma c’era dell’altro: un’inadeguatezza a svolgere una qualunque attività pratica. Lamborghini era ontologicamente incapace di assicurarsi le più elementari condizioni di sopravvivenza. Per questo non riuscì mai a trovare un impiego per più di qualche mese – nel sindacato, in una redazione di giornale, in un’agenzia pubblicitaria. Per questo tutta la sua vita fu un errare di casa in casa – genitori, sorella, amanti, amici – e di hotel in hotel, tra Buenos Aires, Mar de Plata, Pringles e, infine, Barcellona. E odiava star solo. In ragione forse del suo antico e disperso lignaggio, non si capacitava del perché qualcuno non dovesse prendersi cura della sua persona, visto che egli era completamente assorbito dal suo destino di scrittore. In fondo non chiedeva molto: un tetto, un letto, un po’ di cibo, una teiera di mate. Ma la modestia di tali richieste era immancabilmente accompagnata da un uso pantagruelico di alcol, sigarette, psicofarmaci («Per me non c’è che una maniera di bere: continuamente, o non mi interessa»). In questo regno Lamborghini era un monarca assoluto. E, per quanto consapevole dei guasti e dei disastri che provocava a se stesso e agli altri, non riuscì mai a smettere. In realtà, non poteva smettere né di bere né di leggere né di scrivere perché non aveva mai appreso. In altre parole, non aveva mai scelto.

Chi è che non può scegliere? Chi è che non conosce la libertà in quanto responsabilità di una scelta? Il bambino, questo essere polimorfo il cui corpo non è ancora separato dalla mente; che perciò è al di qua di ogni differenza sessuale, di ogni esibizionismo, di ogni perversione; che ama giocare, provare godimento; che lascia il piacere agli adulti, questi esseri retrospettivi che per tutta la vita cercano inutilmente di ritornare bambini, di godere come bambini: «la cultura occidental consiste en matar un niño, todos pensando todo el tiempo cómo matar al niño».

O, al massimo, colui a cui le porte dell’età adulta sono state ostruite, l’eterno adolescente, «el bebé muy viejo» (Hector Libertella): per il quale la sola autorità è la propria esperienza; l’unica umiltà il «delirio de grandeza»; che riproduce come un sismografo tutte i registri dell’espressione linguistica: la psicoanalisi, il gergo filosofico, il parlato con le sue eresie plebee e i suoi tic intellettuali; che li ripete, li nega, li spezza non tanto per accentuarne il realismo o il colore locale quanto per farne cogliere meglio l’artificio, la rappresentazione; i cui confini sessuali sono incerti; che mostra irriverenza nei confronti del mondo degli adulti: «tutta la letteratura può essere definita come irriverente. Lo scrittore non dice mai banalità»; che è sempre pronto a lanciarsi nelle braccia scheletriche della Storia, nei suoi senza nome (operai, sindacalisti), nelle cadenze del popolo; che come il popolo, a differenza dei suoi ideologhi, non guarda indietro: «L’estetica del populismo è la malinconia»; che ama le rivoluzioni, le discussioni nei caffé…

Allorché Lamborghini, a causa di qualche disavventura notturna o per una lite con un’amante, che non ne poteva più delle sue esagerazioni alcoliche, era costretto a trovare rifugio in un hotel o in una stanza d’ospedale, oltre ai suoi quaderni a righe non mancava mai di portare con sé l’essenziale: il Martín Fierro, Kafka e Rimbaud, le sue letture di sempre. In una di queste occasioni, nel 1981, scrive a un amico, qualcosa che assomiglia a una perfetta dichiarazione di poetica:

La mia opera è un brutto scherzo dell’insufficienza, non l’esibizione di non so quale superiorità o audacia nei confronti delle forme “tradizionali”. Il suo scenario è l’identificazione profonda in un segno: el pibe Rimbaud, il ragazzo Rimbaud, liceale premiato in versificazione latina che a Charleville (Pergamino) riceve la notizia della Comune di Parigi e parte in quella direzione, non verso la follia, ma piuttosto verso “l’inadeguatezza”.

Solo un anno prima, in una delle sue rare interviste, il quadro era già in piena luce:

Rimbaud dice me ne vado, bisogna intendere che viene; dalla prospettiva francese uno pensa che Rimbaud se ne vada e immedesimandosi se ne va con lui. No, tu non te ne vai con lui, te ne stai qui ad aspettarlo. Il fatto che se ne vada vuol dire che se ne viene da queste parti; in Africa, nelle pampa argentina, per Rimbaud è la stessa cosa.

