I giorni confusi che sembrano sospesi nel tempo, un corpo che non ha la forza nemmeno per trascinarsi in giardino e la primavera che spunta, finalmente, dalla finestra. In questo saggio, uscito originariamente sulla rivista Anfibia, Alia Trabucco Zerán – scrittrice cilena, autrice del romanzo La sottrazione – racconta la sua esperienza con il coronavirus in un paese straniero, il Regno Unito, e al tempo stesso costruisce un ragionamento, politico e intimo insieme, su qualcosa che ci riguarda tutti.
Le bellissime illustrazioni che accompagnano il pezzo sono di Malena Guerrero, illustratrice argentina. Buona lettura!
di Alia Trabucco Zerán
traduzione di Giulia Zavagna
Non è niente, mi ripeto. Devo smettere di leggere le notizie. Sto diventando pazza, paranoica o peggio ancora, ipocondriaca. Pazza o no, mi misuro la febbre. Non può essere, impossibile. La mia conclusione: non è febbre, devono essere i nervi o il caldo o pura suggestione. E gli occhi rossi, irritati, non c’è dubbio: allergia. E la stanchezza: stress. E il mal di schiena: la sedia. Meglio che vada a dormire. Meglio che mi dimentichi del mio corpo.
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Non è vivo, così dicono.
Però non è nemmeno morto.
Per esistere, il virus ha bisogno di una casa.
Solo se la trova e apre la porta, fa irruzione e si moltiplica.
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I nostri corpi sono la sua casa. Non ho dubbi ormai. La stanchezza lascia il posto alla spossatezza e a una strana sensazione ai polmoni. Come se vibrassero sulla schiena. Come se d’un tratto bruciassero. Siamo lontane, in Inghilterra. Il paese dell’«immunità di gregge», quello che per settimane si è rifiutato di imporre la quarantena e il cui primo ministro, dopo essersi vantato di aver stretto la mano ai malati, è stato contagiato poco prima di noi. Qui, fanno i tamponi solo a chi viene ricoverato in ospedale. Le istruzioni per gli altri sono chiare: isolarsi, monitorare i sintomi e chiamare l’111 solo se necessario.
La famiglia di P. è in Argentina e la mia in Cile. Gli abbiamo detto di fare attenzione, li abbiamo pregati di non uscire. Là, il rischio sembra ancora lontano anche se le cose stanno per cambiare. Qui, da un giorno all’altro, è cambiato tutto. Sorrido nervosa davanti alla webcam e confesso ai miei genitori e a mio fratello che credo di avere il virus. Dico «credo» e mi stringo nelle spalle, ma ne sono totalmente sicura. Siamo anfitrione involontarie, ostaggi di un ospite che nessuno ha invitato.
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Qualche giorno prima di ammalarci, siamo andate a correre a Victoria Park, nella zona est di Londra. Come sempre, io resto indietro, più lenta e pigra, mentre P., sempre più lontana, schiva gli altri runner per mantenere la distanza obbligatoria. Procede a zigzag, accelera, gli altri corrono distratti. Se lei si ammala, mi ammalo io; se io mi ammalo, si ammala lei. Alla fine, sarò io. Al supermercato, nella cassa accanto, una donna tossisce senza sosta. L’addetto alla sicurezza la guarda, spaventato. La cassiera retrocede. Poi i suoi occhi si posano su di me. Il filo che ci unisce, di colpo, si fa visibile.
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Quando l’epidemia sembrava lontana anche a me, ho letto un’intervista a Judith Butler. Non parla di questo virus ma di un altro, l’HIV, il legame tra il corpo e la cura, l’attenzione, quali corpi la meritano e quali no. Si interroga allora, tra l’altro, sulla relazione tra cura e violenza e sul perché nei tribunali solo alcuni, generalmente uomini e bianchi, possono impugnare con successo la tesi dell’autodifesa. Sempre attenta alle parole, Butler si sofferma sul termine «self-defence», e si chiede: quale «self», quale «io», ha diritto a quella difesa?
Le sue parole risuonano dolorosamente nell’epicentro di questa crisi:
Che corpi si difendono, quali no.
Che vite si salvano, quali no.
Che vite si piangono, quali no.
Che governi hanno accelerato il loro impulso di morte, e quali hanno optato per prendersi cura.
E di chi hanno deciso di prendersi cura. Di quali esseri umani.
