Juan Villoro (1956) è uno scrittore messicano che con il romanzo El testigo (Il testimone) ha vinto l’importante premio Herralde. Ha scritto numerosi libri per ragazzi, fra cui Il libro selvaggio (Salani, 2010). In Italia sono stati tradotti anche Palme della brezza rapida (Robin, 1995) e I colpevoli (Cuec, 2009). Ha collaborato e collabora con numerosi organi di stampa di tutta l’America latina, dal messicano «Reforma» al supplemento libri del cileno «El Mercurio». Il testo che pubblichiamo con il suo permesso appartiene alla sua raccolta di saggi Efecto personales, che nel 2001 ha ricevuto l’importante premio Mazatlán, ed era già uscito sulla rivista online The Tangueros Quarterly Review, che ringraziamo.
Iguane e dinosauri
L’America Latina come utopia del ritardo
di Juan Villoro
(traduzione di Marco Castellani)
All’età di quattro anni mi trovai di fronte a una svolta decisiva della mia vita. Nel Collegio Germanico di Città del Messico mi sottoposero ad un esame di cui non ricordo nulla, ma il cui esito mi permise di entrare nel gruppo A, cioè in quello dei tedeschi. Nei nove anni del ciclo, ripetei solamente una materia: Spagnolo. A matematica davano da risolvere problemi di questo tipo: “La nonna di Udo ha in cantina cinque cesti di mele che ha raccolto nell’orto con le quali pensa di preparare alcuni apfelstrudel. Se per ogni pasticcino si richiedono una mela e mezzo e in ogni cesto ce ne sono quindici, quanti apfelstrudel potrà realizzare la nonna di Udo?” Oltre ai calcoli aritmetici, c’erano degli altri enigmi: in Messico le case non hanno cantina, le nonne non coltivano le mele e non preparano apfelstrudel. La scuola riuscì a convincermi che la conoscenza aveva la forma delle difficoltà insuperabili. Siccome la mia prima lingua parlata e scritta era il Tedesco, sapere qualcosa era saperlo in straniero. Questa educazione stravagante ottenne un duplice risultato: non c’è niente che mi piaccia di più dello Spagnolo e odio ogni idea riduttrice sull’identità nazionale.
L’origine delle mie sofferenze scolari si doveva a una disposizione del Collegio, a sua volta ispirata dal nostro Ministero della Pubblica Istruzione: evitare il razzismo e la segregazione nelle classi.
Debuttai nelle aule del sapere nel 1960, quando ancora la seconda guerra mondiale alimentava i principali film d’azione. Durante il conflitto, il Collegio Germanico, che aveva aderito al nazionalsocialismo, era rimasto chiuso, e si parlava di una mitica cantina in cui erano custoditi gli archivi del Terzo Reich. Come tante scuole bilingui, anche nella nostra ci fu sempre un gruppo di forestieri. Dopo la guerra, la paura del pangermanesimo e l’intenzione di salvare le apparenze determinarono che in ogni classe tedesca ci fossero due o tre messicani capaci di garantire la mescolanza di culture. Per nove anni, le mie brutte pagelle furono tollerate dagli insegnanti perchè, a conti fatti, io rappresentavo la tribolata razza vernacola che ignorava non solo l’arte di trasformare i sentimenti in apfelstrudel, ma anche le declinazioni del dativo e le frasi con il verbo alla fine. Certi giorni, i maestri mi consultavano come se fossi un oracolo delle tradizioni popolari: tua nonna si strofina le cosce con la mariguana? È vero che ridete alle veglie funebri? Hai uno zio che tira fuori la pistola alle feste e spara in aria per allegria? Perché le domestiche se ne vanno senza avvisare, i poliziotti chiedono l’elemosina e gli idraulici si presentano il giorno giusto, ma non il mese in cui sono stati chiamati in una casa allagata? La vita tumultuosa, incomprensibile e messicana che circondava il Collegio giungeva sotto forma di queste domande ai delegati folklorici di ciascuna classe. Con il tempo, gli argomenti aumentarono in complessità: all’età di undici anni mi sentì in dovere non solo di spiegare, ma anche di difendere i sacrifici umani degli aztechi. Dato che io rappresentavo l’alterità, niente poteva beneficiarmi di più delle stranezze. Più piccanti facevo i peperoncini, tanto più verosimili suonavamo le mie relazioni. Gli insegnanti amavano gli aspetti truculenti del loro paese di adozione. La loro esigenza di esotismo mi indusse a descrivere una patria esagerata, dove i miei cugini facevano colazione con tequila e polvere da sparo, le mie zie si conficcavano spine di agave nel corpo per punire i cattivi pensieri e sanguinavano in giro per la casa, come se stessero posando per Frida Kahlo, mio nonno era stato fucilato durante la rivoluzione e aveva lasciato in eredità il suo occhio di vetro con il quale io giocavo a palline.
