Gli amici di Caravan edizioni hanno portato in Italia il progetto di Traviesa, collettivo che ha creato un’inedita rete di scambi e confronto tra Argentina, Cile, Uruguay, Guatemala, Bolivia, Messico, Colombia, Cuba, Perù e Spagna, e che edita a cadenza trimestrale un’ antologia a tema, pubblicata in ebook: ogni numero presenta quattro racconti più l’introduzione di un quinto scrittore.
È di recente uscito il secondo numero in italiano, Trucho, che raccoglie i racconti di quattro autori (il cileno Diego Zúñiga, il messicano Federico Guzmán Rubio, il colombiano Javier González e l’argentino Hernán Vanoli), con la curatela dell’argentino Federico Falco. Abbiamo il piacere di pubblicare oggi il prologo alla rivista, nella traduzione di Vincenzo Barca, che ringraziamo.
«Trucho»
di Federico Falco
traduzione di Vincenzo Barca
La legna crepita mentre in lontananza si sentono i latrati dei cani e gli zoccoli dei cavalli e le grida dei contadini che, combinando la frusta alla sorpresa, radunano il bestiame. Rinchiudono la mandria e poi, mentre i cavalli caracollano al centro del recinto e i cani, eccitati, la lingua penzoloni, guardano il padrone in attesa dell’ordine, uno o due uomini a piedi separano i vitelli dalle madri. È più facile allontanare il vitello che spostare la vacca, cosicché l’uomo che alza la sbarra fa passare soltanto loro e nel recinto più grande restano le vacche ad alta produzione, improvvisamente sole, le mammelle gonfie di latte dondolanti tra la paura e la polvere sollevata dagli zoccoli. Alcune, le più selvatiche, sbuffano, e con le labbra disperatamente umide cercano, a testa bassa, di caricare gli uomini, che gridando si avvisano l’un l’altro e scappano arrampicandosi sulla palizzata. Poi fanno roteare le fruste e, a forza di colpi sui fianchi, ricacciano indietro gli animali infuriati.
Nel recinto accanto, i vitelli muggiscono quieti, uno in fila all’altro, guardando oltre la polvere, contemplando con una certa pacifica ottusità lo spettacolo, senza capire.
Gli uomini smontano dai cavalli e li lasciano pascolare sotto la montagna. Entrano nel recinto a piedi, con passo sicuro. Sorridono mentre il lazo di cuoio intrecciato scivola tra le loro mani. A un’estremità il lazo ha un anello di ferro che può infilzare l’animale, trasformandosi così in un’arma di cattura. La coordinazione perfetta del braccio e della spalla, il ritmo giusto del movimento dell’uomo, fa sì che il lazo si distenda nell’aria e rotei, aprendosi di scatto. Una precisa torsione del polso gli imprime forza a ogni giro, il lazo plana aprendosi ogni volta di più, un cerchio orizzontale che si allarga e fischia, un circolo perfetto, sintesi di tensione e di grazia. Quando il lazo è al punto giusto, gli altri uomini lasciano passare la fila dei vitelli, cercando di distanziarli perché almeno uno si stacchi dalla mandria e rimanga solo al centro del recinto. Allora, con una staffilata, il lazo si fionda a imprigionare il collo o le zampe anteriori dell’animale, che cade e si rivolta. Gli uomini gridano, lo raggiungono e gli si buttano addosso fino a immobilizzarlo. Lo tengono con il fianco a terra. Uno gli trattiene la testa, un altro le zampe, un terzo gli si siede sul costato. Lasciano libero il quarto posteriore.
Già da un po’, attorno al fuoco, si stanno scaldando sette o otto aste di ferro di un metro e venti di lunghezza, disposte a ventaglio. I manici di legno appoggiati al suolo, lontani dalla fiamma all’altra estremità, dove il ferro si surriscalda, immerso il più dentro possibile nelle braci, fino a diventare ferro rosso, incandescente. Appena l’animale è catturato, il padrone tasta i ferri – sono tutti uguali – e ne sceglie uno, il più caldo. Con passo tranquillo attraversa il recinto, il ferro oscilla nella sua mano. Quando arriva accanto al vitello, con un solo movimento deciso, appoggia il marchio sul fianco. L’animale grida. Il ferro affonda nella pelle dura. L’odore di peli bruciati fa pizzicare il naso ai presenti. È questione di un attimo; subito il vento si porta via l’odore e il padrone allontana il ferro dalla carne. Gli uomini si rialzano e lasciano che anche l’animale si risollevi, e si allontani, sgroppando. È stato marchiato. Il disegno della cicatrice perfetta che il ferro ha lasciato sulla sua pelle attesta che ha un padrone. E che è un padrone orgoglioso di possederlo.