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L’ultima volta che siamo uscite, prima di accorgerci dei sintomi iniziali, ho controllato la cassetta della posta e dentro ci ho trovato un volantino giallo. #ViralKindness, diceva, gentilezza virale. «Se sei in autoisolamento ti posso aiutare con la spesa, la posta o a portare fuori il cane». Poi, scritto a mano, un nome, Georgina, e il suo numero di telefono. È stato un sollievo trovare quel messaggio in una città così solitaria. Eppure, come se fosse un brutto segno, non l’ho tirato fuori dalla cassetta.
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Butler, nella stessa intervista, critica l’idea liberale secondo cui l’individuo esiste in modo autonomo. «In un certo senso, quel modello di individuo è comico ma al tempo stesso letale», afferma. «L’obiettivo è superare le fasi di formazione e dipendenza della vita, per emergere poi separati e individuali, trasformati in individui autonomi: selbstständig, dicono, che tradotto letteralmente dal tedesco significa “che sta in piedi da solo”». Poi, introduce la domanda che ricorderò settimane dopo: «Ma chi può davvero stare in piedi, da solo?»
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Dal letto, un po’ spaventata, mando un messaggio a Deborah, la nostra vicina. «Ci siamo ammalate», le dico, «temo che sia il virus». Qualche secondo più tardi, ricevo la sua risposta. «Se avete bisogno di qualsiasi cosa, giorno o notte, chiamatemi senza problemi».
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Senza avvertire, Tristan ci porta cioccolata e paracetamolo.
Deborah lascia delle aspirine sullo zerbino.
Gli uomini del supermercato, senza nome, facce senza mascherine, lasciano pane e verdure sulla soglia di casa.
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Ovviamente, non penso alle parole di Butler quando ormai siamo costrette a letto, con la febbre, le braccia e le gambe doloranti, l’emicrania e il petto schiacciato da un peso che non si vede. In realtà, non penso a nulla per ore, giorni. Sono gola, testa, petto, costole, polmoni, occhi. Sono sete, sudore, freddo, confusione, stanchezza, paura. Fuori, incessanti, suonano le sirene delle ambulanze, le eliche degli elicotteri di emergenza, mentre in segreto conto i nostri respiri, terrorizzata.
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Con quell’idea di individuo in mente abbiamo costruito un modo di abitare il mondo, un modo di relazionarci con la natura e una struttura di società. Nel diritto, quell’idea ha dato origine a costituzioni e accordi sui diritti umani. Più tardi si sarebbe parlato di diritti di prima e seconda generazione. Io li avrei studiati così, gerarchizzati: quelli essenziali e quelli secondari. Come se esistesse integrità fisica senza il diritto alla salute. Come se si potesse avere libertà senza sicurezza sociale. Come se potessimo esistere, stare in piedi, senza acqua, senza cibo, senza l’ossigeno prodotto dai boschi che ci impegniamo a distruggere.
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A mezzogiorno suona il telefono. È mia madre, da Santiago. Chiede se abbiamo la febbre. Se la tosse è forte. Sento l’angoscia nella sua voce e le dico tranquilla, stiamo bene. Non le racconto dell’incendio nel mio petto né di questa stanchezza così strana. «L’acqua a piccoli sorsi», scrive Chantal Maillard. «La paura a grandi morsi».
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Ogni sera, al telegiornale, i paesi confrontano i propri morti. Contano, sommano, sottraggono le cifre di quest’anno e la media di un anno normale. Informano dei surplus, dei soggetti a rischio, del numero di decessi per milione di abitanti. Le cifre sono devastanti. Le parole, però, raccontano un’altra realtà. Si parla di una guerra silenziosa, di un nemico invisibile, di battaglie, combattimenti, vittime, perdite. Come se non esistesse un linguaggio per nominare questo momento, le parole diventano imprecise e proiettano bombe e nemici dove non ci sono che corpi fragili e malati. Annichilire è il verbo prediletto della guerra. Nessuno è mai guarito con quel verbo. Nessuno si è mai salvato con quel verbo. Mi chiedo in che momento sia diventato così difficile pronunciare le parole «prendersi cura».
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È la prima volta che io e P. ci ammaliamo nello stesso momento. In otto anni i nostri corpi si erano sempre ammalati alternandosi: o lei o io, a volte una e poi l’altra. Ora quella che si alza per andare al bagno deve prendere altra acqua e fare altra camomilla. Ora dobbiamo controllare i reciproci segnali di allerta. Nutrirci, idratarci, distrarci, riposare. I sintomi vanno e vengono e anche noi, stordite: dal letto al divano, dal divano al letto. Ci scrivono gli amici, la famiglia, ma io non ricordo le mie risposte. Questa cosa non assomiglia a un febbrone. Non assomiglia a un’influenza. Perfino ora fatico a ricostruire quei giorni. Una malattia vaporosa, irreale, fatta del materiale ovattato dei ricordi più lontani.
