Pubblichiamo oggi un testo dello scrittore argentino Rodrigo Fresán su Roberto Bolaño che inizia con un ricordo personale e poi si amplia in una lettura dell’opera. Riprendiamo il testo dal sito Archivio Bolaño, una vera miniera di materiali estremamente interessanti per chi vuole approfondire la conoscenza di questo scrittore, ringraziando Carmelo Pinto, il suo infaticabile curatore. Di Fresán sono stati pubblicati in Italia Esperanto (tr. di P. Tomasinelli, Einaudi 2000) e I giardini di Kensington (tr. di P. Marchetti, Mondadori 2006).
di Rodrigo Fresán
Traduzione dall’inglese di Susanna Vancini
1) Bolaño personaggio
Comincio da un ricordo personale, perché è il solo modo di iniziare, penso, quando stai per parlare – o per scrivere – di uno scrittore, che sei stato così fortunato di conoscere, e di libri, della cui compagnia sei ancora così fortunato di poter godere.
È la fine dell’autunno o l’inizio dell’inverno 2011 a Barcellona. Ed è freddo e ci sono nuvole e pioverà. E prima di salire sul treno pendolare di ritorno a Blanes, lo scrittore cileno Roberto Bolaño, per la prima volta nella sua vita (o almeno questo è quello che giura), entra in uno dei tanti punti vendita Pollo Fritto Kentucky di Barcellona.
Abbiamo già visitato l’inevitabile libreria La Central (quasi certamente la più grande libreria del mondo), dove Bolaño ha preso vari libri, che prevede di usare a scopo di ricerca per il suo romanzo 2666. La camminata è parte di una routine stabilita nel 1999, quando ho incontrato la prima volta Bolaño e siamo diventati amici: libri, una camminata e qualcosa da mangiare. Questa volta sarà Pollo Fritto Kentucky.
Entro con Bolaño (era stata una mia idea prendere qualcosa da mangiare qui, confesso) e ordiniamo i nostri rispettivi pasti. Bolaño si siede a un tavolo, da cui può vedere tutta la stanza illuminata da violente luci al neon e contempla affascinato l’ambiente circostante. “Hai notato? Sono tutti qua…“ Sorride quasi in estasi, e tutti – mi giro attorno per guardare – è una schiera di immigrati sudamericani, legali o illegali. Sono riconoscibili per le loro caratteristiche straniere, ma anche per la disciplina con cui contano esattamente gli spiccioli a uno a uno quando devono pagare, per il silenzio quasi reverenziale del loro masticare e per la grande cura che mettono nel non rovesciare sulle loro maglie disegnate con motivi etnici. Ci sono anche – è vero – asiatici, africani del Sahara del sud e lo studente occasionale del college americano, che cerca con nostalgia il sapore di casa. Ma la componente latino americana è chiaramente in maggioranza; e Bolaño non riesce a smettere di fissarli tutti, come se fossero potenziali opere d’arte. L’ – amore? – nello sguardo di Bolaño non è altro che l’amore che un padre prova per suo figlio o l’orgoglio orripilante del più sano degli scienziati pazzi malignamente soddisfatto in un laboratorio zeppo di potenziali esperimenti. Bolaño mangia, ancora sorridendo: con la gioiosa tristezza di chi ricorda momenti terribili del proprio passato, guardando dappertutto e da nessuna parte; un po’ maudit e completamente Bolaño, quando dice che gli scrittori sudamericani che vivono a Barcellona – “da subito, è adesso è il momento” – dovrebbero fare del Kentucky Pollo Fritto il loro punto di ritrovo, il luogo dove incontrarsi per parlare e discutere.
E ovviamente, quello che Bolaño sta facendo è ridere all’idea di scrittori – scrittori di qualsiasi nazionalità o galassia – che si ritrovano per parlare di letteratura. Nell’idea di Bolaño – allora e sempre – la letteratura dovrebbe risiedere nei libri, non nei bar. Ne consegue che l’unica protagonista dell’opera di Bolaño – la vera eroina dei suoi libri – è la letteratura stessa. Letteratura come Vello d’Oro o Sacro Graal o slitta col marchio Rosebud inseguita fino in fondo da uomini e donne, che credono esclusivamente in essa. Perché, a cosa serve credere in qualcosa che non sia letteratura, definita da Bolaño in un’intervista come la cosa che si pianta “nel territorio del rischio”?
Lasciamo il Pollo Fritto Kentucky e Bolaño scende le scale verso il binario del suo treno pendolare, io ritorno a casa e, mezz’ora dopo, Bolaño suona al campanello della mia porta, ancora. È fradicio per il temporale, con gli occhi spiritati e tremante come se opponesse a stento resistenza a un terremoto privato. “Ho ucciso un uomo”, annuncia con una voce cadaverica; ed entra nel mio appartamento, si dirige verso il soggiorno e mi chiede di fargli una tazza di tè. Poi mi dice che, mentre stava aspettando sul binario, un paio di skinhead gli erano comparsi davanti e avevano cercato di derubarlo, che c’era stata una baruffa, lui aveva cercato di togliere un coltello a uno di loro, che ha accoltellato l’altro vicino al cuore, e che poi è scappato via giù per i corridoi e per le strade e che non sapeva che cosa fare dopo. “Che cosa avrei dovuto fare? Avrei dovuto costituirmi?” Dico che non avrebbe dovuto. Bolaño mi guarda con infinita tristezza e dice che non riuscirebbe a continuare a scrivere con un morto sulla coscienza, che non sarebbe più in grado di guardare suo figlio negli occhi, qualcosa del genere. Commosso, dico che capisco e che andrò con lui alla stazione di polizia; al che risponde, indignato: “Che cosa? Mi consegneresti alla polizia in questo modo? Senza pietà? Uno scrittore argentino che tradisce uno scrittore cileno? Vergognati!” Poi Bolaño deve avere visto la mia disperazione, perché ha abbozzato una delle sue risatine e, affascinato, ha continuato a ripetere, “Ma sai che non farei del male nemmeno ad una mosca… Come hai potuto credere ad una storia del genere?”
Bella domanda. E solo adesso capisco che in quel pomeriggio, senza saperlo, stavo godendo il raro privilegio di veder scrivere Bolaño e scrivere se stesso, leggere ad alta voce e – fenomeno più raro e più prezioso di tutti – vedere me stesso all’interno di una delle sue storie. Una di quelle storie, in cui Bolaño era ed è e fortunatamente sempre sarà un personaggio Bolaño.
2) Mostri di belle speranze
Ricordo anche che ad un certo momento quel pomeriggio è venuto fuori il tema mostri di belle speranze, quel fenomeno studiato da biologi e genetisti e a cui fa riferimento il romanziere inglese Nicholas Mosley nel suo grande romanzo intitolato, proprio, Mostri di belle speranze [Hopeful Monsters]. Creature che sono tutte mutazioni. Un picco fuori dai diagrammi nell’evoluzione di una razza. Un’eccezione che raccoglie forza finché diventa la specie dominante, una bestia vittoriosa – qui entra in gioco la speranza, l’ottimismo – o eventualmente soccombe e scompare senza lasciare traccia, proprio come i draghi, le fate, e gli unicorni. In rare occasioni, questi mostri di belle speranze cercano di restare e di mescolare quei contenuti alla gente “normale”, per adattarsi ai modi e alle esigenze del mondo. Ma non succede spesso: di solito i mostri di belle speranze combattono fino all’ultimo respiro, per affermarsi come la nuova regola inviolabile da seguire e per costringere il mondo ad adattarsi ai loro nuovi tratti e alle loro abitudini. Spesso periscono, vittime della loro strana e ineguagliabile ambizione. Eppure entrano in scena per lasciare il loro marchio (con denti, artigli e neuroni) e poi raccontano la storia con parole nuove, con occhio vivace. E così sono spesso gli artisti e gli scienziati – da non dimenticare l’occasionale assassino – ad essere mostri di belle speranze.
