Negli ultimi tempi si è assistito a un rinnovato interesse dell’editoria italiana per la letteratura argentina. Proviamo a renderne conto ricordando alcune recenti pubblicazioni.
di Raul Schenardi
Tempo fa una cara amica addentro alle cose editoriali mi raccontò un episodio che mi diede da pensare. Aveva fatto una proposta a un importante gruppo editoriale, e dopo averla illustrata ampiamente, alla richiesta di specificare la nazionalità dell’autore – argentino – si sentì rispondere: “Allora no, non si vendono”.
Non ricordo se all’epoca “si vendessero” gli indiani o gli scandinavi, poco importa, gli argentini no, non si vendevano, a prescindere da qualsiasi altra considerazione: che fossero famosi o no, con un’estesa opera alle spalle o dilettanti allo sbaraglio, magari baciati dalla fortuna di un traferimento sul grande schermo. La qualità letteraria? Non credo sia una voce contemplata dal marketing.
E in effetti non so quali siano le cifre odierne delle vendite, in ogni caso ho l’impressione che negli ultimi tempi l’editoria italiana – a voler essere precisi, soprattutto quella piccola e media – sia stata letteralmente invasa da una nutrita truppa di scrittori argentini.
Proviamo a fare un elenco senza pretese di esaustività.
La parte del leone probabilmente spetta alle edizioni Sur: dei tredici romanzi pubblicati finora, ben otto sono di autori argentini: Ernesto Sabato, con due titoli, César Aira, Ricardo Piglia, Fogwill, Alan Pauls, Roberto Arlt e Thomas Eloy Martínez. Da considerare, inoltre, che fra i titoli annunciati ce ne sono almeno altri tre: Julio Cortázar e di nuovo Arlt e Piglia. L’ampia documentazione al riguardo reperibile negli archivi del blog mi dispensa dal parlarne.
Vale la pena invece di spendere due parole su una recente pubblicazione della Nuova Frontiera, nel cui catalogo figuravano già autori argentini come Raúl Argemí, Silvina Ocampo, Rodolfo Walsh e Leila Guerriero: Cicatrici, di José Saer (nella traduzione di Gina Maneri). Autore a lungo disdegnato dalla nostra editoria: se non sbaglio, in precedenza erano comparsi solo L’arcano (tr. di Luisa Pranzetti, Giunti 1994), L’indagine (tr. di Paola Tomasinelli, Einaudi 2006) e Luogo (tr. di Maria Nicola, Nottetempo 2007).
Di seguito una mia breve recensione a Cicatrici pubblicata su “Pulp”.
Un diciottenne che scrive meteo per un giornale, vive con una madre nottambula, è pieno di rabbia e insegue il proprio doppio per le vie di Buenos Aires. Un avvocato che non esercita più e si impegna a sperperare fino all’ultimo soldo nel gioco d’azzardo e a scrivere saggi filosofici dai titoli improbabili, come Il professor Nietzsche e Clark Kent. Un giudice misantropo che vede il resto dell’umanità come “gorilla”, riceve telefonate anonime minacciose, si dedica a tradurre il Ritratto di Dorian Gray e sogna terribili orge di primitivi e pianure in fiamme. Un operaio, ex dirigente sindacalista, che il 1° maggio, dopo una battuta di caccia all’anitra, uccide la moglie.
Sono le quattro voci soliste di questa partitura dello scrittore argentino Juan Saer. Le loro vicende hanno punti di contatto ma non si intrecciano – in un solo momento cruciale del romanzo tre di loro s’incontrano, ma per pochi istanti – e i temi delle loro “confessioni” sono molto diversi: nel racconto di Ángel, il più lungo, prevalgono le inquietudini metafisiche, nelle pagine di Sergio sulle partite a carte si respira un’atmosfera opprimente, mentre il giudice descrive in modo quasi maniacale i suoi tragitti in macchina o le varianti della sua traduzione, e Luis fa uno scarno resoconto degli eventi della giornata in cui ha ucciso la moglie, evento di cui il lettore a questo punto è già informato. Non manca fra i personaggi un alter ego dell’autore, il giornalista e scrittore Carlos Tomatis, né mancano i riferimenti letterari diretti o indiretti, e soprattutto è onnipresente, benché non in evidenza, lo sfondo politico: le “cicatrici”, appunto, lasciate dalla sconfitta del peronismo, con il loro corteo di disillusione e rabbia.
La complessa struttura del romanzo si regge su un perfetto equilibrio e la prosa di Saer (e della brava traduttrice) è sapiente, anche quando vuol risultare un po’ irritante. Col che si fa fatica a capire perché questo autore sconti tutt’ora un certo ostracismo da parte dell’editoria italiana.
Siamo comunque ancora nell’ambito di autori considerati ormai quasi dei classici, buona parte dei quali passati a miglior vita, mentre bisogna spulciare nei cataloghi delle piccole case editrici per trovare proposte di autori non ancora consacrati, perlomeno al di fuori dell’Argentina.
Per esempio, la nuova e – bisogna pur dirlo, e soprattutto di questi tempi, anche se suona un po’ luogo comune – coraggiosa casa editrice bolognese La Linea ha pubblicato Carrera e Fracassi, di Daniel Guebel, nella traduzione di Mariana Califano.
Di nuovo, per parlarne ricorro a una mia recensione uscita su “Pulp”.
Nell’Introduzione per il lettore italiano, Guebel afferma: «questo è il mio romanzo più popolare e il libro più italiano che un argentino abbia mai scritto. Forse perché deve quasi tutto a uno scrittore spagnolo, Miguel de Cervantes Saavedra, e al regista Mario Monicelli». E spiega che la prima scintilla è stata la scena finale di Amici miei, quando Tognazzi gareggia con altri disabili sulle sedie a rotelle. Infatti anche Carlos «Cacho» Fracassi, protagonista del romanzo insieme a Julio César Carrera, verso la fine si ritrova su una sedia a rotelle dopo una cena pantagruelica. I due sono rappresentanti di una ditta di elettrodomestici, ma è l’unica cosa che hanno in comune: caciarone, aggressivo e spudorato il primo, campione delle vendite, quanto l’altro è timido, insicuro e inetto sul lavoro. Alla prima occasione Fracassi seduce la moglie di Carrera e pare odiarlo allegramente, mentre l’altro vuole farselo amico per strappargli i segreti del mestiere. Come in ogni romanzo picaresco che si rispetti non mancano episodi grotteschi, colpi di scena tanto inaspettati da apparire improbabili, sullo sfondo della provincia argentina castigata dalla crisi economica che i due percorrono tentando invano di piazzare i loro articoli.
Ma al di là delle loro tragicomiche disavventure, il clou è la storia della loro amicizia, che cresce a dispetto dei dispetti di Fracassi, fino a toccare le corde della poesia e della commozione.
Un avvertimento per i lettori «ingenui»: Daniel Guebel è del 1956 e ha pubblicato il suo primo romanzo nel 1987, quando in Argentina si era già dispiegata l’arte del «maestro» César Aira, di cui Guebel come molti altri scrittori della sua generazione è debitore, perciò il suo «realismo» va preso con le pinze. La realtà che ci presenta è quella già rappresentata nei cliché dei discorsi comuni, nell’immaginario della cultura di massa, negli stereotipi dei generi letterari: non aspettatevi dunque la verosimiglianza ad ogni costo, che non c’è, ma godetevi questa cavalcata nei fantasiosi territori del nuovo realismo argentino.
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