“Ach so”, esclamava il professore quando veniva a sapere che non avevo fatto i compiti perché avevo passato il giorno dei morti a mangiare un enorme scheletro di zucchero con il mio nome sopra. Lo strampalato funzionava sempre.
Gli anni scolastici mi avevano trasformato in un autore del realismo magico. Nonostante ciò, quando davvero cominciai a scrivere racconti non mi ritenei obbligato ad essere tipicamente messicano. Ancora una volta, fu lo sguardo europeo a ricordarmi l’esistenza del patriottismo letterario.
Gli incontri internazionali di scrittori sono di solito una commedia degli equivoci culturali. Ebbi l’occasione di partecipare a un convegno in Germania e di conoscere uno degli innumerevoli Helmut che credono che l’America Latina sia un’opportunità per essere piacevolmente irresponsabili. La prima cosa che sapemmo di lui fu che si era liberato dalla condanna europea alla puntualità. Ci fece aspettare un’ora all’aeroporto, fino al punto di svenire per il jet-lag. Nei quattro giorni successivi, Helmut ci invitò a bere in continuazione della tequila giapponese da una bottiglia a forma di piramide e ci obbligò a cantare Cielito Lindo alla fine di ogni riunione. Non occorre dire che ci coprimmo di ridicolo. Arrivammo in ritardo ovunque si andasse, però Helmut ci presentò sempre con una sfacciataggine che rasentava la sfida, come se l’Europa ci fosse debitrice dell’invenzione del cioccolato. Il nostro anfitrione era arcistufo delle offese subite dall’America Latina, quella foresta assolata dove si può sopportare il mal di testa solamente grazie alle aspirine che vengono dalla Germania. Quando gli dicemmo che avevamo avuto la vaga impressione di essere stati troppo informali, ci guardò in studiata posa guevarista e ci ricordò che non dovevamo render conto al razionalismo colonialista. Il pubblico da noi si aspettava magia. Seppur con le migliori intenzioni del mondo, Helmut aveva fatto del nostro soggiorno un inferno in cui avevamo dovuto comportarci come gli smisurati personaggi da me inventati ai tempi del Collegio Germanico.
L’esotismo esiste per soddisfare lo sguardo dell’altro. Uno dei risultati più gravi e più sottili dell’eurocentrismo è che, cercando “l’autentico”, privilegia il pittoresco. Non ci troviamo di fronte ai personaggi di Kipling o Conrad dove i bianchi o gli occidentali sono comunque superiori agli aborigeni, ma a qualcosa di più complesso. Sugli altari del rispetto e della diversità, certi discorsi postcoloniali europei celebrano un curioso fondamentalismo del folklore. I romanzi, i film, le registrazioni e le installazioni del terzo mondo si riducono ad essere meri veicoli di identità nazionale. In questa prospettiva, le narrazioni dell’alterità sono significative in quanto documenti: un argentino imprigionato in un ascensore o un boliviano depresso in un Kentucky Fried Chicken si guadagnano il diritto ad avere una storia solamente se, in maniera diretta o simbolica, vengono messi in relazione con il ricco arsenale del genere “latinoamericano”, vale a dire, con i pregiudizi dell’impianto europeo.