E ci sono altri mostri di belle speranze: quelli della narrativa di Bolaño.
Mi riferisco qui ai mostri di belle speranze tipo i “detective selvaggi”, ai Flying Sudacas* “Sudamericani Volanti”, al “ragazzo più bello dell’America Latina”, al “giovanotto invecchiato”, ai “veterani delle dannate rivoluzioni”, o in modo semplice e complesso, ai “mostri”.
Mi riferisco in questo caso a Carlos Wieder, Auxilio Lacouture, e Sebastián Urrutia Lacroix – eroi e criminali di Stella distante (1996), Amuleto (1999), e Notturno cileno (2000) – e mi riferisco anche a Bolaño, quell’incurabile ottimista: l’uomo che scrisse di loro come se li osservasse dalla parte opposta di un microscopio o di un telescopio. L’uomo che non ha mai smesso di sorridere, mentre calcolava quanti giorni gli rimanevano per scrivere un romanzo immenso come la vita o fissava le sue abitudini e stravaganze su un taccuino, in una strana minuscola calligrafia o sullo schermo di un computer così vecchio, che era difficile credere che potesse ancora obbedire agli ordini del suo cervello e delle sue dita. L’uomo che ci ha avvertito, che la sua narrativa era sempre confusa con l’irrealtà di un veloce, lungo e leggermente incredulo addio a se stesso [1] , un’ “ultima trasmissione dal pianeta dei mostri”, come essi dicono quasi alla fine di Stella distante. Mostri senza ottimismo e speranza. Solo mostri. Mostri mostruosi.
3) Primo volume dell´enciclopedia bolañana: la trilogia Stella distante, Notturno cileno, e Amuleto
Leggere quelle tre grandissime novelle – Stella Distante, Notturno cileno, e Amuleto – [2] insieme come se fossero un unico libro, non è un capriccio. In un certo senso, questa “trilogia” diventa un parziale ma inevitabile – e per il lettore inglese, inaugurale – esperimento di atlante del pianeta dei mostri nell’opera di Bolaño. Il primo e indispensabile volume di una Enciclopedia bolañana.
Ho riletto tutti e tre – nell’ordine in cui furono scritti, nel giro di pochi giorni – e la loro perfetta, inquietante comunione mi sbalordisce, il modo in cui si riflettono l’un l’altro e improvvisamente si incastrano come parti di un intero armonioso, come – accidentalmente o intenzionalmente – il lettore erri come un sonnambulo attraverso il territorio in cui Roberto Bolaño visse, scrisse e sognò ad occhi aperti.[3]
Ci sono chiaramente libri che perdono qualcosa quando vengono raggruppati insieme e altri che guadagnano forza dall’accostamento. L’ultimo è il caso di questi tre titoli.
Per iniziare: da un punto di vista generico, tutti e tre sono novelle, come L’invenzione di Morel, dello scrittore argentino Adolfo Bioy Casares; o Pedro Páramo dello scrittore messicano Juan Rulfo; o La vergine dei sicari dello scrittore colombiano Fernando Vallejo. Che è come dire: sono grandissimi, brevi romanzi che appartengono a ciò che Henry James, [4] un esperto in materia, definì e consacrò come “la beneamata, la benedetta novella.“ Ed essi sono anche latinoamericani. Mutazioni. Animali tristi capaci di emanare la felicità più potente. Esemplari che sopportano e godono di una accentuata capacità di comprensione – una comprensione della forza cataclismica e fortunata che trasforma carbone in diamanti – e che, nel caso di Bolaño, sono trasformati dalle forze storiche in vagabondi isterici, proiettati sullo sfondo di un realismo irreale che, in nessun caso, va confuso con la pomposa geografia di Macondo di Gabriel Graciá Márquez e la periferia sempre più penosa dei suoi epigoni e imitatori. [5]
Per continuare: i tre – come molte opere di Bolaño – sono quasi parenti di sangue; vanno avanti e indietro per un lungo periodo; condividono le stesse sinapsi e strizzate d’occhio. E il protagonista di ognuno è un poeta.
Così – qui fate attenzione, perché questo potrebbe confondere – Stella distante è la registrazione dei “sogni e incubi” di Arturo Belano, eroe nomade del magistrale mega romanzo I detective selvaggi [6] (1998) e allo stesso tempo chiaroscuro alter ego di Roberto Bolaño. [7] Stella distante era apparso già in una precedente, più breve versione, come inquietante finale al termine della parata di scherzi letterari che è La letteratura nazista in America (1996), in cui Carlos Wieder è chiamato Carlos Ramírez Hoffmann ed etichettato con l’aggettivo veramente borgesiano di ripugnante. Presente in Stella distante è anche una prima versione del prete, critico letterario e mediocre poeta Sebastián Urrutia Lacroix (col nome di Nicasio Ibacache, che sarebbe diventato lo pseudonimo giornalistico del narratore di Notturno cileno); e l’ombra voluttuosa e agonizzante della pornostar Joanna Silvestri, che salta fuori di nuovo in uno dei migliori racconti di Chiamate telefoniche (1997). Amuleto è quasi una versione premio – un remix più lungo – della traccia 4 della seconda parte de I detective selvaggi, in cui Auxilio Lacouture si autodefinisce e si consacra “la madre della poesia messicana” e di tutti i poeti, Arturo Belano inevitabilmente tra questi. Notturno cileno (il titolo in lavorazione era Tormenta di merda) recupera l’inquietante duo del signor Oido e del signor Oidem – che avevano già vagato attraverso La pista degli elefanti nel 1993, ripubblicata come Monsieur Pain nel 1999 – e proietta l’ombra senza nome del “giovanotto invecchiato”e “splendido cileno“ che tormenta il prete Urrutia Lacroix come la cornacchia di Poe. Un’ombra che è chiaramente l’ombra della colpa stessa, dell’innocenza tradita. O l’ombra di Arturo Belano e dei suoi soldati, che marciano da un capo all’altro de I detective selvaggi, un romanzo che a volte non posso fare a meno di pensare come una specie di epifania catastrofica della beat generation sudamericana del Signore degli anelli [8] : una saga senza bussola, un’epopea maestosa del sogno fallito di poeti alla fine di un mondo, sconfitti da cattivi versi dell’era in cui erano destinati a vivere.