La consuetudine di ferrare o di marchiare a fuoco o con uno stesso ferro incandescente tutti gli animali appartenenti allo stesso proprietario risale all’antichità: gli egizi lo facevano e l’avevano appreso da qualche civiltà precedente, i romani lo facevano e lo avevano imparato dagli egizi.
Pare che sia stato creato a Roma, per la prima volta, un registro pubblico di marchi, una specie di indice nel quale veniva annotato il nome del proprietario a cui apparteneva ogni singolo simbolo che il ferro lasciava sulla pelle dell’animale. Da allora gli allevatori s’impegnano al massimo nel disegnare il simbolo con cui marchieranno il loro bestiame, perché è un segno che li rappresenterà. Può trattarsi di una forma molto semplice – una lettera, una mezzaluna, due righe parallele – o di una estremamente complicata – una figura che rimandi a un paesaggio particolarmente amato, o a una storia familiare o a una peculiarità fisica del proprietario del marchio, un codice segreto, una semplificazione della sua araldica. In ogni caso, è sempre lo Stato o una sua emanazione che assicura e garantisce questo vincolo tra simbolo e proprietario. Il procedimento è cambiato molto poco nell’arco dei secoli: in linea di massima, gli allevatori mandano i loro disegni a un Ufficio Generale dei Marchi, che verifica che il marchio non esista già e che non sia troppo simile ad altri preesistenti, ne autorizza l’uso e registra i dati del proprietario. Gli allevatori ricorreranno poi a un maniscalco, il quale plasmerà il disegno su un ferro che sarà utilizzato come sigillo a fuoco.
Gli animali venivano marchiati, inizialmente, per identificarli come proprietà dei rispettivi padroni e per evitare i furti, ma presto un’altra funzione si aggiunse a quella originaria. Man mano che determinati proprietari cominciavano a diventare famosi per la qualità dei loro capi, il marchio che li identificava si caricò di un valore simbolico aggiuntivo. Altri allevatori, che desideravano migliorare la qualità delle loro mandrie, compravano riproduttori dai proprietari più prestigiosi e li inserivano tra i loro. Il marchio che l’animale portava sul fianco certificava l’investimento che l’allevatore aveva fatto e legittimava l’immissione di nuovo sangue. Il marchio divenne così un segno di distinzione e di differenziazione. Alcuni marchi diventarono più importanti di altri e comprare animali con quel marchio dava prestigio e valore aggiunto ai propri capi di bestiame.
Presto qualcosa di simile cominciò a verificarsi con determinati artigiani – o corporazioni di artigiani – che iniziarono a marchiare gli oggetti che producevano; un modo per testimoniare chi era stato il loro autore. Ogni artigiano, o ogni corporazione, aveva un marchio particolare associato al suo nome: questo era il segno della sua paternità artistica e serviva a distinguerlo dagli altri. L’inizio della storia dell’arte e l’inizio del concetto di “autore” risiede nel riconoscimento di questa distinzione da parte dei compratori – il pubblico.
L’evoluzione di questo principio primitivo e semplice è quello che dà origine ai marchi commerciali moderni e al concetto di marchio registrato. A partire dal XIX secolo e sotto l’impulso della rivoluzione industriale, in Inghilterra e negli Stati Uniti le compagnie produttrici di beni cominciarono a registrare presso un ufficio statale numeri e simboli che le distinguevano da altre compagnie e che attestavano che i prodotti immessi sul mercato erano stati effettivamente fabbricati da loro. Quasi subito questo brevetto legale cominciò a essere considerato una proprietà della stessa compagnia. In altri termini, come proprietaria di quel marchio registrato – di quell’insieme di lettere, di quel simbolo o di quella frase –, solo la compagnia in questione poteva utilizzarlo, in modo che i consumatori identificassero immediatamente la provenienza di quei prodotti. E soprattutto in modo che quei prodotti diventassero familiari e fossero introdotti in modo continuo e regolare nella loro vita quotidiana .