Come el pibe Rimbaud, così el pibe Lamborghini, l’ultimo dei moderni… La sorte gli gioca un «brutto scherzo»: quello di appartenere a una generazione in cui, come scrive in una delle sue poesie più esemplari, Prosa cortada, regna «il Manierismo/Protervo, l’occultamento dalle gambe/Corte della mancanza di talento». E da questa «insufficienza» che è l’Argentina storica e immaginaria della sua opera («Proprio perché l’Argentina non è né una razza né una nazionalità, ma uno stile e una lingua, non si deve rinunciarvi»), l’ultimo dei moderni attende il suo capostipite in fuga da Charleville, in fuga dalla poesia. Da qui «l’inadeguatezza», non «la follia» che non è altro che «una segunda juventud», di Lamborghini. Come, infatti, far coincidere la poesia con la Comune di Parigi, con il traffico d’armi a Harrar, senza cadere nella trappola del compromesso politico («La historia no tiene autor») o nel silenzio? Che cosa significa scrivere poesia tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, aspettando Rimbaud in una stanza d’hotel di Buenos Aires?

POESIE
di Osvaldo Lamborghini

La perdizione, un pullover chiaro…

La perdizione, un pullover chiaro
con lo stemma dell’Università:
ma,
la perdizione non è universale.
È un sapere esclusivo per esseri
delicatamente e abiettamente particolari.
Io sono quello che ieri parlava e basta.
Ma ora è il silenzio:
il silenzio, disse lui come un prigioniero.
Di fronte a una solitudine troppo popolata
le sirene si trasformano in pietre
e gli uomini
gli uomini in sabbia iniqua.

Così il canto vibra in un abisso di promesse.

Le navi ancora una volta
e ancora una volta le lettere.
Chiglie nell’acqua che pulsa
come la corda più certa di una cetra.

Scaltra.

Ti amo Elena
consapevole della mia ignoranza.
Mi resta la cetra
mi resta l’acqua
l’asfissia di chi non ha nulla e canta
per far arrossire gli dei.

Nell’ebbrezza tutti i leopardi
si alimentano e nutrono, con latte di donna.
E le donne stralunano gli occhi
(tutto è detto).
Menzogna: io volevo dirle.

2

Ma mi sono interrotto perché
(questo perché!) siamo entrati in un fiume d’acqua
d’acqua scura
che invitava alla miserabile loquacità dei mercanti ubriachi
e alla gravidanza delle nobildonne
specialiste in patrimoni e dipinti, e
e niente. Una era mia madre
felice di incontrarmi di nuovo e io felice
di poterle dire: «Là nel mare ho sempre
sentito la moneta della tua mano sulla mia testa, il tuo peso leggero,
e invece ora che mi guardi, qui nel fiume,
mi spoglio del sale, dell’Eden del sale,
ed è il tuo corpo
il tuo corpo che m’inonda».

Pausa.
Respiro.

Parentesi.

Perché mento?
Se quel che desidero è che il tuo corpo mi avvolga
come un mozzo che contemplando le sartie
crolli sulla coperta della nave
per un innocente tremito di paura.
E tu, perfetta, te la ridi
e cammini
cammini per Buenos Aires
senza eresia sulle labbra
senza mai
dico mai
pronunciare la frase
«L’imbecille di tuo padre»

3

Ritorno dal mare e desidero
desidero
con i polpastrelli delle mie dita abituate alle corde
accarezzare il volto imbecille di mio padre.
Raggiante si volta verso di me,
per un istante abbandona lo splendore delle sue armi
e decide
pronunciamento
di non pronunciarsi
di procrastinare l’ultima eterna guerra
(solo per un istante)
per dirmi solo per un istante
«come stai, come stai e perché
da codardo hai interrotto il tuo viaggio?»
«Il fatto è, papà, padre, che sono omosessuale»

«Bah, figlio mio, questo
fra uomini non ha importanza».

4

Quanti fiori in un cuore avvizzito!

***

Juana Blanco davanti a un bicchiere di whisky…

Juana Blanco davanti a un bicchiere di whisky
Giocando come sapeva giocare lei
con l’intatta possibilità di non berlo:
Vergine lo svuotava in un sorso.
Poi sorrideva e poi ancora
Faceva tintinnare il ghiaccio nel cristallo.
Sono cose fondamentali:
Perciò prendemmo la decisione di parlarci –
Come una fiala di droga
Con cui lei sapeva giocare
A lasciar intatta, si osservi la nuance,
fino a domani o mai:
C’era a quei tempi
la certezza di nessun dopo,
Di sorridere a ciò che eravamo,
Tombe contigue e baci, baci illesi,
Palpabili fino all’estinzione.