Ma forse la simbiosi più interessante tra questi tre libri di Bolaño è che insieme compongono – razionalmente o istintivamente – una perfetta troika di mitologia sudamericana. Una triade sostenuta dalle chiaroscure speranze di tre mostri, antagonisti ma quasi fraternamente complementari nel riconoscersi pazzi per l’arte. Un triangolo equilatero composto da tre vite immaginarie – nel senso schwobiano della frase – con Carlos Wieder nella parte del carnefice, Auxilio Lacouture nella parte della vittima e Sebastián Urrutia Lacroix come testimone opportunista e impassibile della competizione e del combattimento tra vittime e carnefici che, alla fine della vita, scopre che nessun peccato è più mortale che non appartenere a nessun gruppo o a nessun luogo. In questo senso, Stella distante, Amuleto e Notturno cileno – successivamente presentato al lettore come ricordo vendicativo, delirio terrificante e confessione febbricitante – sono anche tre dei romanzi più originali e politicamente più rivelatori degli ultimi tempi. Tre memorie politicizzate che flirtano con il romanzo a chiave – l’altra perversa e più o meno intima forma di romanzo politico, in cui, nomi propri traducono fantasmi distanti [9] – ma liberi da ogni facile, demagogica coercizione. Tre disoneste storie vere in cui l’“accusa” si spaccia per visita [10] melanconica e lirica ad angoli poco esplorati e non come viaggio nuovo e prevedibile – cartolina panoramica e tragico-magica e ai soli fini dell’esportazione – verso luoghi più comuni, dove la classifica della sfortuna continentale è venduta porta a porta. Tre manifesti scritti per amore dell’arte e non per il bisogno patologico, per il quale molti scrittori latino americani si sentono automaticamente artisti, in virtù dell’essere nati in un momento sbagliato in un brutto continente ed essere così autorizzati a scrivere male di esso, come titolari di passaporti di circostanza. Al contrario, la forza che guida Bolaño a narrare certi vergognosi episodi pubblici, sembra essere generata, non da accuse o richieste di giustizia, ma dalla volontà di cercare e trovare nell’orrore il virus contagioso di buone storie nascoste proprio sotto la superficie della Storia. [11]
Chi è stato a dire “ci sono altri mondi ma essi sono parte di questo mondo” Come succede spesso, ricordo la frase ma non la sua origine. Un paio di telefonate non gettano alcuna luce sull’argomento, e così, qui e ora, la frase orfana scivola sotto la custodia di Roberto Bolaño. Perché è chiaro, che una di quelle molte possibili parole è il pianeta dei mostri – di belle speranze o meno – da cui le opere di Bolaño sono continuamente trasmesse in oscuro codice matematico o in chiare lettere trasparenti. Questi mostri planetari riuniti sotto la copertina dei loro vari libri, che alla fine formano un unico libro. Una singola casa contenente varie ville. [12] È chiaro che le ambizioni di Bolaño erano sbalorditive. E che i risultati sono superbi. Ciò che Bolaño cercava e raggiunse era l’Opera Totale, un posto nella stessa squadra di Cervantes, Sterne, Melville, Pynchon, Proust e Musil: uomini impegnati a cercare, scoprire e scrivere, di ciò che il cileno definì in 2666 come il “centro nascosto” o il “segreto del mondo” mentre – come Borges – badava a costruire e citare scrittori e opere all’interno del proprio lavoro di scrittore. Pensate a questi mostri come alle bestie mitologiche, che decorano i bordi di antiche mappe, riempiendo il vuoto dell’ignoto, gli spazi dove il viaggio non è ancora possibile e dove i marinai, gli esploratori e i lettori sono ammoniti con un Qui Si Trovano Mostri.
Ecco dove siamo diretti.
In Stella distante il poeta dell’aria e diavolo sterminatore Carlos Wieder – un lupo tra gli agnelli dei seminari di scrittura, una bestia a cui a volte non posso fare a meno di dare la faccia e il sorriso di Orson Welles ne Il terzo uomo o gli occhi senza palpebre di Christopher Walken in uno qualsiasi dei suoi film – scrive la frase Morte è igiene nei cieli di Santiago. Quasi alla fine siamo avvisati:
“Ciò che dovete capire è che Carlitos Wieder guardava il mondo come da un vulcano; guardava tutti voi e vedeva se stesso come da molto lontano, e noi tutti, mi scusi la franchezza, gli sembravamo degli animali miserabili; lui era fatto così” [Stella distante pag. 153].
In Amuleto, è ancora e sempre la “storia dell’orrore” dell’Ottobre di sangue del 1968 [13] alla Facoltà di Filosofia e Letteratura a Città del Messico quando Auxilio Lacouture – una luce tra le ombre di Wieder e Urrutia Lacroix; “la voce estasiata di un’uruguaiana che avrebbe dovuto essere una greca“ – si chiude in bagno per vari giorni, galleggiando in un mare di memorie robinsoniano o kurtziano (il Kurtz di Apocalypse Now, non il Kurtz di Heart of Darkness), finché raggiunge quell’istante di certezza dal quale non c’è ritorno. “Il ricordo sono io” [p. 134] realizza quasi alla fine e poi è devastata da una processione di fantasmi di giovani che cantano in marcia, precipitando verso l’abisso.
In Notturno cileno, Sebastián Urrutia Lacroix soccombe alla terribile febbre di colpevolezza e presenta il suo caso come se stesse cercando di ottenere il perdono da una giuria invisibile come se stesso. Sebastián Urrutia Lacroix come una specie di Scrooge sconvolto da fantasmi notturni del “grande terrore“ mentre
“passano a una velocità che da vertigine i visi che ho ammirato, i visi che ho amato, odiato, invidiato, disprezzato. I visi che ho protetto, quelli che ho attaccato, i visi da cui mi sono difeso, quelli che ho cercato invano.” (pag. 144)
E un tratto comune infine unisce i tre mostri di Bolaño: tutti e tre – cercando rifugio dietro Faulkner, Petronio, e Chesterton epigrafi/buchi della serratura – sono estremamente preoccupati della costruzione dei loro musei/mausolei/opere; dal verdetto del futuro; dalla patina e dall’onta della posterità [14]. Quando si perdono nel ricordo, i personaggi di Bolaño tendono a preoccuparsi di come verranno ricordati.
4) Bolaño e la letteratura
Domanda inevitabile: Roberto Bolaño era un mostro di belle speranze, un raro ottimista in un paesaggio essenzialmente triste e poco brillante? In un’intervista con Eliseo Álvarez, Bolaño scherzava sulle sue origini artistiche:
“Mio padre non era solo un camionista: era anche un campione professionista dei pesi massimi del pugilato del sud del Cile. Per competere con lui, la mia unica possibilità era di essere più forte di lui o, senza mezzi termini, optare per l’omosessualità, che sembrava una magnifica soluzione estetica, ma non era nella mia natura; ero nato eterosessuale. Così, tutto quello che avevo lasciato erano film e libri e, come ragazzo, passavo fondamentalmente tutto il tempo guardando un mucchio di film e leggendo tantissimi libri e, naturalmente, cercando di uccidere mio padre. Mio padre, ovviamente, mi ha sempre amato, come ogni padre.”
E sì, i libri e il pianeta di Bolaño sono inequivocabilmente bolañeschi o bolañisti. [15] Il che significa, che le creature di Bolaño sembrano sempre vivere saldamente sistemate – in un modo o nell’altro – nella letteratura, mentre Bolaño si nutriva e viveva di letteratura: i libri di Bolaño scrittore sono pieni di libri e di scrittori. “La verità è che leggere è sempre più importante che scrivere”, disse; e ho conosciuto poche persone che amavano o provavano più piacere per l’arte della lettura e che godevano – un dettaglio importante – nel descrivere con le loro parole quello che stavano leggendo, ciò che altri avevano scritto. Bolaño credeva in poche cose, ma una di queste, ne sono convinto, era il potere curativo e di redenzione delle parole leggere e scrivere. [16] Forse come risultato – questo potrebbe essere l’origine di quella furia implacabile non anestetizzata – era incensato da tutti i cattivi scrittori saltati fuori dalle menti di cattivi lettori. Esseri che non sarebbero mai stati in grado di risolvere un crimine perfetto, mentre sguazzano nella “piscina di merda della letteratura”.