Una nuova disciplina, la pubblicità, si incaricò di associare valori immateriali a quelle marche, nel tentativo di creare l’illusione, nella mente dei compratori, che quei valori potevano essere trasmissibili e che, consumando i prodotti di un determinato marchio, si sarebbero appropriati – o avrebbero potuto appropriarsi – di quegli stessi valori, incorporandoli nella propria personalità (o in quella che desideravano fosse la loro). I fabbricanti degli orologi “Omega”, per esempio, fin dal principio del secolo, associarono i loro orologi a valori di fedeltà, affidabilità, robustezza e resistenza. L’immagine della ditta puntava sull’altissima qualità dei suoi prodotti, ma anche sull’ acquisizione di nuovi clienti, ricordando ogni volta ai possibili acquirenti che durante la Prima Guerra Mondiale i suoi orologi erano stati scelti come orologi ufficiali da tutte le unità combattenti dell’aviazione britannica e statunitense. Il tiro fu alzato nei primi anni ’60, agli inizi della corsa allo spazio: l’Omega Speedmaster Professional fu l’unico orologio a superare una lunga serie di prove – temperature estreme, urti, assenza di gravità, esposizione a campi magnetici – e fu scelto dalla NASA per accompagnare gli astronauti nelle missioni spaziali. Conosciuto da allora come Moonwatch, il modello di Omega fu il primo e unico orologio a scendere sulla luna. Un orologio simile, affidabile persino nelle situazioni più estreme, può essere usato solo da uomini che si collocano al di sopra del resto degli uomini: guerrieri, astronauti e, dal 1995, l’anno di Golden Eye, anche da James Bond.
Il grosso degli acquirenti della marca, tuttavia, è ben lontano dall’essere Neil Armstrong o una superspia britannica. In molti casi, le potenziali prestazioni offerte da un Omega Speedmaster Professional superano di gran lunga le necessità di chi lo usa, che non sa come utilizzare la strumentazione di cui l’oggetto è dotato. Ma esibire al polso un orologio Omega permette al suo proprietario di vivere un’innocente illusione: quella di essere un uomo così importante, così estremo, così capace di qualsiasi prodezza fisica da aver bisogno di un orologio che sia all’altezza delle circostanze. Ovviamente la funzione dell’orologio è anche quella di inviare segnali a chi lo vede al polso del proprietario che, per il solo fatto di portarlo, si ammanta di un alone quasi magico: indossando l’orologio indossa anche – e li assume come suoi – i valori che la marca veicola.
La marca, l’immagine della marca, ha talmente caricato di significati il prodotto che l’orologio si è trasformato in qualche modo in un oggetto meraviglioso, capace di assicurare potere e di tutelare chi lo abbia con sé. È questo ciò che avviene in “Omega”, il racconto di Diego Zúñiga incluso in questa raccolta. Il protagonista trova un orologio nel cassetto del padre. Per lui, consumatore sprovveduto e ingenuo, quell’orologio diventa non soltanto una proiezione dell’immagine del padre, ma anche un oggetto in grado di proteggerlo e di renderlo popolare tra i compagni, perché è l’orologio che ha resistito a migliaia di prove e potrà quindi resistere a tutte quelle che verranno. Il suo orologio lo salverà in una situazione estrema e per questo il solo fatto di possedere l’orologio meraviglioso lo rende un sopravvissuto e un eletto, qualcuno che si innalza sugli altri.
Nel sereno e nostalgico racconto di Zúñiga tutto gira intorno ai poteri di quell’orologio stretto tra le mani del protagonista e l’oggetto funziona allo stesso tempo come reliquia e come antidoto. La spietata lucidità del primo amore illumina la scena e genera il contrasto necessario: lo sguardo della donna amata sull’oggetto meraviglioso porta con sé la fine dell’infanzia, o per lo meno la fine dell’innocenza.