La “retorica della colpa”, come la chiama Edward Said, ha provocato nell’eurocentrismo un’ulteriore virata in cui il rispetto per l’altro passa attraverso nuove e più complesse distorsioni. Venerdì non si sottomette a Robinson, ma gli vende chaquira e gli insegna a meditare come uno sciamano. L’aborigeno non è un essere inferiore, è solo diverso. È però diverso in forma univoca, come custode e garante dell’alterità. Non ci si aspetta che Venerdì sappia le tabelline meglio di Robinson, ma che lo addottrini con conoscenze trascendenti, sconosciute, seducentemente prelogiche. Il mito di Venerdì subisce così un capovolgimento di fronte antropologico: la sua superiorità si fonda sulla stranezza.
Attratti dal singolare, tanti spiriti benpensanti disdegnano il cammino illustrato da Alexander Von Humboldt e si negano a visitare con la ragione un territorio che preferiscono incomprensibile. In nome della diversità, l’America Latina è considerata un vivaio di colore locale. Invece, in Latinamerica ci importa poco che un pittore svedese rifletta o meno la sua condizione di scandinavo in ogni pennellata. Fin dal principio, siamo stati abituati ad un’arte che viaggia e si mescola; la geografia della nostra immaginazione prevede per lo meno due rive: la cultura originaria e le molte cose che ci sono arrivate da lontano.
Ho lavorato per tre anni a Berlino Est come addetto culturale all’Ambasciata del mio paese e una volta ricevetti l’incarico di organizzare una mostra con le serigrafie di Sebastiàn, il quale ha fatto propria l’eredità di Josef Albers e della scuola Bauhaus. Il direttore della galleria guardò con enorme scetticismo quei quadri costruttivisti: “mi piacciono, ma cosa c’è di messicano?”, mi domandò. In un lampo di disperazione gli dissi che i triangoli alludevano all’arco delle porte nelle piramidi maya; i rettangoli, alle greche azteche, e i colori, ai punti cardinali della cosmogonia preispanica. Il curatore cambiò opinione: Sebastiàn era un genio.
Tuttavia, l’eurocentrismo non è il solo responsabile del folklore proveniente dall’America Latina. Di fronte alla richiesta di un’arte con un autentico pedigree latino, alcuni artisti si sforzano di essere autoctoni di proposito. Gabriel Garcia Marquez e Alejo Carpentier non hanno elaborato nessuna strategia per compiacere la critica straniera; le loro opere sono il risultato naturale delle loro convinzioni letterarie. Cien años de soledad e Los pasos perdidos rappresentano momenti culminanti della Lingua e potenti reinvenzioni della realtà. Niente sarebbe più meschino di discuterne i meriti. Però è altrettanto innegabile che all’ombra di questi alberi favolosi sono spuntate le “piume tutti-frutti” – per usare l’espressione di Cabrera Infante – che vogliono solo copiare una formula di successo, e illuminare con le cifre un paesaggio americano sempre più fuori orbita. La situazione si presta ad una farsa delle autenticità incrociate. Nel mio romanzo Materia dispuesta una compagnia teatrale messicana viene invitata a una tournèe europea. Prima di partire, il promoter fa loro una raccomandazione: per avere successo oltreoceano, dovete essere più messicani. Gli attori cadono in una vertigine d’identità: come possono mascherarsi da loro stessi? Il direttore ingaggia alcuni percussionisti caraibici, che non hanno nulla di messicano, ma che in Europa sarebbero sembrati selvaggiamente oriundi, e gli attori si sottopongono a sedute di lampada abbronzante per diventare dei degni rappresentanti della “razza di bronzo”. In questo travestitismo culturale, gli attori del romanzo entrano a far parte di una nuova tribù dalla pelle infrarossa, appositamente pigmentata per non deludere il pubblico straniero. Ci troviamo al cospetto della più assurda autenticità artificiale.
Ogni pubblico ha diritto alle proprie passioni e nulla sarebbe tanto arbitrario quanto proporre una tirannia del buon gusto. In un mondo che ha inventato forme di soddisfazione che vanno dai canti gregoriani alle mutande commestibili, non è poi così scabroso che i lettori europei richiedano all’America Latina generali che vivano 168 anni, giaguari dagli occhi di giada o ninfe che levitino tra le mangrovie. Ben più grave sarebbe che l’insieme visionario dell’America Latina si sottomettesse a questi pregiudizi: il realismo magico come spiegazione di un mondo che non conosce altra logica.