Oltre che sul pessimismo scherzoso del saggio/diatriba “I miti di Chtulu”, che chiude la collezione di storie e conferenze de Il gaucho insostenibile (2003) [17] , penso che Bolaño stesse scommettendo su un futuro positivo per la letteratura latinoamericana, non importa quanto chiaramente avesse intuito – più o meno segretamente – che non ci sarebbe stato per verificarlo. Ad un certo punto mi ha parlato del suo progetto di mettere insieme un’antologia per stabilire la rotta, un’antologia della nuova letteratura latinoamericana. Prima aveva pensato di chiamarla Continente, ma poi immediatamente, è stato distratto dal titolo Invasione e dall’idea di assemblare le sue scelte come un’unità da combattimento: “solo pochi altamente qualificati commandi ninja, pochi marines, e il resto … Ufficiali della croce rossa!” disse scoppiando a ridere. Cosa che non gli impedì, verso la fine, di sentirsi e di presentarsi come una specie di viaggiatore nel tempo, uno fuori dal tempo e dallo spazio, che emette segnali per chiunque fosse intenzionato a riceverli. Uno che sapeva di essere fisicamente escluso dal futuro della letteratura e così optò per anticiparla e costruirla nei suoi libri. [18]
In Tres (2000) – il suo ultimo libro di poesia pubblicato mentre era ancora vivo [19] – Bolaño conclude con un lungo testo intitolato “Passeggiata per la letteratura”. Nel pezzo Bolaño sogna di essere
“ un vecchio detective latinoamericano e che una Fondazione misteriosa mi incaricava di trovare i certificati di morte dei Sudamericani Volanti. Giravo il mondo: ospedali, campi di battaglia, pulquerías, scuole abbandonate.”
Nel testo Bolaño affronta la sfida – ed emerge trionfante – evocando il suo stesso fantasma. Perché ci sono due tipi di scrittori: quelli che si preoccupano di garantire la propria immortalità (penso a Hemingway) e quelli che si preoccupano più dell’obiettivo creativo di incastrare i diversi pezzi che costituiranno infine il modello di un fantasma (penso a Fitzgerald). Nel pezzo, Bolaño si presenta come detective di libri in fiamme, un ispettore di paesi invischiati in battaglie condannate al fallimento, uno scrittore medium comunicatore perso ma legato per sempre agli scaffali della sua libreria. E si presenta come pensava che gli scrittori fossero e dovessero essere: investigatori o mostri.
16. Ho sognato che ero un detective vecchio e malato. Così malato che cadevo letteralmente a pezzi. Seguivo le tracce di Gui Rosey. Camminavo per i quartieri di un porto che poteva essere Marsiglia oppure no. Un vecchio cinese affabile mi portava infine in uno scantinato. Questo è ciò che resta di Rosey, diceva. Un mucchietto di cenere. Così com’è potrebbe essere Li Po, rispondevo.
scrisse nel pezzo.
2001 Odissea nello spazio
5) Fantasmi al contrario – I detective selvaggi – 2666
Sia I detective selvaggi che 2666 – romanzo colossale, libro immenso che sembra emanare il comando musicale che l’alto monolite nero emette in 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick – sono libri i cui protagonisti sono fantasmi al contrario: esseri viventi che vagano come anime perse e desiderano ardentemente una mitologia, una ideologia per ancorarsi. [20]
Entrambi i romanzi procedono come scatole cinesi ad incastro o matriosche, come ricettacoli che aprono e chiudono e gradualmente intrappolano quasi tutto del mondo e oltre. Entrambi possono essere visti come un quadro di Hieronymus Bosch o un affresco di Diego Rivera o un’illustrazione nello stile di Where’s Waldo? in cui noi, lettori, siamo Waldo. Sono romanzi storici, politici, sull’atto della scrittura e della lettura, in cui ci è spiegato che “leggere è come pensare, pregare, parlare a un amico, esprimere un’idea, ascoltare musica (sì, sì), contemplare un paesaggio, andare a fare una passeggiata in spiaggia”. Romanzi di un tipo che è raramente scritto e la cui modesta – perché inevitabile – intenzione è suggerire una cronaca alternativa al ventesimo secolo e – come ne I detective selvaggi, ma qui in senso opposto, come un viaggio di ritorno da tutto – una cronaca dei vincoli di sangue, sudore e lacrime che legano Europa e America e li dividono l’uno dall’altro. Se I detective selvaggi può essere letto come un viaggio verso l’esterno – sentieri che si irradiano in migliaia di direzioni da un punto di energia concentrata in America Latina, visioni e revisioni della rivoluzione filtrata attraverso una arts poetica – 2666 si presenta come lo yang di quello ying: si allontana da molte città d’Europa per cercare di rispondere al mistero messicano, che risiede in una città di confine col nome di una santa. Ciò che è in discussione, non è l’arte della poesia – del Nuovo Mondo, realista, viscerale – ma l’arte del romanzo, come nobile successo chiaramente del Vecchio Mondo. Ne I detective selvaggi tutti sono sulle tracce della poetessa Cesarea Tinajero, mentre in 2666 è la prosa dell’Europa centrale di Benno von Archimboldi ad essere inseguita. Entrambi i romanzi finiscono nel deserto, che è uno di quei vasti paesaggi – della serie delle spiagge, cieli, oceani, montagne – che Bolaño descrive sempre in cinemascope e super8, simultaneamente. Il meglio di entrambi i mondi. [21]
E mi succede che l’esperienza di leggere qualsiasi libro di Bolaño sia la conseguenza dell’esperienza di Bolaño di scriverlo. Pochi scrittori contemporanei sono riusciti a infettare il lettore, invitandolo generosamente a suo rischio e pericolo e piacere, nell’avventura di un libro vivente, mentre viene letto come se fosse stato scritto. Mi spiego: la scrittura notturna a capofitto di Bolaño, (scriveva di notte, non stop) – gareggiando contro tutti gli imprevisti per raggiungere l’ultima pagina – lavora sul lettore, producendo un effetto simile. Non importa che ora sia quando leggete I detective selvaggi o 2666 non mancherà molto prima che cadiate in una specie di trance, più o meno tra sonnambulismo e ipnosi. La prosa di entrambi i romanzi affascina più di quella di qualsiasi altro libro di Bolaño, perché lo scopo qui è raggiungere una specie di summa artistica, un armonioso e, al tempo stesso, disfunzionale intero, dove ciò che è cercato e raggiunto non è nient’altro che una teoria del mondo. Il che non implica che io abbia un’idea di come potesse essere scrivere I detective selvaggi o 2666. Dubito che parlasse molto di ciò con chiunque. Penso che preferisse discutere di ciò che stava leggendo e che, ciò che stava scrivendo, fosse una conversazione privata, solo sporadicamente espressa. Sebbene ci vedessimo spesso, la mia diretta esperienza della creazione di questo romanzo è minima. Sono stato nel suo ufficio solo due volte, dove infatti ho visto grafici e frecce. Mi ha fatto comparire un paio di volte nei suoi libri [22] , e mi ha chiamato due volte per farmi una domanda. La prima volta è stato per chiedermi come veniva chiamato un certo tipo di avvoltoio messicano, era un tacchino pennaiolo) e la seconda volta era per chiedermi un recipiente per costolette di maiale. Tutte e due le volte è stata mia moglie a dargli le risposte di cui aveva bisogno.
A pagina 260 di 2666, l’errante cileno Amalfitano riceve una visita notturna da una voce fantasma che gli parla di qualcosa che Amalfitano non capisce, qualcosa che la voce definisce come “storia scomposta” “storia smontata e rimontata” e questo qualcosa – Amalfitano capisce sebbene non comprenda – è ciò che era accaduto quando
“la storia una volta rimontata diventava qualcos’altro, un commento ai margini, una nota sapiente, una risata che tardava a spegnersi e rimbalzava da una roccia di andesite a una di riolite e poi al tufo, e da quell’insieme di rocce preistoriche usciva una specie di mercurio, lo specchio americano, diceva la voce, il triste specchio americano della ricchezza e della povertà e delle continue metamorfosi inutili, lo specchio che naviga e ha per vele il dolore.”
