portada-viva-musica_med

La salsa e il suicidio. Andrés Caicedo: cultura giovanile e cultura della violenza in Colombia / 2

Francesco Varanini Andrés Caicedo, SUR

Pubblichiamo la seconda parte del saggio di Francesco Varanini su «Viva la musica!» di Andrés Caicedo, tratto dal suo libro «Viaggio letterario in America Latina». Lunedì la terza e ultima puntata.

di Francesco Varanini

Un absolute beginner colombiano

“Andrés Caicedo si tolse la vita a Cali il 4 marzo del 1977 con sessanta pastiglie di Seconal. Non aveva ancora compiuto i 25 anni ma si era reso conto che vivere oltre quella data era qualcosa di evidentemente disonesto.” ¡Qué viva la música!, scritto tra tra il ‘73 e il ‘74, era stato pubblicato un mese prima.  Caicedo era vissuto velocemente. A quattordici anni scriveva sceneggiature teatrali (adattò Poe, Melville, Vargas Llosa). A diciannove scrive il primo racconto lungo (El atravesado, storia di una banda giovanile, di ragazzi che erano fascisti senza saperlo). Amava svisceratamente, Poe, Henry James, Lovecraft e il romanzo gotico. Aveva il gusto dei risvolti orridi, dei dettagli kitsch, degli ambienti sordidi. Ma innanzitutto era uno straordinario cultore di cose cinematografiche.

Lontanissimo da ogni approccio severo, macinava iniziative. Per lui le attività culturali erano gioco, paradosso e dissipazione (“Dove meglio si pratica il ritmo della solitudine è nei cinema. Impara a sabotare i cinema”). Anima della rivista Ojo al cine, a diciassette anni pubblicava articoli di critica, a vent’anni fondava il Cineclub di Cali. Redigeva sterminati elenchi di film visti, scriveva deliranti dichiarazioni d’amore per Kim Novak, racconti come quello dove il protagonista va a Alphaville per cercare di vendere a Roger Corman due sceneggiature horror. Nel segno di un amore sviscerato per l’immaginario cinematografico, nelle sue pagine critica e invenzione si fondono: Jerry Lewis è qualcosa di più del comico stralunato, è un’ombra notturna che a Westwood, L.A., attira ragazzini, e ostenta al polso, sul braccio peloso, un orologino da donna.

Il diritto alla biografia

“Colui che si appropria del diritto di avere una biografia ne ha una ed è lui stesso a narrarla”. C’è in Caicedo anche questo gioco: costruire con determinazione e coerenza la propria immagine.

Non però una costruzione alla Radiguet. Che adolescente aveva progettato la propria vita come opera letteraria – ma ma solo per raggiungere la fama, e goderne gli agi. (Radiguet muore a vent’anni di tifo. All’opposto di Caicedo, ammiccava al mondo dei padri. Scriveva per essere letto dagli adulti. Le sue trasgressioni sono freddamente programmate. Ipocrita e moralista, condanna i suoi atti, pur mentre li compie.)

Nessun legame tra Caicedo ed i giovani Radiguet – oggi così numerosi – che, malinconicamente, curano più la propria apparenza di scrittori che la propria opera, il proprio aspetto fisico più che le proprie pagine (“ora nascono biografie senza poeti”, nota Lotman).

Come Salinger, Caicedo lavora per imporre agli altri il Caicedo da Caicedo progettato. Ma mentre Salinger, nell’orgoglioso isolamento del suo eremo, in un villaggio del New Hampshire, sopravvive  alla propria opera, Caicedo resta nel ricordo, più che come autore, come personaggio di romanzo; come protagonista del proprio romanzo autobiografico.

María del Carmen e Holden Caufield condividono lo stesso nichilismo (scrive Salinger: “Caufield respinge la società non perché non sia abbastanza coraggioso, ma perché non vede nessuna società che possa accettarlo”). Ma lo sguardo di Salinger è già nel Giovane Holden quello di un adulto che si guarda alle spalle. Ancora più distaccato è lo sguardo nella saga dei Glass: l’autore prende via via le distanze dal mondo narrato, forse proprio perché quel mondo fa paura. Caicedo invece vi aderisce totalmente – l’autore si interna nel suo mondo testuale fino a scomparire con esso.