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Dovevamo venire a Londra per pochi mesi. Mettere i libri negli scatoloni e lasciare la città dove avevamo vissuto negli ultimi anni. La padrona di casa aveva venduto l’appartamento, io avevo finito il dottorato, stava cominciando una nuova fase. Proprio allora è scoppiata la pandemia. Hanno chiuso le frontiere. I nostri paesi hanno proibito l’ingresso agli stranieri. Io sono straniera in Argentina. In Cile, la straniera è P. Abbiamo scritto alla proprietaria per spiegarle le circostanze. Tempo, abbiamo bisogno di tempo, finché non staremo meglio. La risposta non tarda ad arrivare: «Mi dispiace, non si può. Ho paura di spaventare il compratore e di non riuscire a ottenere un buon prezzo nei prossimi mesi».
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Sophie ci manda un mazzo di astromelie e margherite.
Gwen ci inoltra un video con esercizi di respirazione.
Marcelo mi dice, dal suo studio in Cile, «attenta se la stanchezza peggiora».
Non li avevano mai chiamati così prima. Li definivano impiegate e operai, salariati e autonomi, «low skilled», «low paid», poco qualificati, malpagati. Ora, da un giorno all’altro, il loro nome è «lavoratori essenziali»: cassieri del supermercato, netturbini, impiegati di pulizia, conducenti dei mezzi di trasporto, fattorini, magazzinieri.
Quanto più essenziale, maggiore è il rischio.
Quanto maggiore è il rischio, minore è lo stipendio.
Quanto minore è lo stipendio, più invisibile è il lavoro.
Fino ad arrivare al più basso, quello domestico, il più invisibile di tutti: pulire, cucinare, rassettare e prendersi cura degli altri.
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A letto, quasi senza muoverci, passano i tre giorni peggiori. La cosa curiosa è che solo dopo ci accorgeremo che sono stati tre. Uno di questi è sparito. O noi, fuori dal tempo, nel presente assoluto del corpo, abbiamo perso il conto. Uno di quei giorni è stato un giovedì. Ora lo so perché tutti i giovedì, alle otto, si applaude agli operatori sanitari. «Clap for carers», è il motto, letteralmente: «Applausi per chi si prende cura». Gli stessi che non hanno abbastanza guanti né mascherine né camici. Gli stessi che da anni pretendono un aumento di stipendio. È irreale, la scena: solo pochi mesi fa io e P. partecipavamo ai cacerolazosa Santiago e ora lo stesso tintinnio rimbomba dagli edifici vicini. Ci guardiamo, con gli occhi vitrei, mentre il suono attraversa le finestre fino a raggiungere il suo corpo e il mio. Non possiamo unirci all’applauso. Non abbiamo abbastanza energia per uscire in giardino.
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Lontano, in Cile, muore una donna giovanissima per l’infezione provocata dal virus. Il Ministro della Sanità chiarisce allora, con un tono superbo e freddo, che probabilmente la ragazza non ce l’avrebbe fatta comunque. Aveva la leucemia, dice, in modo che noi, che non abbiamo la leucemia, sospiriamo sollevate. Perché pensiamo: era malata o era anziana, aveva il cancro o l’ipertensione, era debole, obesa, diabetica, diversa, non era un «self», di questo si tratta, non era un «io».
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Più tardi, quando i morti perderanno i nomi propri, i ministri, qui e là, li segmenteranno per fascia d’età. Si dispiaceranno più per alcune morti, meno per altre. Come se la vita perdesse le parole man mano che passano gli anni. Come se diventasse meno urgente, meno intensa, meno di valore. Ricordo un libro di Giorgio Agamben precedente ai suoi farfugliamenti pandemici: «Si dice che ai vecchi resti solo una corda per suonare», afferma. «Ed è, forse, una corda scordata a produrre ciò che Stefano chiamava “la nota del lupo”. Eppure, quella nota stonata è più lunga e profonda dello strumento intatto della gioventù».
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La pressione sul mio petto non cede. Chiedo a P. e sente le stesse cose. Ha anche un mal di testa da impazzire. Di nascosto faccio esattamente quello che mi ero ripromessa di non fare. Cerco i sintomi su internet. Un articolo del New York Timesmi fa venire più brividi di quelli che già avevo. Mi alzo per mettere in carica i cellulari, in caso dovessimo andare all’ospedale.