La voce, che sta definendo lo stesso 2666, potrebbe ben essere – così uno è portato a pensare sulla base di varie note cui allude [l’esecutore letterario di Bolaño, Ignacio] Echevarria in un post scriptum a 2666 – quella di Arturo Belano, protagonista de I detective selvaggi e presunto alter ego di Bolaño. Dico “presunto” perché a me sembra che con Belano, Bolaño abbia creato qualcosa di più interessante che il solito travestimento che uno scrittore usa per trasformarsi in un personaggio. Forse – penso io – Belano sarebbe lo stesso di Bolaño se Bolaño avesse scelto di essere Belano e non il Bolaño che finisce con lo scrivere Belano. Qualcosa del genere. Ha senso? Sì? No? Non penso. In ogni caso – un altro punto che mi sembra interessante – Belano è più un protagonista specchio che altro. Uno che, piuttosto che agire, sembra dedito – nel suo costante errare – a riflettere o a divorare le azioni e le voci di altri, come un buco nero. Seconde, terze e moltitudini di generazioni tendono a essere proiettate in Belano. Con ciò intendo dire che Bolaño era l’ultimo scrittore auto fantasticante che ho mai conosciuto, sebbene avesse ampio materiale con cui costruire la propria leggenda in vita, se avesse avuto questa inclinazione. Bolaño era un vero personaggio – per quelli che non l’hanno mai incontrato, le sue fotografie eloquenti, con Bolaño che guarda come un misto tra un esploratore vittoriano e un chitarrista di Bob Dylan nell’ultima band illegale – ma egli difficilmente ha parlato della sua storia, del suo passato, di ciò per cui ha vissuto e per cui è quasi morto. [23] A Bolaño non piaceva raccontare la propria storia. Come scrisse una volta in un pezzo su un giornale
“Ho sempre pensato che le autobiografie fossero odiose. Che perdita di tempo, il narratore che cerca di fare un borsellino di seta da un orecchio di scrofa, quando quello che un vero scrittore dovrebbe fare è catturare un drago e fare un borsellino di seta da quello.”
Tuttavia a volte infilava qualcosa in un’intervista e io l’avrei chiamato per chiedere al riguardo ma Bolaño avrebbe cambiato argomento e saremmo passati ad altro. [24] Ciò che Bolaño amava maggiormente era fantasticare su altre persone. Costruire storie, ipotesi, teorie cospiratorie, che comprendevano tutto dai concorrenti del Grande Fratello alla possibilità che Bin Laden fosse un ologramma prodotto nel laboratorio di alcuni agenti di sicurezza americani molto più in alto della CIA o del Pentagono. Questo gusto per la cospirazione è evidente in tutti i suoi libri, nella sua visione di una realtà alternativa, un presente scritto dal futuro, dall’anno/cimitero impossibile del 2666, dove ognuno non avrebbe più avuto quindici minuti di fama ma piuttosto quindici minuti per spiegarsi, per dimostrarsi degno di una nobile pietra tombale o di un resistente mausoleo. Per Bolaño il futuro era l’esilio finale e l’esilio è probabilmente il Tema dell’opera di Bolaño [25] , ma non fatevi un’idea sbagliata: l’esilio non è MAI stata la strategia di Bolaño come scrittore. E non solo ciò gli fa onore, ma lo separa da tutti gli altri che sognano ad occhi aperti la letteratura sudamericana, seguendo la corrente da conferenza a conferenza e che vendono le loro piccole tragedie e immense mitomanie. Come Cesara Tinajero e Benno von Archimboldi, Bolaño preferisce mitizzare se stesso scomparendo.
6) Malattia, morte, posterità
In termini strettamente letterari, il buco nero che ora occupa il posto dove una volta scrisse Bolaño, sarà impossibile da riempire: Bolaño – con molti libri ancora da pubblicare, con mezzo secolo dietro di lui, esattamente a metà, equidistante per età dal suo primo e dal suo ultimo – era uno di quei rari scrittori cardine, che danno la propria impronta a una nuova generazione attraverso il semplice piacere di ristrutturare certe forme auto compiacenti, contenuti strutturali che hanno raggiunto la facile e falsa immortalità del fossilizzato. In termini personali – riprendendo il postulato di Francis Scott Fitzgerald che “gli scrittori non sono esattamente persone“ – Bolaño era uno che riusciva sempre a sorprenderti. Una notte – giorni prima che fosse ricoverato in ospedale – Bolaño offrì un estemporaneo e brillante corso sull’arte di raccontare storie: fece ripetere uno scherzo estremamente brutto – uno scherzo che egli pensava fosse incredibile e che non riesco a raccontare qui, perché ancora non lo capisco – con piccole variazioni o cambi drastici, che non alterano mai l’intreccio. Non è esagerato dire che una persona potrebbe aver imparato molto di più là, in quel momento, che in anni di seminari di scrittura. C’era Bolaño, che sorrideva come un Buddha, mentre trangugiavamo whisky, Bolaño che mescolava il suo solito te camomilla con la parsimonia di un lord inglese in alcune colonie troppo lontane da Buckingham Palace. E mi sono chiesto qual è il segreto e il pericoloso ingrediente, che ci deve essere nelle tazzine di Bolaño; perché la verità è che l’uomo ti ascolterebbe con quasi pia dolcezza, poi prenderebbe un sorso e improvvisamente lascerebbe cadere una parola bomba che ti farebbe scuotere dalla paura e dal ridere allo stesso tempo. Perché Bolaño poteva essere spaventoso. Molto spaventoso. Tutto all’improvviso, sorridendo, se ne usciva con qualcosa come “ho un tipo di sangue che hanno solo quelli che hanno scritto I detective selvaggi “ o “gli scrittori non valgono niente. La letteratura non vale niente. La letteratura esiste solo per amore della letteratura. Per me è abbastanza.”
Ricordo Bolaño parlare di letteratura e decapitare intrusi e dilettanti (piltrafillas era una parola che gli piaceva sputare quando, con fervore quasi religioso, stroncava tutti quelli che l’avevano attaccato come indegni di carta inchiostro e computer) [26] . Ricordo Bolaño discutere sul destino dei concorrenti del Grande Fratello (mai Operation Victory) con lo stesso entusiasmo con cui parlava degli arrivi e delle partenze dei personaggi di Stendhal. Ricordo Bolaño ossessionato da ciò che poteva essere il colpo di scena alla fine del film Il sesto senso (Bolaño non andava al cinema, aspettava l’uscita del DVD e, nel frattempo, torturava le persone con ipotesi tipo “so che il ragazzo è un vampiro, vero?“). Ricordo Bolaño ballare spasmodicamente con “The Ketchup Song” (un singolo estivo che lo colpì sorprendentemente) o descrivere i suoi sogni (“i sogni sono come gli psichiatri, che ti curano ogni notte”) o film estremamente strani, di infima serie televisiva a tarda notte, i cui titoli egli dimenticava sempre (non ebbe mai il cavo TV, cosa che penso fosse perché sapeva che se l’avesse avuto sarebbe stato agganciato per sempre). Ricordo Bolaño cantare da solo orribili canzoni rock di Città del Messico, che pensava fossero capolavori del genere e che, per dire la verità, mi spaventavano un po’ per l’effetto quasi tipo Mr. Hyde che avevano su di lui. E ricordo Bolaño l’ultima volta che abbiamo parlato insieme, teorizzare che il prossimo grande salto nell’evoluzione dell’umanità sarebbe stato artificiale non naturale: gli uomini avrebbero trasformato se stessi in macchine per raggiungere le stelle distanti e “non aver da dipendere dai nostri merdosi corpi” brontolò. Naturalmente Roberto stava veramente parlando della sua malattia, della sua gravissima malattia al fegato; e quello era uno di quei momenti in cui Bolaño sembrava stare trasmettendo direttamente da uno dei suoi libri. Gli dissi allora che sembrava il replicante Roy Batty, modello Nexus 6 di Blade Runner, Bolaño – che sognava di “perdere la memoria e riportare indietro le lancette dell’orologio per ricominciare tutto da capo” – sorrise e disse: “Non lo faccio sembrare bello?”