Ora lo spazio volteggia lento,
È venuto il tempo e quel che rimane
di un perfetto dopo sentimentale.

Ce n’è ancora, ce n’è ancora molto
Ora non è né domani né mai.
Semplice,
è il passatempo, la poesia e la verità.
L’imene che canticchia una canzone
come se stesse davvero cantando.

***

Ancora palline di mercurio

1

Nella posizione di cantare, nella posizione di morire, perché vantarsi della morte, nella posizione di sottoscrivere il mio testamento mentre la pioggia scrosciante di imprudenza inonda il patio, mentre non riesco a comporre ma neppure dispero
vediamo un po’ questo coraggio
no: capisco, ma mi dispiace; la prossima volta sarò, come ho detto in passato, allorché posavo da espressionista nella metropoli peccati
malgrado questo andiamo, mondialmente e ancora
questa paura
perché? – mi piacerebbe che me lo dicessero, sebbene mi neghino un bacio, con le labbra – perché non sottomettersi a questa paura, a questo panico vero?
la pioggia continua
sono malato
sto aspettando il mio pasto (stratagemmi), il ritorno del carissimo, dell’affettuoso Sebas, che ho offeso per alcune miserabili pagine di quaderno, che ho trascinato nelle mie avventure cliniche, sottoposto a prove di suggestione e ipnosi, affidato alle cure dello Psichiatra Korps, e: vulcanizzato con una cascata di farmaci anali e: anche ai traduttori
pervertendo la sua essenza

Piove molto

Mi si chiedeva di scrivere, semplicemente questo: che scrivessi
e non ho potuto farlo
perché oltre
oltre
oltre
Bene, è così – già – quasi la slealtà di un’indecenza
affamato di teorie
come tutti i casi limite
l’orrore di aver tradito il patto (non ho scritto) e la logica violenta
del castigo che mi attende
essere letto
sarò ugualmente letto…
sebbene non abbia scritto!

2

Continua il dogma delle mie apparizioni

Su tutti i pulpiti di cedro
oggi sono cresciute le rose
suonano le campane
e si stampano annunci di nozze avventate.
Per quanto il semicerchio si trasformi in cerchio e il poeta in teologo
siamo una sola corruzione
ho detto a mia moglie
e ora verrà la pace dell’odio calmo
in camere a priori separate
Padre Carlo mi aveva confidato
che infliggendoci questo matrimonio
ci saremmo nutriti di una carogna
ma gli ho risposto che l’odio
l’odio è un sacramento
e che non posso permettermi il lusso di non scrivere versi
limando l’opera con l’innocenza di un monaco
stanco dei fallimenti pagani
Padre Carlo fuma
Anch’io fumo
Entrambi abbiamo le dita gialle di nicotina
L’arte doveva finire così
Come una gallina a cui un prete e uno psicologo hanno tirato il collo
E con l’aiuto del sesso
poi
la gente se ne va confusa
come…
bah! le epoche che precedono le guerre offrono questo genere di problemi
e se l’arte è sempre un happy end
il sacrestano alleluia! ha già preso le sue precauzioni
A Treblinka tutto filava alla perfezione: secondo giustizia
come Cristo indica dalla croce

Cristo fuma
Getta il mozzicone e un centurione
lo raccoglie per un’ultima tirata
Tra il calcagno e il miracolo

3

A causa della mia angelica incapacità di pregare
sono finito per diventare il trickster della poesia argentina (Argentina!)
sono finito anche se non mi annoio
vivo in famiglia e ho sperperato
tutto fino all’ultimo soldo
per quel cazzo di funerale di mio padre.
Sto pensando anche di sposarmi e di scrivere
(«O preferisco ritornare all’ospedale?»)
avanguardie di romanzi come ordina il mio medico e amante.
Chi si annoia è la Divinità
proprio lei
che mi ha costretto a scrivere auto da fé.

Certo, riderò bene e per ultimo
ma quando prenderò i voti
poterò l’albero
questo è un frammento
anche se i puntini di sospensione
– li detesto

Sarò lo
Lo Sposo Esemplare
Generosamente mi dissocio
Lascio il sesso ai retori

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