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Si cerca il colpevole. Alcuni presidenti perdono tempo a fare questo. Indicano la Cina, un laboratorio, il pipistrello o il pangolino. È curioso che non abbiano ancora trovato una risposta. È così ovvia, risaputa: sono gli stessi responsabili dell’estinzione dell’ara giacinto. O del rinoceronte nero. O del rospo dorato. Penso a quell’ultimo esemplare irrimediabilmente morto. E a come sono spariti, con lui, un modo di percepire il tempo e una dimensione del mondo. Come riprendere a raccontare, a dare un nome a questo mondo incompleto? Dove trovare un linguaggio che rifletta ciò che è stato cancellato? Olga Tokarczuk propone di creare un nuovo narratore. Al di là dell’io e del tu, molto lontano dall’onniscienza. Lo chiama «the tender narrator», «il narratore tenero». «La tenerezza», dice, «è la forma più modesta dell’amore».
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Fuori, il vento piega dolcemente i rami e un merlo cerca i vermi nella terra umida. P. ha le guance rosse, gli occhi irritati e stanchi. Lolita, la gatta del vicino, miagola dal giardino. Non capisce perché, come altri giorni, non la lasciamo entrare. Come spiegarle che siamo malate, che potremmo contagiare qualcun altro. Come superare la propria lingua per dare un nome a ciò che abbiamo negato.
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Federica, un’amica di mio fratello, ci consiglia di mettere il collirio.
Mia cugina Belén inoltra i messaggi dei suoi colleghi dell’ospedale.
Lina parla con sua madre. È una dottoressa e ci spiega quanto tempo ci vuole a curare una possibile polmonite.
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Mi sono ammalata altre volte. Ho avuto influenze e intossicazioni, un buon numero di tonsilliti e l’anno scorso sono stata operata per una sinusite fuori dal comune. Questo, tuttavia, è radicalmente diverso. E non mi riferisco solo all’infinità di sintomi strani. L’esperienza, apparentemente individuale, in realtà non lo è. È molto diverso ammalarsi da sola o in mezzo a una pandemia. «Non era il mio corpo», scrive Anne Carson, «non un corpo di donna, era il corpo di tutti noi».
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Ogni giorno, alle cinque, tutte e due ci sentiamo peggio. Come in un incubo, il virus è più aggressivo al tramonto. Allora, quando il petto si chiude e l’emicrania batte sulle tempie, mi alzo dal letto, disperata, per accendere ogni lampada della casa: quelle della stanza, del salotto, della cucina, del bagno. Ci avvolgiamo nella luce, mentre fuori, lentamente, l’oscurità spegne il giardino.
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Nel mio sogno, io e P. visitiamo una casa. È piuttosto un capannone, circondato da grandi finestre che si affacciano su una città sconosciuta. È e non è Santiago, è e non è Buenos Aires. Le pareti sono scrostate, il pavimento di legno è tutto consumato. Cerco la cucina e quando apro la porta non trovo altro che un rubinetto. Mi avvicino e lo apro, ma non esce una sola goccia. Mi sveglio di soprassalto, assetata, ricoperta di sudore.
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Di mattina, i corvi attraversano un cielo azzurro e limpido. Non ci sono aerei, quasi non ci sono macchine, non sentiamo più il rumore della città. Nuovi suoni, solitamente muti, amplificano altri mondi. Una preghiera islamica, il gracchiare di un gabbiamo, le campane di una chiesa. Apriamo le finestre per dare aria alla casa. Laviamo le lenzuola, gli asciugamani, tutti i vestiti che abbiamo toccato. Dalla finestra del salotto, guardiamo il giardino. Fuori il melo fiorisce e i boccioli di un arbusto che abbiamo piantato un anno fa si aprono per la prima volta. Si chiama «bleeding heart», cuore sanguinante, come se a questa storia mancasse un pizzico di drammaticità. Ridiamo, stiamo meglio, inventiamo parole per i nostri sintomi: occhi covidici, tosse covidica, risate che ci lasciano senza fiato.
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Selma vuole infrangere la quarantena e portarci cibo e medicine.
Paulina ci offre il suo turno prioritario per fare la spesa online.
Tornano gli uomini del supermercato, non gli hanno ancora consegnato le mascherine.