II
I diritti di registrazione del marchio implicano il diritto su un nome, una parola o una frase, un logo, un simbolo, un disegno o una qualsiasi combinazione di questi elementi. Il loro insieme costruisce un’identità – di marchio, ma pur sempre un’identità. Quest’identità non risiede soltanto nel simbolo che la rappresenta, ma anche in un’altra serie di elementi di cui ogni azienda deve tener conto: colori, sapori, odori e sensazioni associati al consumo dei suoi prodotti e soprattutto all’acquisto di quei prodotti. Allestimento dei negozi, musica adeguata, tipo e atteggiamento dei commessi. Una buona marca non lascia niente al caso e l’esperienza dell’acquisto si trasforma in un’esperienza straordinaria e assolutamente coreografica: il compratore diventa un attore che interpreta il ruolo dei suoi desideri e il negozio, e tutto ciò che circonda l’acquisto, uno scenario che fa da cornice alle sue fantasie. I retroscena di questa costruzione sono quelli descritti nel racconto “La marca” di Javier González. La costruzione e l’ascesa di una marca è la cornice formale che l’autore sceglie per raccontare la sua storia. Nel racconto tutto gira intorno a quel simbolo che non ci sarà mai dato conoscere, ma che accoglie e dà rifugio – oltre che senso – alle vite di una serie di personaggi. Ognuno ha i suoi problemi e le sue abitudini. Viaggiano, tornano, si innamorano, litigano fra loro, si divertono, piangono, festeggiano e si lamentano ma, nel fraseggio rapido e distaccato del narratore, i personaggi svaniscono in fretta come individui. L’unica cosa che importa è “la marca”, un’entità immateriale ma onnipresente che tutti costruiscono e sostengono; che, come in un branco, non corrisponde a nessuno di loro, eppure li rappresenta tutti allo stesso tempo; che li costituisce come comunità ed esiste solo perché loro sono disposti a conferirle esistenza. Come se stessimo leggendo un caso tipo in un manuale di marketing per l’impresa, il narratore di González, riportando aneddoti e piccoli traguardi nella vita quotidiana di un’azienda dedita alla produzione e alla vendita di capi d’abbigliamento in una città latinoamericana innominata – ma che si suppone sia Bogotá –, ci permette di assistere alla costruzione interna, agli impicci e agli imbrogli, alle decisioni fortuite o a lungo meditate che inseguono un solo scopo: presentare una determinata immagine – originale, sofisticata, solida – ai potenziali consumatori, al fine di vendergli i propri prodotti. Lentamente, nello stillicidio e nell’inventario delle vite – con tutte le miserie e le fortune – dei vari personaggi che si nascondono dietro “la marca”, González raggiunge l’obiettivo di sabotare la marca stessa, umanizzandola.
D’altro canto, in diversi punti il racconto sottolinea e chiarisce che la costruzione di questa marca è una costruzione latinoamericana. “Copiava, ma con gusto”, si dice a proposito di Marilyn, una delle stiliste star del marchio. Marilyn viaggia e copia disegni “italiani, spagnoli, francesi e nordamericani”. Marilyn percorre le principali capitali del mondo occidentale per appropriarsi dei disegni di altre marche e presentarli come propri in Colombia. In questo contrabbando, in questo togli-e-metti, è lecita la domanda se questa marca sia una marca “tarocca”, se l’azione che sta compiendo Marilyn vada sotto il nome di “taroccare”.
III
“Trucho”[1] è una di quelle parole scivolose e difficili da incasellare. In Argentina e Uruguay è di uso comune e ingloba universi che a volte si sovrappongono e a volte no. Da una parte la parola rimanda alla falsificazione o alla copia di cattiva qualità (e, per estensione, a qualunque cosa si consideri di cattiva qualità). Dall’altra parte è collegata al mondo dell’illegalità. Marilyn, il personaggio del racconto di Javier González, per esempio, si appropria soltanto dei disegni e li presenta come suoi, ma ci sono migliaia di oggetti taroccati che non solo copiano i disegni ma si appropriano illegalmente anche dei diritti di proprietà e di commercializzazione di un certo marchio – un marchio noto, solido, con valori appetibili – e se lo auto-attribuiscono in vista di una più facile commercializzazione. È un fenomeno che si ripete in qualsiasi città, paese o luogo del pianeta. A Buenos Aires, al mercato La Salada, si possono trovare false scarpe Adidas, false magliette Puma o falsi jeans Levi’s. A New York, per strada, di fronte al MoMA, i turisti si fermano a comprare portafogli che replicano gli ultimi modelli di Dolce & Gabbana. A Lima, nel mercato Polvos Azules, si possono acquistare copie pirata dei libri delle case editrici Alfaguara, Planeta o Anagrama quasi identiche agli originali, e a Pechino non è difficile comprare falsi iPod, falsi iPad e falsi iPhone.
In questo senso, il “tarocco” non è esattamente uguale a una copia. Il problema dell’“aura” prospettato da Benjamin non entra in gioco quando si parla di cose taroccate, in quanto l’aggettivo si applica a oggetti e situazioni che provengono e circolano a partire da una produzione industriale, massificata. Taroccare non significa copiare la cosa in sé, ma il marchio che legittima quella cosa. Comporta problemi che riguardano il copyright – cioè il diritto di riproduzione e il trattamento di copie che esistono indipendentemente da questo diritto – più che la replica in sé e per sé.