Nella precedentemente citata ultima intervista di Mónica Maristáin Bolaño dice molte cose serie, con umorismo. Alla domanda, a quale personaggio letterario gli sarebbe piaciuto assomigliare dice: “A Sherlock Holmes Al capitano Nemo. A Julien Sorel, nostro padre, al principe Mishkin, nostro zio, a Alicia, nostra professoressa, a Houdini, que è una miscuglio di Alicia, di Sorel e di Mishkin”. Fa l’elenco dei libri preferiti, tra cui ci sono Moby Dick, Don Chisciotte, l’opera completa di Borges, John Kennedy Tool’s Una banda di idioti, La vita: istruzioni per l’uso di Perec, Il castello e Il processo di Kafka, Rayuela [Il gioco del mondo] di Cortázar, il Tractatus di Wittgenstein e il Satyricon di Petronio. Dice anche che immagina che il paradiso sia come Venezia, “si consuma e che si sa che niente perdura, nemmeno il paradiso, e che ciò alla fine non importa” e che l’inferno potrebbe essere solo Ciudad Juárez, “che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri”. Alla domanda sulla sua salute, Bolaño dice che ha scoperto che la sua condizione era seria nel 1992 e che la consapevolezza non lo ha cambiato in nessun modo, ma “ho realizzato che non ero immortale, il che a 38 anni, già era ora che lo sapessi”. Quando gli dicono che è considerato “il più probabile tra gli scrittori latinoamericani a resistere alla prova del tempo”, sorride e dice: “Questo deve essere uno scherzo. Sebbene sia vero che ho vissuto già molto, che è tutto ciò che conta.” Aggiunge che la parola postumo “suona come il nome di un gladiatore romano. Un gladiatore invincibile. O almeno questo vuole credere il povero Postumo per darsi valore.” Verso la fine Maristáin chiede: “Che cosa desidera fare prima di morire?” e Bolaño risponde: “Niente in particolare. Beh, preferirei non morire, chiaro. Però presto o tardi la distinta dama viene, il problema è che a volte non è una dama né tanto meno distinta, bensì come dice Nicanor Parra in una poesia, è una puttana caliente, che fa tremare i denti anche alle persone più navigate”. E aggiunge: “non credo nell’aldilà. Se esistesse, che sorpresa. Mi iscriverei immediatamente in qualche corso di Pascal”.
Quando in un’altra intervista, Conchita Penilla gli chiese: “Quale espressione vorresti vedere sul volto di noi lettori quando finiscono uno dei suoi libri?“ Bolaño replicò:
“Ecco due risposte; la tua è una bella domanda. Primo direi che ogni lettore è padrone del suo volto, e io non ho niente a che vedere con lo stato in cui rimane quel volto. E secondo che, se per caso fossero riusciti a vedere qualcuno nei miei libri, vicno a loro, allora sarei soddisfatto. Soprattutto uno simile che non chiude nessuna porta, che apre porte e finestre e poi scompare, perché ci sono molte cose da leggere e la vita non è così corta come le persone pensano che sia.”
La notte della morte di Roberto Bolaño nel luglio 2003 – dopo quindici giorni di agonia, durante una delle estati più calde a memoria d’Europa – subito dopo che ricevetti la telefonata che mi informava della sua fine, c’era un uomo fuori sulla strada che sbatteva un telefono pubblico e urlava “Parla con me!“ senza risposta. Una inequivocabile scena di un romanzo di Bolaño. Pochi giorni dopo, il campeggio a Casteldefells prese fuoco, il campeggio dove Bolaño aveva lavorato come guardiano notturno quando venne in Spagna inizialmente e dove nel 1979 scrisse Anversa, nell’ultimo paragrafo del quale c’è una completa dichiarazione di principi:
“Di quanto ho perso, irrimediabilmente perso, desidero recuperare solo la disponibilità quotidiana della mia scrittura, linee capaci di prendermi per i capelli e tirami su quando il mio corpo non vorrà più reggere. (Significativo, ha detto lo straniero). In modo umano e in modo divino. Come quei versi di Leopardi che Daniel Biga recitava su un ponte nordico per armarsi di coraggio, così sia la mia scrittura.” [Anversa, pag. 112]
Il campeggio bruciò, finché non rimase niente mentre, allo stesso tempo, le spoglie mortali di Bolaño – egli ha sempre voluto un funerale vichingo – venivano trasformate in cenere e sparse nelle acque del Mediterraneo. Un ultimo rispettoso omaggio alla realtà della sua narrativa, pensai allora.
Ho iniziato tutto ciò con un ricordo personale e non è una cattiva idea finire con un altro: ricordo la notte del marzo 1999, quando incontrai Bolaño la prima volta ed egli immediatamente mi invitò fuori a pranzo quel fine settimana, una cosa importante come è essere invitato nei posti quando ti sei appena trasferito in una nuova città, nel senso che Barcellona allora era nuova per me. Bolaño credeva che “amicizia fosse tutto ciò che è rimasto dal tempo in cui gli uomini erano dei e gli dei uomini. O effettivamente c’è amore anche ma l’amore non vede così chiaramente”. Bolaño, se decideva di essere tuo amico, era un vero amico e io lo sapevo sin dall’inizio. Sapevo anche che Bolaño sarebbe stato un amico come nessun altro avessi mai avuto prima o avrei mai più avuto. Ricordo che mi diede precise ma complicate indicazioni, con quella sua voce, che è ancora la voce dei suoi romanzi e che io ho seguito le indicazioni senza fare domande e anziché andare in treno a Blanes salii su un altro diretto a Tarragona e lo chiamai perso da qualche parte per chiedere aiuto e nuove indicazioni e che egli – drammatico e sopraffatto dal ridere – disse: “Adesso sei davvero fottuto, Rodrigo. Sei perso”. E io dissi: “Bene, allora vado a a casa”. E lui disse: “Ma non sarai mai in grado di andare a casa, Rodrigo. Mai”. E allora io pensai: “Questo tipo è psicopatico”. Più tardi, col tempo, ho capito che quando Bolaño mi augurava eterno e infinito errare, stava veramente parlando di qualcosa che non aveva niente a che vedere con un treno perso. E che stava ridendo di tutto ciò. E che tutto questo – assolutamente tutto, poesia, letteratura, vita, morte – è nei suoi libri in cui è sempre un piacere entrare e immediatamente perdercisi, come essere in grado di ritrovarsi. E tornare a casa, per tornare a questo bellissimo e mostruoso pianeta, cambiato per il bene, per il meglio, per sempre.
* Sudacas è un termine spregiativo per indicare i sudamericani in Spagna
NOTE DELL’AUTORE
[1] Come spiega Bolaño in un’intervista con la scrittrice messicana Carmen Boullosa in BOMB: “La verità è che non credo veramente nella scrittura. Nella mia almeno. Uso la parola scrivere come antonimo di aspettare. Al posto dell’aspettare, c’è lo scrivere. In ogni caso è abbastanza probabile che mi stia sbagliando e che scrivere sia un’altra forma di aspettare, di rimandare le cose. Ma mi piacerebbe credere che non sia così’.
[2] I primi due sono pubblicati negli Stati Uniti da New Directions; il terzo sarà pubblicato presto, sempre da New Directions. In Italia Stella distante è stata pubblicata nel 1999, trad. Angelo Morino, per la Sellerio ed. Notturno cileno è stato pubblicato nel 2003, trad Angelo Morino per la Sellerio ed. Amuleto viene pubblicato nel 2001 trad. Marchetti, P. per la Mondadori ed. Nel 2010 viene pubblicata una nuova edizione da Adelphi, nella traduzione di Ilide Carmignani.
