Breve storia dell’epistolografia: il genere epistolare è poco praticato, sembra caduto in disuso, eppure, la lettera aperta sembra vivere una seconda gioventù. Un approfondimento di Eduardo de la Garma pubblicato da Letras Libres.
di Eduardo de la Garma
traduzione di Ilaria Baratta
Mentre leggo Caro Michele, il triste romanzo di Natalia Ginzburg, mi sorge il sospetto che sia stato commesso un errore enorme: ormai quasi nessuno mantiene una relazione epistolare. La mia posta elettronica lo conferma: nelle ultime due settimane, l’unica mail che ho ricevuto – a eccezione dello spam, delle mail che mi spedisco da solo e degli insistenti inviti su LinkedIn – è stata la proposta di un editore per scrivere un pezzo sull’epistolografia. In altri tempi avrei parlato con l’editore proprio lì, direttamente via mail. Ma ormai ho imparato: nell’era della trasparenza e della confessione, gli rispondo qui, apertamente. Questa, quindi, è una lettera aperta al mio editore. O a chiunque voglia rispondere.
«Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio», scrisse Calvino. Alla domanda di Diderot su chi controlla il testo, se lo scrittore o il lettore, anch’io, come Calvino, propendo per il lettore. Il genere epistolare nasce proprio così: con la scoperta del lettore. L’importanza del genere, dunque, sta nell’altro che interviene a decifrare un sistema linguistico proprio. Se l’importanza di una lettera ha a che fare con l’altro, con il valore della lettura e del dialogo, allora lo sviluppo del genere epistolare è legato ai periodi di crisi sociale, o per lo meno ai momenti in cui una relazione si intensifica. Più che una forma specifica, poiché qualsiasi testo può essere considerato una lettera, il genere epistolare cerca una funzione precisa: discutere su un tema comune. Scrivere una lettera significa riflettere in compagnia.
Le lettere, dunque, hanno una funzione attiva: si scrivono per qualcosa. Paolo di Tarso scrive lettere ai Corinzi per consigliar loro di vivere secondo i principi del Cristianesimo; Abelardo scrive a Eloisa per sedurla; Hernán Cortés scrive a Carlo V per informarlo sulle azioni amministrative e giuridiche compiute durante la Conquista; Locke scrive al suo amico Van Limborch per riflettere sulla tolleranza; Émile Zola scrive al suo presidente per denunciare una doppia ingiustizia, il Moses Herzog di Bellow scrive al nulla perché, come direbbe Foucault, la sua esistenza sia cancellata «come sull’orlo del mare un volto di sabbia»; Rodolfo Walsh scrive alla Giunta Militare per testimoniare gli errori, i crimini e i disastri della dittatura argentina; Ulises Carrión spedisce cartoline a destra e a manca per sperimentare un nuovo supporto e per cercare di delineare i limiti e le difficoltà del grande mostro che immagina.
Il genere epistolare dipende dal contesto. Leggere una lettera comporta decifrare ciò che la scrittura racchiude: in quali condizioni è stata scritta, quali relazioni stabilisce, a cosa allude, cosa nasconde, cosa ignora? Questo gioco interpretativo si intensifica se la lettera è aperta, pubblica, poiché il lettore non solo immagina le condizioni del mittente, ma anche quelle del destinatario che diventa subito plurale. Bachelard affermava che su ogni scrittore veglia un fantasma: il lettore. In una lettera che X manda a Y attraverso un mezzo Z, il lettore – apparentemente estraneo – è minacciato da tre o addirittura quattro fantasmi: lo scrittore, il lettore, l’editore e gli altri lettori estranei e voyeur come lui. Per questo, credo, le lettere aperte sono diventate così popolari: nessun altro genere esige dal lettore così tanta immaginazione. O così tanto impegno. In una lettera aperta, le molteplici relazioni tra lettura e scrittura diventano non solo evidenti, ma ineludibili: «non posso non sentirmi coinvolto». La lettera aperta pratica la poetica dell’angolo: il destinatario specifico, quello concreto e singolare, è il meno; la lettera, in realtà, è indirizzata a chiunque la legga. Nella mia egocentrica e minuscola coscienza, ho sempre creduto che ogni testo che leggo sia in un certo modo una lettera indirizzata a me. E non solo, credo anche che lo scrittore sia paranoico come me, un po’ come il grafógrafo di Salvador Elizondo: leggo che mi leggono.
Questo carattere contestuale e relazionale, sommato all’attuale tendenza all’esibizionismo, ha reso le lettere aperte una moda editoriale. Recentemente, per esempio, il New York Times ha pubblicato le mail tra Natalie Portman e Jonathan Safran Foer. Più che diventare lettere aperte, le mail si sono riprodotte. E più che riprodurre la scrittura, si è moltiplicata la lettura. La scrittura si ricalca, rimane precisa; la lettura si trasforma, diventa incerta. Di nuovo, come afferma Calvino: «Chi comanda al racconto, non è la voce: è l’orecchio».
Forse è proprio questo che cela una lettera aperta: il vorace desiderio di essere interpretata, nonostante per qualcuno sia sbagliato. Nella sua critica alla trasparenza, Byung-Chul Han parla di due tendenze che si contraddicono solo apparentemente: l’assente fiducia nell’altro e la totale certezza della trasparenza. «Ci consegniamo volontariamente all’osservazione panottica», afferma il filosofo sudcoreano. È che rendere pubblico qualcosa, non solo rende le cose più rilevanti, ma ne determina l’esistenza. Diventano reali. La dimensione pubblica rende autentico. Le discussioni private funzionano solo da simulacro. La realtà contemporanea: un’urgente vetrina.
Le lettere aperte sono, quindi, sintomatiche dei tempi che corrono: con autoreferenzialità (una lettera si riferisce sempre a sé stessa) e ambiguità formali (chi è il destinatario?, cosa si lascia sottinteso?), si produce un effetto di paradossale privacy.
Se è così, se tutto oggi tende a essere esibito, allora una «lettera aperta» è un pleonasmo. C’è ancora qualcuno che desideri scrivere senza pubblicare? Con tutto il bisogno – e la sciocchezza – di confessione e con tutti i social network che usiamo, lo dubito. Forse allora, se la letteratura, diciamo, oscura e incerta mi interessa di più rispetto a quella aperta e ovvia, dovrei indagare non sul genere epistolare, bensì sui diari. Anche se il diario che ho letto quest’anno, quello di Gombrowicz, era ed è sempre stato, ahimè, pubblico.
© Eduardo de la Garma, 2016. Tutti i diritti riservati.
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