Taroccare equivale ad appropriarsi di un diritto di cui non si dispone, diritto su un simbolo o su una serie di valori associati a quel simbolo: lusso, prestigio, appartenenza a una classe sociale, distinzione. In questo senso l’atto potrebbe essere in qualche modo considerato come un ulteriore anello nella tradizione del genere picaresco. È una scorciatoia e allo stesso tempo una burla. Comprare un oggetto taroccato vuol dire accorciare la strada e sgattaiolare, svignarsela, cominciare ad appartenere, o dare l’impressione di appartenere – “appartenere ha i suoi privilegi” era lo slogan dell’American Express – a un gruppo esclusivo nel quale diversamente non sarebbe possibile entrare.
I conflitti che comporta quest’appartenenza sono terribili e contraddittori – ed è con essi che gioca Federico Guzmán Rubio in tutto il suo racconto “Las Mañanitas”. Vi si narra la storia di due immigrati messicani che, stabilitisi negli Stati Uniti, sono costretti a decodificare e a capire quali sono i “valori” che il nordamericano medio associa solitamente al “messicano” per potersi comportare di conseguenza. Che cosa ci si aspetta da loro? In che misura la “messicanità” può essere vista come una serie di attributi di un marchio a cui bisogna adeguarsi e/o che conviene rispettare? Guzmán Rubio guarda da una prospettiva originale cosa bisogna “falsificare” e mette i personaggi del racconto di fronte all’ombra della loro “immagine di marchio”.
L’etimologia di “trucho” e “truchear” è poco chiara. In alcuni casi si segnala una derivazione dalla parola italiana “trucco”, riferita soprattutto a trucchi con le carte o a pratiche di magia, in cui ciò che accade appare come un’illusione che si regge su artifici che restano nascosti allo sguardo dello spettatore.
La genealogia della parola rimanda anche a “trucha”, uno dei modi in cui nel lunfardo di Buenos Aires è chiamata la faccia. L’associazione originale con il pesce omonimo[2] deriva dal soprannome che si dava alle persone con le labbra grosse e si è poi generalizzato per riferirsi al viso. L’idea veicolata dalla parola è in questo caso quello della “faccia tosta” o “faccia di bronzo”, ovvero di una persona sfacciata, che può imbrogliare o commettere qualsiasi azione disonorevole senza nessun tipo di rimorso.
Per ultimo, si potrebbe metterla in relazione con la parola araba targiuman (in castigliano truchimán, in italiano turcimanno), che originariamente designava un interprete o un traduttore, un individuo che mediava tra mercanti di diverse provenienze e che spesso faceva imbrogli, frodando o favorendo una delle due parti. È in questa breccia fra due lingue, fra due culture che i personaggi di Guzmán Rubio cercano in qualche modo di tenersi a galla. Come i fiori di plastica che nel racconto vengono sostituiti da fiori veri e come i fiori che si ricevono dalle mani di una persona amata, che devono essere messi da parte per far posto ai fiori ricevuti dalle mani di un falso amico, i personaggi si vedono costretti a percorrere strade quanto meno ingrate, in cui il confine tra la furbizia e il tradimento diventa labile e genera conflitti.
IV
Sebbene in Argentina trucho abbia una storia propria, la parola è caduta per lungo tempo in disuso e per moltissimi anni non ha fatto parte del linguaggio quotidiano. Esisteva il “fasullo”, correlato per lo più alla copia di cattiva qualità che pretende di avere l’aspetto dell’originale. Esisteva l’“imitazione”, in cui lo scarso valore monetario presupponeva una qualità carente. Esisteva il “bidone”, collegato a una cosa dal cattivo funzionamento. Esisteva la “cafonata”, in cui un materiale nobile veniva sostituito da un altro più moderno ma di fattura sintetica. Finché all’improvviso, un giorno, senza che nessuno sapesse come, il trucho, il “tarocco” resuscitò e fu sulla bocca di tutti. Accadde tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 e di solito si mette in rapporto con il sorgere del menemismo.[3] Nel 1992 la parola era così popolare da guadagnarsi le prime pagine dei quotidiani. Nel marzo di quell’anno, durante le votazioni alla Camera dei Deputati per decidere la privatizzazione dell’Azienda Statale del Gas, il partito peronista schierò sui banchi un falso deputato che, con il suo voto, fece ottenere la maggioranza necessaria al provvedimento. Lo scambio fu riportato dai giornali che il giorno dopo ripetevano a tutte lettere un neologismo: “diputrucho” (“deputarocco”).