Caicedo, scomparendo per tempo, ha evitato di sporcare la propria biografia con conversioni e ripiegamenti; e allo stesso tempo ha evitato di inquinare la propria bibliografia con testi faticati e vuoti. Ha scelto di uscire di scena prima di cedere a compromessi e a legami ambigui con il mercato. Ed ha cercato con determinazione una sola forma di successo: quello postumo. Come aveva lasciato scritto nelle pagine finali di ¡Qué viva la musica!: “non abbassarti a trafficare per raggiungere la celebrità. Se lasci opere, muori tranquillo, confidando in pochi buoni amici.”

Come progetto e desiderio

Ma perché progettare e desiderare a venticinque anni la propria autodistruzione?

Il comportamento di María del Carmen, e di Caicedo, potrebbe essere interpretato come espulsione della depressione da se stessi nel tentativo di farla sorgere nella società: un modo per colpevolizzare i padri, che hanno creato questa società ipocrita e ingiusta. “Una specie di suicidio simbolico: una specie di autoamputarsi di un giovane ramo dall’albero della società, per porsi alla società stessa come giovane ramo tagliato, affinché la stessa società si senta un albero che costringe i suoi rami ad autoamputarsi da lui: per indurre cioè l’albero a sentirsi un cattivo albero che invece di portare ai giovani rami qualcosa che li vivifichi, porta loro qualcosa da cui si sentono minacciati nella loro sopravvivenza.” [3] E sarebbe questa una lettura acuta, che spiega molte cose. Una voce saggia, autorevole, dalla parte di una società che cerca l’equilibrio e la ragione di tutto, e vuole guardare al domani comunque con fiducia. Ma anche una voce ancora troppo vicina a quella del padre di María del Carmen; degli adulti con i quali lei aveva rinunciato a parlare; degli adulti che hanno ogni opportunità per fare conoscere ed imporre il loro punto di vista. E noi qui non possiamo darle spazio, se vogliamo dare voce a Caicedo.

Di queste interpretazioni Caicedo non saprebbe che farsene. Le sintesi magnanime le lascia volentieri a qualcun altro. Lui spende faziosamente il suo talento. Ne fa una voce di parte; aspra e sgradevole magari, e però del tutto sincera. Hard come certi testi del rock, ma anche insensatamente dolce e quotidiana come certi testi di salsa.

A lui non interessa, come invece piace fare a Radiguet, raccontare storie per adulti. Né interessa colpevolizzarli. Importa vivere, finch’è possibile, una vita degna di questo nome. Importa lasciare una testimonianza, una traccia del proprio passaggio. E della propria rabbia. Anche a nome di tutti quei ragazzi che per vivere e per ballare non possono perdere tempo a scrivere. (Anche qui la relazione tra Caicedo e i suoi personaggi è strettissima. Lui avrebbe voluto scrivere solo per ragazzi dai dodici ai quindici anni: si riconosceva nella loro crudeltà evidente, non dissimulata).

Estremo gesto di affetto per se stesso e per i pochi amici: “c’è già così poca gente chi mi sopporta, cosa sarebbe di me se non mi sopportassi nemmeno io?”

Estrema testimonianza di una adolescenza che rifiuta il mondo adulto. “L’orrore comincia per l’uomo quando intuisce quali conseguenza svantaggiose può avere la sua necessità di cultura e quando cerca rifugio impossibile in una innocenza perduta”. La scelta di autodistruggersi nasce dunque dall’impossibilità di scegliere. Perché le due vie appaiono entrambe impraticabili: è impossibile chiudersi nell’infanzia, ed è inaccettabile il mondo dei genitori.

La violenza in Colombia

Disagio, sorda rabbia della generazione cresciuta in Occidente nel dopoguerra, nell’epoca del benessere e dello stallo atomico. Anche di questo ci parla Caicedo. Ma molto di più, tra le righe, senza esplicitare quasi niente, ci dice dell’arretratezza delle campagne, dell’instabilità politica, del dissesto economico, della guerriglia endemica, della violenza diffusa: ci parla cioè del suo paese.