[3] In una delle sue ultime interviste – con Mónica Maristáin, per l’edizione messicana di Playboy – è stato chiesto a Bolaño “Sei cileno, spagnolo o messicano?” ed egli rispose sinteticamente: “sono latinoamericano”. Ma quando vinse il premio Rómulo Gallegos, parlò diffusamente di come definiva la sua origine e la sua collocazione: “Anche se da più di vent’anni vivo in Europa, la mia sola nazionalità è quella cilena, ma ciò non impedisce che io mi senta profondamente spagnolo e latinoamericano. Nel corso della mia vita ho vissuto in tre paesi diversi: Cile, Messico e Spagna. Ho fatto quasi tutti i mestieri, tranne i tre o quattro che chiunque abbia un minimo di decoro rifiuterà sempre di esercitare. (Tra parentesi p. 26)… Possono essere molte le patrie, mi viene in mente ora, ma uno solo il passaporto, e quel passaporto evidentemente è la qualità della scrittura. Che non vuol dire scrivere bene, perché questo può farlo chiunque … Allora, che cos’è una scrittura di qualità? Ebbene, è quello che è sempre stata: saper ficcare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso”. (Tra parentesi p. 43)
[4] Misteriosamente o meno: Bolaño non poteva sopportare Henry James. Non mi disse mai perché, non importa quante volte gli chiesi di spiegarmelo.
[5] “Per quanto riguarda il mio lavoro, non so cosa dirti. Immagino che sia realista. … Ma non è ciò che conta alla fine; ciò che conta è il linguaggio e la struttura, il modo di guardare le cose” spiega Bolaño in una delle interviste precedentemente citate.
[6] Di prossima pubblicazione – come 2666 – negli Stati Uniti da Farrar, Straus and Giroux.
[7] Una nota per maniaci e perfezionisti: nel breve passaggio introduttivo di Stella distante, Bolaño si riferisce al suo eroe come “Arturo B, veterano delle guerre fiorite e suicida in Africa, che non rimase soddisfatto del risultato finale”. (Stella distante pag. 15) che risultò non proprio vero, dal punto di vista narrativo: Bolaño – in successive conversazioni – riferì del “suicidio” di Belano più come un atto simbolico che fisico e progettava di riportarlo a Città del Messico in un frammento di racconto breve chiamato “Sabios de Sodoma”, che comparirà nel libro El secreto del mal (2007).
[8] Bolaño stesso pensava de I detective selvaggi che appartenessero al genere del romanzo fiume e scrisse “Penso di vederlo come un’altra lettura di Huckelberry Finn di Mark Twain, uno dei molti che hanno seguito la sua scia; il Missisipi de I detective selvaggi è il fiume di voci della seconda parte del romanzo”. Un fiume che è collegato – vale la pena aggiungere – agli affluenti di Stella distante, Amuleto e Notturno cileno, che in nessun modo li sminuisce o li rende meno potenti.
[9] Il più malvagiamente delizioso fantasma di tutti può essere quello di José Miguel Ibanez Langlois – prete dell’Opus Dei e leggendario monopolistico critico letterario per il giornale conservativo cileno El Mercurio durante la dittatura di Pinochet, che scrisse sotto il nome di Ignacio Valente – che diventa Sebastián Urrutia Lacroix, alias H. Ibacache in Notturno cileno.
[10] Mai dimenticare che Bolaño, prima di essere un romanziere era innanzitutto e per sempre un poeta. E che una delle sue raccolte di poesie è chiamata Los perros romaticos (I cani romantici), un titolo che – mi viene in mente ora – è un gioco conscio e inconscio sul titolo de I detective selvaggi, perché rimescolando le carte e redistribuendole, potremmo arrivare al più “normale” Cani selvaggi e Detective romantici.
[11] Vale la pena sottolineare che Bolaño – diversamente da molti scrittori latinoamericani – non era molto politico nelle sue affermazioni pubbliche, così come non parlava quasi mai della sua vita avventurosa, preferendo preservare il materiale da filtrare e infiltrare nella sua narrativa.
[12] “Tutti i miei libri sono collegati. Ma è noioso parlarne”, disse Bolaño al giornalista Luis Garcia.
[13] Il massacro di Tlatelolco avvenne il 2 ottobre 1968 a Città del Messico. Forze militari fecero fuoco su un pacifico raduno di studenti, uccidendo protestanti inermi, passanti e ragazzi. La sparatoria durò tutta la notte. Alcuni testimoni accusano di aver visto caricare corpi nei cassonetti dell’immondizia per essere rimossi. Una controversia circonda ancora il numero ufficiale delle vittime e il numero degli arrestati.
[14] Una preoccupazione che apparentemente non esisteva per Bolaño. Forse aveva a che fare col fatto che sapeva di essere malato e mortale e perciò era più consapevole che la vera battaglia era con la vita e con la scrittura, non con la morte e con l’essere letto. Inserisco qua una cosa che mi ha spedito una volta per posta elettronica e che mi sembra spieghi molto bene la sua idea della futilità della medaglia di bronzo:
“Non so come possano esserci scrittori che credono ancora nell’immortalità letteraria. Capisco quelli che credono nell’immortalità dell’anima, posso addirittura capire quelli che credono nel Paradiso e nell’Inferno e nella stazione di passaggio del Purgatorio, ma quando sento uno scrittore parlare dell’immortalità di certe opere letterarie, gli darei uno schiaffo. Non parlo di picchiarlo, ma di schiaffeggiarlo una volta e poi probabilmente abbracciarlo e confortarlo. So che non sarai d’accordo con me su questo, Rodrigo, perché sei fondamentalmente una persona non violenta. Anch’io. Quando dico schiaffeggiarlo, ciò che ho in mente è un tipo di schiaffo per il bene della persona, come quelli che danno alle persone isteriche nei film, così questi reagiscono e smettono di urlare e si salvano la vita.”
[15] Disse Bolaño: “Naturalmente mi piacerebbe avere la mia propria tradizione letteraria, una molto breve, con stanze per solo due scrittori, forse tre (e probabilmente nessun libro) un lampo di amnesia di una tradizione, ma da un lato mi sento estremamente modesto relativamente alla mia opera e dall’altro ho letto troppo (e apprezzato così tanti libri) per immaginare qualcosa di così oltraggioso”.
[16] 16 Se non fosse stato uno scrittore, Bolaño – come spiegò in un’intervista con Mónica Maristáin – avrebbe preso in considerazione un altro mestiere “Mi sarebbe piaciuto essere un investigatore di omicidi, molto di più che scrittore. Di ciò sono assolutamente sicuro. Qualcuno che può tornare solo, di notte, nella scena del crimine, e non spaventarsi dei fantasmi. Allora sì che sarei impazzito forse, però questo, essendo poliziotto, si risolve con un colpo in bocca.’ Altri possibili mestieri per Bolaño erano rapinatore di banca, gigolò, regista. “O essere ancora bambino e giocare in una squadra di calcio allucinante.”
[17] Nel pezzo Bolaño scrive: “In realtà la letteratura latinoamericana non è Borges né Macedonio Fernández né Onetti né Bioy né Cortázar né Rulfo né Revueltas e nemmeno quel duetto di vecchi maschioni formato da García Márquez e Vargas Llosa. La letteratura latinoamericana è Isabel Allende, Luis Sepúlveda, Ángeles Mastretta, Sergio Ramírez, Tomás Eloy Martínez, un certo Aguilar Camín o Comín e molto altri nomi illustri che in questo momento non ricordo” (pag. 171). E conclude tra il divertito e l’afflitto: “È abbastanza per farvi pensare che non ci sia speranza”. Bolaño disprezzava la letteratura latinoamericana che faceva ricorso al latinoamericanismo per esportare. A Bolaño piaceva anche attaccar briga, causare problemi, polemizzare. E quando lo faceva, Bolaño credeva solo in Borges. “Quando Borges morì, tuttò improvvisamente finì. Fu come se fosse morto Merlino”, scrive in uno dei suoi saggi. E conclude “Borges deve essere riletto ancora, di nuovo”.