A partire da quel momento qualunque cosa poté ricevere la stessa qualifica. Una persona o una cosa possono essere “tarocche”. Nel caso di un’azione si dirà “taroccare”. Il narratore di “Due spade laser”, il racconto di Hernán Vanoli, offre questa definizione eminentemente argentina – se non addirittura porteña – della parola, a partire dalla sua diffusione negli anni ’90. La parola “trucho” ha due significati – dice. – Uno è “difettoso”, “fallato”, ossia che non soddisfa le aspettative del consumatore. L’altro è legato all’idea di “copia”, cattiva o scadente, rispetto a un originale investito di prestigio. Il secondo significato ha un’origine di classe che si è diffuso attraverso la televisione e ha partorito il primo come se fosse un figlio alieno. […] In realtà sarebbe corretto attribuire il termine a qualcosa che sta a metà tra un oggetto che non funziona e uno che emula un originale ma che non è necessariamente non-funzionante.
Nel suo racconto, acido e oscuro, inevitabilmente legato a Buenos Aires, Vanoli porta all’estremo questa idea di emulazione mimetica, di copia che si appropria di qualcosa, anche se, in questo caso, la copia non si impossessa di un marchio, ma di un’identità. Vanoli estrapola l’idea della falsificazione fino a immaginare un futuro prossimo – o una realtà parallela – in cui identità reali e virtuali si sdoppiano, in cui cloni e originali interagiscono quasi simbioticamente, in cui il “tarocco” si appropria finalmente dell’ultima frontiera, e regna sovrano.
In questo senso, il racconto di Vanoli è forse il più positivo rispetto all’idea di “tarocco” di tutta la raccolta: il fatto non è necessariamente punito, benché rappresenti un pericolo. Vanoli non esalta la bellezza o l’utilità del “tarocco”, ma ne lascia intravedere le potenzialità.
V
Nelle arti plastiche, da Duchamp in poi, l’appropriazione è un procedimento accettato e largamente – se non addirittura eccessivamente – praticato. Impegnata continuamente a riflettere su se stessa e a infrangere i propri limiti e tabù, l’arte contemporanea trabocca di opere che mettono in discussione il concetto di autorialità, di proprietà, di originalità e di plagio. In qualche caso, come nelle citazioni di Topolino o dei supereroi della DC Comics che fa il pittore Raymond Pettibon, sembrerebbe che le uniche motivazioni dell’artista siano la ricerca dell’effetto scandalistico in se stesso, un ennesimo tentativo di épater le bourgeois. In altri, come nelle serie di Andy Warhol dedicate a Marilyn Monroe, l’appropriazione dell’originale – come procedimento concettuale – scompare dietro la potenza iconica dell’opera. Le foto originali che Warhol utilizzò come base per le sue serigrafie avevano un autore (Gene Korman), ma se, appropriandosene, Warhol metteva in discussione – o sfidava – quella paternità, l’intenzione si vide rapidamente superata dal successo dell’opera: quando oggi pensiamo a Warhol, la serie di serigrafie dedicata a Marilyn ci viene subito in mente. Fra questi due esempi estremi si possono tuttavia enumerare moltissimi casi in cui l’opera stessa obbliga lo spettatore a ripensare le categorie: l’appropriazione in sé diventa il soggetto – il concetto – dell’opera ed è presentata come una sfida allo spettatore.
Forse per questo è più stimolante riflettere sul concetto di “tarocco” dal punto di vista delle arti visive che da quello della letteratura. Gli esempi di appropriazione in letteratura, per lo meno per quanto riguarda la letteratura latinoamericana, sono molto più limitati. In parte per via di un’antica e forte tradizione legata agli aspetti legali del diritto d’autore, l’idea di proprietà in quanto creazione originale – e la sua controparte, l’idea di plagio – è fortemente radicata nel mondo letterario e, quando si presentano casi che potrebbero mettere a rischio questo primato – da Michel Houellebecq[4] a Sergio Di Nucci[5] – questi innescano di solito bombe scandalistiche (con tanto di assegnazione di colpe e discrediti) più che diventare occasioni per riflettere sulla questione.