Terribile la storia della violenza in Colombia, lacerata da conflitti insensati, flagellata da attentati, da faide crudeli che coinvolgono per l’arco di generazioni intere famiglie.

Partiti armati, eccidi, coprifuoco, tortura. Quando Caicedo vive e scrive, sono ormai cinquant’anni che questa guerra sucia, ‘guerra sporca’, insanguina la Colombia. [4]

Nonostante le sue dimensioni e le ricchezze naturali, nonostante la collocazione geografica senza eguali (affacciato sia sul Pacifico sul Mar del Caribe, confinante con Panamá, ma anche immerso nell’Amazzonia), il paese resta una periferia del mondo. A nessuno è importato veramente cosa accadeva in Colombia, perché ciò che accadeva in Colombia non aveva riflessi sugli equilibri mondiali. E la Colombia abbandonata a se stessa è diventata un focolare di violenza gratuita, polticamente forse oggi irragionevole, ma ormai economicamente necessaria. Per il contadino del Magdalena Medio arruolato nelle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, o per il baraccato di Medellín assoldato dai Cartelli della droga, usare le armi è un lavoro. E la soluzione dei conflitti politici e finanziari passa quasi sempre anche, per vie contorte, attraverso l’esercizio della forza bruta. Una prepotenza – di fronte alla quale la legge è retorica, o carta straccia – che tutto il mondo ha conosciuto, da quando fuorilegge colombiani hanno assunto il controllo del mercato della coca.

È una violenza peculiare, tipicamente latinoamericana. Non la violenza incombente ma lontana della bomba atomica e degli eserciti chiusi nelle loro basi, nel loro mondo di esercitazioni e di guerre simulate. Una violenza gratuita e diffusa, ma sempre vicinissima, esercitata da chiunque all’angolo di ogni strada, con armi da fuoco e da taglio alla portata di chiunque.

Una violenza che svaluta la vita, e che rende la morte presenza quotidiana. Si può perdere la vita nel corso di conflitti a fuoco con le forze dell’ordine, per attentato, per un regolamento di conti, ma anche futilmente per un furto da due lire, o per il gol subito da una squadra di calcio.

Di questo Caicedo non parla a voce alta. Non si sofferma ad osservare corpi straziati, famiglie distrutte, non divide in buoni e cattivi, non prende partito. Non parla in apparenza che di musica e di sesso. Eppure nelle sue pagine questa violenza si respira, come per le strade di Medellín o di Cali. Cantare nella Londra degli anni sessanta “Spero di morire prima di diventare vecchio” è tutto sommato abbastanza facile. Gridare negli anni ‘70 a Cali Viva la musica! è più difficile. È un gesto politico di rara forza.

NOTE

3. Le interpretazioni di Fornari interessano qui proprio in quanto datate: intrinsecamente legate a un preciso momento storico-culturale – che è lo stesso nel quale nasce e matura le sue scelte il giovane Caicedo: Guerra Fredda, contrapposti imperialismi statunitense e sovietico, emergere della “contestazione giovanile”.

Fornari parte da una interpretazione psicoanalitica della guerra come elaborazione paranoica del lutto, ovvero come modalità di esportazione al di fuori del gruppo della ostilità rivolta al proprio oggetto d’amore. I membri del gruppo (e per gruppo possiamo intendere sia lo Stato che la famiglia) assumono un atteggiamento difensivo che li porta a attribuire ad altri, e cioè al mondo che sta al di fuori del gruppo, le responsabilità di ciò che nel gruppo non funziona. Il nemico diventa il capro espiatorio, il bersaglio della violenza, liberando così l’interno del gruppo (lo Stato, la famiglia) da comportamenti orientati al conflitto.

Fornari nota poi che nel mondo del Muro di Berlino, nel quale e del quale scrive, la possibilità di rivolgere verso il nemico esterno la propria aggressività è negata dalla “situazione atomica”. Lo scenario di un conflitto nucleare, infatti, implica non solo l’eliminazione del nemico, ma anche la ritorsione da parte del nemico. Il gioco della guerra diventa così soggettivamente troppo pericoloso: scatenare la guerra significa rischiare la propria autodistruzione (Fornari parla di “prospettiva pantoclastica”).