L’impero del tempo
Il contatto con l’America Latina non costituisce una minaccia diretta per la cittadella europea. I pericoli migratori vengono semmai da un’altra parte: i russi scontenti e infreddoliti che arrivano sciando da Mosca a Berlino, gli arabi sempre in cerca di rifugio e di lavoro, i cinesi abbienti che desiderano visitare Parigi e prenotano mezzo milione di stanze d’albergo. L’America Latina rimane più lontano e raggiunge l’Europa racchiusa nelle coloratissime confezioni del suo caffè e dei suoi dischi di salsa. Questa lontananza fa in modo che sia il campo culturale a soddisfare le curiose esigenze dell’immaginario europeo attraverso l’utopìa del ritardo. In un mondo globalizzato non c’è niente di più eccitante di una riserva dove si riproducano i costumi remoti. Se i nordamericani viaggiano in alberghi che permettono loro di sentire che Chichèn Itzà è come Houston, ma con le piramidi, gli europei sono piuttosto dei sibariti dell’autenticità. Curiosamente, questa fame di originalità può condurre ad una sorta di edonismo archeologico, in cui la miseria e l’ingiustizia diventano forme del pittoresco. La normale selva con le iguane è vista come l’affascinante habitat dei dinosauri, un Jurassic Park che consente di fare un’escursione nel passato.
Tanto nelle guide di viaggio che raccomandano di non bere l’acqua che esce dai nostri rubinetti, come nelle superproduzioni di Hollywood in cui “el mexicano” è qualcuno con dei baffoni esemplari che ride molto quando ammazza il suo miglior amico, il Messico assomiglia a un parco d’attrazioni fuori dal tempo, un bollente melting pot già dimenticato dalle nazioni che conoscono le etnie e le razze solo attraverso l’advertising di Benetton.
Uno degli affari in questo momento più sicuri sarebbe la costruzione di una Disneyland dell’arretratezza latina dove i visitatori potessero vedere dal vivo dittatori, guerriglieri, narcotrafficanti, militanti dell’unico partito che abbia conservato il potere per settantuno anni, donne che hanno un infarto mentre fanno l’amore e risuscitano al profumo del sandalo, toreri che ingoiano vetro, bambini che dormono sugli scaffali, veggenti che vanno in trance per scoprire i conti svizzeri del presidente.
Siamo di fronte ad un colonialismo nuovo di zecca, che non dipende dal dominio dello spazio ma da quello del tempo. Nel parco delle attrazioni latinoamericane, il passato non è una componente storica, ma una determinazione del presente. Ancorati, fissati alla loro identità, i nostri paesi si dibattono in anticaglie in un continente che riserva a sè stesso l’uso della modernità e del futuro.
Conviene insistere nel concetto che l’esistenza di una cultura che si fonda sulle conturbanti fragranze della guayaba non si deve all’egoismo europeo, ma ad una peculiare distorsione degli “altri” e alla necessità di inserire una controllata barbarie nel suo immaginario. Ne El salvaje en el espejo. Roger Bartra studia la funzione che nell’Europa medievale assolveva il mito del selvaggio, l’omuncolo coperto di peli e dominato da bassi istinti che animava i racconti cavallereschi, il repertorio dei trovatori, gli arazzi con le principesse minacciate, e che, per contrasto, ribadiva automaticamente la superiorità dell’uomo civilizzato. Secondo Bartra, la scoperta dell’America ebbe un effetto dissolvente in questa tradizione. Davanti a “selvaggi veri”, non si aveva più bisogno di una figura da leggenda che appendesse le donzelle agli alberi. L’europeo poteva misurarsi con gli Inca e con gli Aztechi. Con tutte le differenze del caso, è su questa linea che si comincia a scrivere la sopravvalutazione culturale del ritardo latinoamericano.
Per nove anni me la sono cavata nel Collegio Germanico facendo in modo che le volgari iguane sembrassero dinosauri da fiera. La mia infanzia è stata un paese esotico a partita doppia. Mi preoccupavo sia dell’apfelstrudel che mangiavo solamente nella mia fantasia, sia del folklore che dovevo garantire in classe. Non è stata certo un’educazione modello, però mi ha insegnato che la unica vera patria è quella che assumiamo senza posare per lo sguardo altrui.
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