Ciò nonostante potremmo affermare che l’idea del plagio compare spesso come procedimento creativo nell’opera di un autore centrale per il canone latinoamericano: Borges. L’esempio più chiaro è il suo “Pierre Menard, autore del Chisciotte”. In questo racconto Borges gioca con le possibilità della copia (o, se si vuole, del plagio). Il racconto non è altro che una difesa che un discepolo di Menard scrive dopo la morte del romanziere. È un testo di parte, interessato, il cui unico intento è quello di negare che i capitoli del “Chisciotte” scritti da Menard siano una copia. (Inutile specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell’originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero – parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel de Cervantes).[6] Pur non avendo prove per difendere la sua posizione (Menard le ha distrutte), il discepolo scarta l’ipotesi della copia in quanto procedimento volgare, indegno del suo maestro, e propone come lettura non l’appropriazione del testo, ma l’appropriazione di un autore: Menard non voleva appropriarsi dell’opera di Cervantes, Menard voleva diventare Cervantes. La funzione del testo è quella di riparare a un’omissione e di riabilitare il nome di Menard (o rivalutarlo) spiegando perché quella di Menard non è un’opera “tarocca”; ma, come in ogni difesa, la voce del narratore è soltanto una voce arbitraria e soggettiva e, negli interstizi del testo e nelle sue strategie retoriche, lascia intravedere altre voci, quelle dei “detrattori” di Menard, che lo considerano un plagiario. Benché per Borges sia evidentemente più interessante l’idea della casualità metafisica di quella del plagio, è affidato al lettore il compito di decidere a chi credere e a chi no.
Borges non è l’unico autore latinoamericano interessato al tema (anche se è ovvio che Borges non avrebbe mai utilizzato il termine “tarocco” per alludervi). Anche César Aira e Mario Bellatín flirtano con il concetto di “tarocco”, pur utilizzandolo sempre come motivo e non come procedimento formale – così come del resto avviene nei racconti di questa raccolta. È più difficile, al contrario, trovare nella letteratura latinoamericana un autore che arrivi agli estremi di Jonathan Lethem che, nel suo saggio L’estasi dell’influenza[7] riflette su questioni come il plagio, il copyright e il copyleft, la paternità e l’appropriazione di un’opera attraverso un intreccio di brani tratti da opere di altri autori, quindi attraverso un’appropriazione. O del poeta Kenneth Goldsmith, che ha fatto dell’appropriazione un tema centrale sia nei suoi saggi che nelle sue opere più “creative”. Uno dei suoi libri più polemici è Day (2003), nel quale, secondo le sue stesse parole, ha cercato di creare un’opera letteraria intervenendo il meno possibile, trasferendo il testo da un supporto all’altro (da un giornale a un libro).
A questo scopo, Goldsmith ha ribattuto tutte le parole (nessuna esclusa) apparse nell’edizione del New York Times del 1° settembre del 2000 e le ha pubblicate in un libro di 836 pagine.
Gli sguardi apologetici riguardo all’azione del “taroccare” che si possono trovare nell’opera di Lethem e di Goldsmith sono comunque minoritari. Anche se il “tarocco” rimanda a prodotti popolari, economici, scadenti, difettosi e anche se queste caratteristiche sono condivise – per fare degli esempi – dal cinema di serie B o dalla narrativa pulp, nel mondo letterario in genere il “tarocco” non funziona come altre categorie che potrebbero supporsi simili, come il kitsch o il camp. In alcuni casi, il tentativo dell’oggetto “tarocco” di non apparire tale suscita in uno sguardo “colto” (nello sguardo di chi, in un modo o nell’altro, non ha bisogno di prodotti “taroccati” perché già appartiene a un certo ambiente) una simpatia e una tenerezza che si possono fondare solo sul presupposto che il “tarocco” racchiude in se stesso: il desiderio di essere qualcosa che non sarà mai. Tuttavia questo sguardo non è così forte da rendere l’atto o l’oggetto “taroccato” un procedimento creativo convenzionale. Si ferma alla contemplazione di quel particolare tipo di bellezza che l’atto contiene. È probabile che la causa risieda nel fatto che il procedimento che potrebbe comportare uno “sguardo tarocco” rompe una barriera che lo “sguardo kitsch” non infrange: la barriera della legalità. Il “tarocco” attenta contro lo Stato, contro le leggi sulla proprietà che lo Stato regola. Destabilizza un ordine sancito collettivamente. In questo senso, è pericoloso, e, come accade nella maggior parte dei racconti qui presentati, chi osa servirsi di questo potere sembra soccombere a questo pericolo (o subisce una punizione per averlo corso).