Insomma: la “situazione atomica” comportando il rischio di autoeliminazione dello stesso soggetto, impedisce a quest’ultimo di esportare le pulsioni aggressive verso un nemico esterno. Di conseguenza, nota Fornari, il momento storico è caratterizzato da una spiccata tendenza al crearsi di conflitti intrasistemici. Conflitti interni allo Stato (conflitti di classe, movimenti di massa, guerriglia), e interni alla famiglia (conflitti tra padri e figli).

Non potendo dirigere la violenza verso l’esterno, si pone dunque il problema di come reimportarla all’interno del proprio mondo (il proprio paese, la propria famiglia). Fornari chiama “funzione omega” la funzione di importazione del male che il gruppo vorrebbe, ma non può più, espellere. Il rock, nel senso in cui è inteso in queste pagine, è un tipico fenomeno omega: descrive la violenza che è all’interno delle metropoli, è segno di conflitto, è importazione all’interno di un universo culturale di segni dissonanti, trasgressivi.

La giovane protagonista di ¡Qué viva la música! copre un ruolo omega: è il disadattato, il deviante, che fa scoppiare i conflitti latenti nella famiglia, e che la famiglia vorrebbe espellere, in quanto testimonianza del male, incarnazione della violazione delle norme.

4. Dopo la guerra di indipendenza, conclusasi nel 1819, e l’attentato perpetrato nel 1828 contro la vita del Libertador Simón Bolívar, si ebbero una rivoluzione conservatrice (1851), cinque guerre civili (1860, 1876, 1885, 1895) e la cosiddetta Guerra dei mille giorni, iniziata nel 1889.

Segue una egemonia di quasi quaranta anni del Partito Conservatore, che però nel 1930 si presentò diviso alle elezioni, e perse il potere. Prende così il via la cosiddetta Repubblica Liberale; e con essa le crudeli vendette dei liberali nei confronti dei conservatori. Con al centro della scena sempre i due partiti (allora come oggi divisi al loro interno) ha inizio la guerra sucia, stagione di violenza non ancora chiusa. Nel 1946 tocca ai liberali presentrsi divisi alle elezioni presidenziali: da un lato Gabriel Turbay, sostenuto dall’apparato del partito, dall’altro Jorge Eliécer Gaitán, liberale di sinistra, leader carismatico, di gran seguito popolare.

I liberali perdono così il potere. Sotto il governo del conservatore Mariano Ospina Pérez l’instabilità politica raggiunge il livello di guardia: è un susseguirsi di scontri armati, manifestazioni, scioperi. Il capo del governo e i capi liberali istigano alla violenza. Solo Gaitán cerca una via differente. Il 7 febbraio 1948 convoca una manifestazione contro la violenza. Decine di migliaia di persone sfilano per le vie di Bogotà in silenzio, con le bandiere abbrunate. Due mesi dopo, il 9 aprile, Gaitán cade vittima di un attentato nel centro della città. I sicari sono linciati dalla massa inferocita, ma i mandanti restano ignoti. La rabbia popolare pare incontrollabile, e si allarga a tutto il paese: sono giorni di mobilitazione collettiva, ma anche di saccheggi.

Nelle elezioni del 1949, dopo uno scontro feroce, prevalgono ancora i conservatori. Di fronte ad un uso scientifico della persecuzione e della violenza di Stato (incendiate le sedi di giornali, la sede della direzione del partito, le abitazioni di ex presidenti) i liberali rispondono con la costituzione di gruppi armati. Siamo alla guerriglia. Il 13 giugno 1953 il generale Gustavo Rojas Pinilla prende il potere con un colpo di stato, appoggiato dai liberali e da qualche conservatore. Rojas promuove una grande campagna di pacificazione. Una amnistia convince molti guerriglieri a lasciare le armi. Un indulto fa uscire dal carcere migliaia di detenuti, anche autori di orribili delitti politici. Ma alla fine del 1954 l’esercito massacra contadini inermi.