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Avvolte in scialli e sciarpe, ci avventuriamo in giardino. L’aria fredda ci fa tossire ma camminiamo lentamente, come sonnambule, sull’erba alta e avvizzita. Mi sento meglio, anche se sono inspiegabilmente mezza addormentata. Come se questo avvenimento non potesse fare totalmente parte della realtà. Avanzo per il giardino, stupita, quando noto come si muovono i miei piedi. Anche se normalmente mi basterebbero sette, al massimo otto passi per arrivare al muro, ora ne faccio trenta senza nemmeno avvicinarmi alla fine. Non vedo più i mattoni, non c’è un dentro e un fuori. Ci sono fiori senza nome coronati di petali lilla e gialli. Un minuscolo ragno si eleva verso il cielo sul suo filo invisibile. Un flagello di afidi si sistema tra i nuovi rami del melo e le formiche li spingono sul retro delle foglie appena nate. Le api volano da un fiore all’altro e le mosche brillano cangianti mentre fregano le zampe fragilissime sullo scheletro di un fiore. Ogni pianta abita una sfumatura di verde: il rosmarino, il geranio, il rabarbaro, la rosa, il trifoglio e il verde grigiastro della lavanda. Sono molto lontana dal mondo, molto lontana da me. Finché non sento, laggiù, un campanello d’allarme. Fra il cinguettio delle colombe, una vibrazione acuta e disperata. Anche P. la sente, dev’essere reale. Ci avviciniamo insieme all’arbusto, un agazzino. Ci chiniamo e aspettiamo fino a sentirlo di nuovo. Eccola, in alto, quella nota metallica. Fra i rami, circondato da spine, un nido di paglia ed erba secca decorato con due guanti in lattice. Dal bordo spuntano tre teste, con i becchi spalancati, hanno occhi vitrei come i nostri.
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Quella sera abbiamo una ricaduta e la malattia prende direzioni diverse nei nostri corpi. Sento i polmoni irritati, le costole fragili e doloranti. P. ha la febbre alta, si sente soffocare, il petto pesante. Quelli, credo, sono i segnali d’allarme. Chiamo l’111, il numero dedicato al virus. La voce, serena, comincia a farmi l’interrogatorio di rito. Io, nervosa, confermo che la lingua del mio corpo e di quello di P. è sempre stata lo spagnolo. Balbetto e ci metto un po’ a trovare le parole in inglese. Lei ascolta, prende appunti, non crede che sia necessario andare in ospedale. «Continuate a fare attenzione», dice, «sicuramente avete avuto la polmonite e ci metterete qualche settimana a guarire». È il momento di picco in Inghilterra, lo avvertono le ambulanze in giro per strada e anche l’urgenza della donna di riattaccare. Voglio che ci visiti un medico. Che si prenda cura di noi chi lo fa di mestiere. Voglio che ci facciano delle radiografie e come Hans Castorp nella Montagna magica, voglio che qualcuno mi guardi e mi dica: «Vedo il tuo cuore».
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Passano i giorni, monotoni. Cambia l’ora con l’arrivo della primavera. Vediamo le cinque stagioni di Better Call Saul. Mi addormento, mi sveglio, ho un po’ più di energia. La febbre di P. si abbassa, ma persistono altri sintomi. Camminiamo dalla porta al giardino, dal giardino alla porta. Il basilico che ho piantato qualche settimana fa sta germinando. Fioriscono le rose e cadono tutti i petali del melo. Mangiamo panini ogni sera, senza eccezione. Non sappiamo più cosa mettere tra due fette di pane.
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In certi momenti mi convinco che niente di tutto questo è successo davvero. Com’è possibile una realtà in cui convivono la malattia e la primavera. Potrei dire che sono assorta. Potrei dire commossa. Mentre traduco l’intervista a Butler penso che il mio sguardo è cambiato. C’è un filo che va dal mio petto a quello di P., dal suo al petto di quel merlo, dal merlo alla chioma del melo e da lì a tanti corpi amati e tanti altri, sconosciuti. Credo che il mio corpo non finisca più dove finisco io. O che «io», forse, non era esattamente ciò che credevo.
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Per ventuno giorni praticamente non leggeremo le notizie. Non usciremo dall’appartamento per un mese esatto. Vedremo il merlo nutrire laboriosamente i suoi piccoli, con le ali sempre più spesse, la peluria sostituita da piume chiazzate e morbide. Una mattina salteranno dal nido a un ramo. Il giorno dopo, spariranno. Mi spaventerà, molte altre volte, l’insistenza di alcuni sintomi. «Quel corpo reso doppiamente corpo», scrisse Thomas Mann. Mancherà sempre meno al giorno in cui dovremo lasciare questa casa. Altri la abiteranno, si ammaleranno e guariranno qui. Una domenica, finalmente, avremo il coraggio di uscire. Sarà come camminare dopo essere stati a lungo profondamente addormentati. Avrò la sensazione di non conoscere il quartiere, il parco, i miei piedi. Di vedere tutto come con stupore, ecco. O come disse Max Blecher dal suo stesso corpo malato: «come se avessi vissuto in un mondo conosciuto molto tempo fa».
© Alia Trabucco Zerán, 2020. Tutti i diritti riservati.
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