[18] A volte, conversazioni con Bolaño iniziavano come semplice scambio di notizie quotidiane, ma prima di rendersene conto, le cose si dirigevano verso un territorio metafisico, come se Bolaño stesse già parlando da una zona crepuscolare: una delle sue idee ricorrenti era il sospetto di essere morto dieci anni prima, in un ospedale di Gerona, quando gli era stato diagnosticato un grave caso di pancreatite e che tutto ciò che gli era accaduto nell’ultimo decennio – figli, moglie e libri – era solo la sua allucinazione finale, il misericordioso prolungamento dell’ultimo secondo di un uomo che sta per morire. In più di un’occasione Bolaño confessò che avrebbe voluto essere “uno scrittore di fantascienza, come Philip K. Dick.’ Ed è chiaro che l’ossessione prima citata di Bolaño è un’ovvia e perfetta ossessione dickiana. Un altro dettaglio: uno dei romanzi di Dick preferiti da Bolaño – che è spesso citato nella narrativa e nella poesia cilena e che “mi sembra sempre più realistico man mano che gli anni passano e io invecchio” – era Dr. Bloodmoney, Or How We Got Along After the Bomb (1965). Nel libro, l’astronauta Walt Dangerfield è condannato ad orbitare attorno alla terra all’infinito dopo un olocausto nucleare, diventando una specie di disk jockey dello spazio trasmettendo annunci e canzoni dal suo modulo per illuminare il nostro pianeta di mostri.
[19] La casa editrice Anagrama ha annunciato l’imminente pubblicazione de La Universidad desconocida, all’inizio del 2007: un libro monumentale di poesia narrativa, più di un migliaio di pagine, che finisce per formare una specie di mega trilogia con I detective selvaggi e 2666.
[20] Spiegò Bolaño:
“L’America Latina è stata il manicomio d’Europa così come gli Stati Uniti ne sono stati la fabbrica. La fabbrica ora è in mano ai caposquadra, e i matti evasi dal manicomio ne sono la mano d’opera. Il manicomio, da più di sessant’anni, sta bruciando nel proprio olio, nel proprio grasso.” [Il gaucho insostenibile pag. 170]
[21] Spiegò Bolaño:
“I detective selvaggi è un romanzo molto lungo ma leggibile. Mi piace che le cose illeggibili siano brevi… [intervista di Elsa Fernandez-Santos. Paula, agosto/1998 ] 2666 è un’opera così enorme che potrebbe rovinarmi la salute, che è già di per sè delicata. Quando ho finito I detective selvaggi ho veramente giurato a me stesso che non avrei mai più scritto un romanzo fiume. Ero addirittura tentato di distruggerla tutta, finché la vidi come un mostro che mi divorava… [intervista di Antonio Lozano. Qué leer, gennaio/2001] Posso dire qualcosa di breve a questo proposito? No”.
[22] In 2666 compaio nei Giardini di Kensington prendendo appunti per il mio romanzo I Giardini di Kensington, compaio ancora in questo libro di racconti, El secreto del mal .
[23] È risaputo che Bolaño ritornò nel Cile di Pinochet dal Messico “per combattere”. Fu arrestato e accusato di essere un “agitatore straniero” e fu assurdamente considerato “uno dei dieci uomini più ricercati nel paese, almeno”.
“Sono stato molto fortunato… Due poliziotti che erano stati miei compagni di scuola quando avevo quindici anni mi tirarono fuori dal carcere. Uscii dopo otto giorni perché c’erano quei due; altrimenti sarebbero potuti passare uno o due mesi. Un giorno invece incontrai un poliziotto che mi dice: ‘Non ti ricordi di me? Eravamo compagni di scuola’. Io non mi ricordavo niente. Fu impressionante. … [intervista di Mihaly Dés] “Fino a quel momento avevo pensato di stare in Cile per sempre, ma quando mi lasciarono andare dissi: ‘vado’ “Quando tornai in Cile, poco prima del golpe contro Allende, credevo nella lotta armata, nella rivoluzione permanente, e pensavo che quello fosse il momento. Tornai in Cile pronto per combattere, e per continuare a combattere in Perù, in Bolivia… Dopo essere stato arrestato, sono stato in prigione otto giorni, sebbene non tanto tempo fa, in Italia, mi hanno chiesto ‘Che cosa ti è successo? Puoi dirci qualcosa dei tuoi sei mesi in prigione?’ Dapprima mi ci avevano messo per meno tempo. È il tipico tango latinoamericano. Il mio primo libro pubblicato in Germania dice che sono stato in prigione un mese; il secondo, dato che il primo non vendette tanto, alza a tre mesi; il terzo dice quattro; il quarto ne fa cinque e, di questo passo, ben presto diranno che sono ancora in prigione.” [intervista di Eliseo Alvarez]
[24] Molte tracce sono da cercare nei magnifici racconti selezionati da New Directions – Last Evenings on Earth (2006) – che raccoglie i racconti più autobiografici di Bolaño. Qua racconta e mitizza la sua partenza dal Cile, la sua relazione col padre e i giorni da cacciatore di premi letterari di provincia in Spagna. Ma la verità è che a Bolaño non piaceva parlare molto di tutto ciò. Bolaño non voleva essere uno di quegli scrittori che giocavano alla persecuzione blues alle conferenze internazionali. Tutt’al più la sua vera vita passata gli sembrava un buon soggetto, materia prima per la creazione della sua narrativa.
[25] In un’intervista con Sergio Paz, Bolaño dice: “La mia mia opinione della letteratura cilena in esilio è che intanto non è letteratura e poi non è in esilio. In senso stretto non c’è letteratura cilena in esilio e quella che c’è mi sembra piuttosto brutta.”
[26] Un altro frammento da un’altra e-mail di Bolaño:
“Forse se c’è una domanda che dovremmo porci è questa: che cosa è rimasto del boom? O forse dovremmo semplicemente smettere di parlare del boom e parlare invece di un gruppo di scrittori latinoamericani che negli anni ’50 ’60 hanno cercato di cambiare la letteratura nella lingua spagnola sebbene, una volta che l’abbiamo ottenuto, temo che finiremmo col concordare che la letteratura in lingua spagnola aveva già iniziato la trasformazione negli anni ’40 in modo più tranquillo e anche più radicale. E che come fenomeno estetico, fu meno importante del modernismo. Forse se c’è una domanda che dovremmo farci è questa: che cosa è rimasto del boom? Forse la domanda sarebbe posta meglio in termini freudiani: dobbiamo uccidere i sopravvissuti del boom? È chiaro che il boom è una occupazione. Certamente una occupazione, sebbene sentita meno dai padri fondatori che dai figli putativi. Persone perfettamente qualificate a lavorare in banca, che improvvisamente si dedicano alla scrittura, forse sotto l’effetto persistente di qualche febbre o influenza. Non scrivono perché hanno molto o niente da dire, ma perchè sono abbagliati dallo splendore, dalla rispettabilità che il boom ha portato alle loro professioni. In profondità il problema qui è la schizofrenia, non è vero? Qualcosa di simile a ciò che accade ai militanti di sinistra, il cui discorso veramente è di destra e che tuttavia insistono ad essere di sinistra. E così abbiamo, per esempio, uno di sinistra che sostiene la dittatura di Castro.”
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