È la scintilla che accende di nuovo la violenza. Rojas da un lato censura la stampa e si arricchisce a spese della nazione. Ma dall’altro, in particolare attraverso la figlia María Eugenia, porta avanti una efficace politica populistica, che migliora il livello di vita del sottoproletariato urbano. Nel ’57 Rojas è deposto: contro di lui si sono coalizzati i due partiti tradizionali e settori dell’esercito. Alberto Lleras (liberale) e Laureano Gómez (conservatore) firmano in Spagna l’accordo che dà vita al Fronte Nazionale. L’accordo prevede che per sedici anni esponenti dei due partiti si alterneranno al governo. Il governo Lleras ottiene nei primi anni una nuova pacificazione nazionale. Ma restano aperti focolai di insurrezione.

La guerriglia è ormai profondamente insediata in diverse zone del paese. Con i liberali al governo, la leadership politica della guerriglia passa al Partito Comunista. Già negli anni cinquanta i comunisti avevano combattuto a lato dei liberali, ma poi non avevano accettato l’amnistia proposta da Rojas, e si erano preparati alla resistenza, organizzando politicamente e militarmente in diverse zone del paese un controstato: le cosiddette Repubbliche Indipendenti Contadine. I contadini armati sono in effetti ora in grado di mettere in discussione il potere dei latifondisti nelle campagne. Il successo della Rivoluzione Cubana e le conseguenti pressioni statunitensi spingono il governo conservatore a prendere contromisure.

Agli inizi degli anni ’60, con grandi operazioni militari le Repubbliche Indipendenti sono attaccare duramente. I sistemi di autodifesa contadina sono annientati, ma la conseguenza è una radicalizzazione della lotta, che da autodifesa passa ad essere guerriglia. Nascono così tra il 1964 e il 1965 le Fuerzas Armadas Revolucionarias (FARC) di matrice comunista e l’Ejército de Liberación Nacional (ELN), di matrice castrista, e con addentellati con il mondo cattolico. Come combattente dell’ELN muore nel febbraio 1966, in circostanze mai chiarite, poche settimane dopo aver lanciato il suo Proclama a los Colombianos il sacerdote zionali).

Alla fine degli anni sessanta si afferma un nuovo partito: l’Alianza Nacional Popular (ANAPO), fondata dall’ex dittatore Rojas Pinilla. Rojas propone l’unione del popolo liberale e conservatore contro le oligarchie dei due partiti. Nelle elezioni del 19 aprile 1970 è sconfitto di stretta misura dall’ultimo presidente del Fronte Nazionale, il conservatore Misael Pastrana Borrero. I quadri dell’ANAPO sostengono subito di possedere le prove di una clamorosa frode. Intanto all’interno dell’ANAPO cresce l’orientamento alla resistenza armata. (Di qui nascerà il movimento guerrigliero M-19).

Nelle elezioni del ’74, ancora in un clima di grande violenza, è eletto il ‘liberale di sinistra’ Alfonso López Michelsen. Dopo un primo anno dedicato a riforme e misure antinflazionistiche, Michelsen si avvicina alla destra e dichiara lo stato d’assedio per combattere la guerriglia. Continue oscillazioni della politica governativa tra conciliazione nazionale e feroce repressione caratterizzano anche gli anni successivi. I gruppi armati, fortemente radicati nel tessuto sociale, e di fatto riconosciuti dal potere istituzionale, continuano a svolgere un ruolo fondamentale nei giochi politici. Svuotano arsenali, occupano ambasciate, controllano intere regioni, ma non riescono, anche perché divisi tra di loro, a portare un definitivo attacco allo Stato. Negli anni ’80, mentre permane e si aggrava il clima di violenza diffusa, il quadro si complica per l’entrata in scena di un nuovo potente attore, che condiziona ed inquina tanto lo Stato quanto le organizzazioni guerrigliere: la mafia della droga.

La gravisssima crisi istituzionale ha dunque radici remote nella storia nazionale, ma si motiva anche con gravi errori di politica economica consumati negli anni sessanta: il governo di Bogotà, seguendo le indicazioni della CEPAL (la commissione economica dell’ONU per l’America Latina), ha considerato obiettivo prioritario il contenimento dei prezzi degli alimenti di prima necessità. A ciò è conseguita una fuga di capitali dalle campagne e quindi l’impoverimento di grandi masse contadine, egemonizzate prima dall’estrema sinistra e poi dalla mafia della droga.

Condividi