Nel gusto per il cinema di serie B (e nello sguardo che lo accompagna) è possibile riconoscere la nostalgia per un tempo perduto. Nelle citazioni e negli omaggi che Almodóvar o Tarantino o Tim Burton fanno nei loro film ai B-movies si sovrappongono il desiderio di distinguersi – esprimendo pubblicamente apprezzamento per qualcosa generalmente considerata di scarso valore o addirittura dimenticata – e la nostalgia per un tempo perduto in cui quelle pellicole dalla trama discutibile e sfilacciata, fatte con un budget minimo, funzionavano con un pubblico ancora ingenuo e poco smaliziato, un pubblico disposto a credere a un’illusione. È nostalgia per un tempo perduto – il tempo dell’infanzia. Ma anche per uno sguardo perduto – lo sguardo innocente. L’oggetto in sé, l’oggetto primigenio che suscita tenerezza, non è cambiato, rimane lì immutabile. Quel che è cambiato è lo sguardo di chi osserva, che è passato dall’innocenza alla durezza e che, di fronte all’oggetto, può optare solo per l’ironia o per la venerazione.
Il problema, nel “tarocco”, è che il divario temporale non esiste. Non c’è posto per la nostalgia. Il “tarocco” è puro presente perché non è fatto per durare. In questo senso, il “tarocco” è pura pretesa e la pretesa in generale non suscita simpatia, ma condanna.
Il “tarocco” è presente e illegalità: una sovrapposizione feconda ma rischiosa. Viene contestato il principio che una persona possa essere il proprietario di un oggetto o di un’opera in quanto suo creatore, suo autore. Questo fa emergere una serie di domande scomode, perché ci riguardano direttamente: come si definisce un creatore? esistono creatori totalmente originali? come si rapporta un creatore con l’opera dei suoi predecessori e dei suoi congeneri? da che punto in poi una contaminazione diventa un plagio, una citazione un furto, un omaggio un’appropriazione?
Il diritto di proprietà – la legge – segna un limite assolutamente netto in questo continuum sfuggente e complicato. L’originalità prospera nella tensione fra innovazione e continuità: è proprio lì, in quella tensione, che si insinua l’idea del “tarocco”, forse soltanto per un’azione di disturbo.
Nei racconti di questa raccolta, quattro giovani autori latinoamericani presentano differenti approcci alla tematica del “tarocco” e alla sua necessaria controparte, l’oggetto (o il marchio) originario che viene “taroccato”. È superfluo dire che si tratta di quattro autori che ammiro e che leggo con piacere. Le loro voci sono diverse, ognuna nella sua particolarità; ognuno di loro si avvicina alla letteratura da una tradizione e da una realtà ben definita e personale. Per alcuni di questi scrittori il concetto di “tarocco” occupa un posto centrale nel racconto qui presentato e, allo stesso tempo, è un’idea – o una zona d’interesse – che si può rintracciare nel resto della loro opera. Per altri, invece, è un’apparizione isolata, episodica. Lo stesso vale per questi racconti: in alcuni funziona come il nucleo su cui poggia l’intera storia; in altri appare tangenzialmente, più come atteggiamento o come possibilità che come perno della storia. In tutti i casi, questi racconti forniscono l’occasione per ripensare il tema del “tarocco”, per problematizzarlo e portarlo alla luce. C’è da augurarsi che servano a innescare una discussione. Al di là di questo, è una grande gioia per me aver potuto riunire questi quattro autori in un solo volume e mi farebbe piacere se, una volta terminata la lettura di questi racconti, il lettore corresse a cercare altri racconti, romanzi e libri di questi scrittori. In questo senso, il “tarocco” è solo una scusa per presentare al pubblico quattro eccellenti narratori.
[1] La parola “trucho” corrisponde al nostro “tarocco”, benché non siano due termini completamente sovrapponibili. Abbiamo scelto, nonostante questo scarto di significato, di tradurre “trucho” con “tarocco” e derivati dove possibile, così da rendere più fruibile il testo. [NdT] [2] In italiano, trota. [NdT] [3] Carlos Menem fu Presidente dell’Argentina dal 1989 al 1999, nel periodo dell’iperinflazione, che affrontò con una serie di riforme neoliberali e di privatizzazioni. [NdT] [4] Lo scrittore francese Michel Houellebecq è stato accusato di plagio per aver utilizzato, nel suo romanzo La carte et le territoire (2010) stralci di voci di Wikipedia. [5] Il libro Bolivia Construcciones, con cui l’argentino Sergio Di Nucci aveva vinto il premio La Nación- Sudamericana nel 2006, fu accusato di plagio (avrebbe copiato dal romanzo Nada della spagnola Carmen Laforet). Il premio gli fu revocato e il fatto innescò un’accesa discussione negli ambienti intellettuali argentini intorno al concetto di originale e di copia. [6] In J.L. Borges, Finzioni, Einaudi, Torino, 1995 (trad. di F. Lucentini). [7] J. Lethem, L’estasi dell’influenza, Bompiani, Milano, 2013 (trad. di G. Pannofino).Condividi