Presentiamo oggi un estratto di un’intervista di Miguel Ángel Quemain in cui Sergio Pitol racconta la genesi del suo romanzo La divina.
«Origine e rinascita della scrittura»
di Miguel Ángel Quemain
traduzione di Dajana Morelli
MAQ: Come distingue quando scriverà un racconto, un romanzo, o un’opera teatrale?
SP: Il teatro è stato una delle mie grande passioni, uno dei miei grandi amori. Quando provavo a scrivere teatro, prima facevo un abbozzo di qual era la situazione e quello che risultava da quell’abbozzo era già una forma narrativa, era una forma da cui non dovevo far altro che eliminare due o tre elementi, aggiungerne un altro e il racconto era fatto. Le uniche volte che ho provato a scrivere teatro e non ho fatto un abbozzo preliminare, è stato un disastro assoluto, i risultati sono stati atroci. Opere che ho scritto con grande passione e che, quando le rileggevo dieci o dodici giorni dopo, scoprivo che non valevano niente, che era tutto lettera morta. Ciò nonostante, facendo gli abbozzi preliminari hanno preso forma questi racconti della mia prima epoca, non solo, perfino negli ultimi romanzi uso forme teatrali. Poiché non so scrivere teatro, scrivo romanzi che usano molti elementi teatrali. La divina, per esempio, è un’opera costruita proprio come un’opera teatrale, con un personaggio di fronte a un pubblico, con effetti, con dialoghi tra questo pubblico e il personaggio narratore, che sono gli effetti abusatissimi del género chico, l’operetta spagnola: una domanda per dargli il via, affinché la storia venga raccontata. Il teatro è immerso, dal primo racconto che ho scritto fino ad ora, nel mio lavoro letterario. Leggo molto teatro. Quando viaggio, una delle ragioni principali è per vedere del teatro. I miei viaggi in Italia sono sempre stati legati alla speranza di vedere tutte le sere qualche spettacolo teatrale e di alto livello. È un elemento che agisce molto su di me e che non penso di abbandonare perché è molto parallelo al mio lavoro, alla mia creatività.
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Ho l’idea, non so da dove proviene, se l’ho letto da qualche parte o no, però mi sembra che l’elemento della voce, la vitalità di voci in un romanzo o in una qualsiasi forma narrativa, si ottenga attraverso la gestualità. Sembra una vera assurdità, ma credo che nella pratica funzioni. Se tu fai parlare un personaggio che si interrompe per fare un gesto, per alzarsi, per raccogliere un libro, per fare qualche passo e dare un’istruzione, però creandogli tutta una bellezza testuale, c’è un momento in cui sembra che la sua voce si individualizzi. Questo lo posso sentire nei romanzi in cui i personaggi sono più ampiamente sviluppati. I miei personaggi in La divina o soprattutto in El desfile del amor, che è un duello, una ronda di personaggi, sembrano avere ciascuno una voce diversa. Mi preoccupa moltissimo concepire visualmente un personaggio: come cammina, come si siede, che tic ha, se ne ha, perché, se ci fai caso, interrompo costantemente i dialoghi, con i loro modi, le loro maniere, i loro gesti e questa gestualità è ciò che alla fine fa sì che le voci si differenzino, è un fenomeno di riflesso. Cerco di insegnarlo ai miei discepoli e mi deridono, ma credo che sia una delle cose, di quelle astuzie di mera falegnameria, che ti insegna la traduzione, per esempio.
MAQ: Qual è stata l’origine di La divina?
SP: Ho scritto La divina durante una convalescenza molto lunga. Creare il romanzo, pensarlo e portarlo a termine è stato come quando un naufrago si aggrappa a una tavola che può salvarlo, allo stesso modo io mi sono afferrato al romanzo. A un certo punto mi sono accorto che, nonostante la depressione fisica e animica che stavo vivendo, cominciavo a ridere delle circostanze in cui si trovavano i miei personaggi. Le fonti del romanzo sono dichiarate sin dal primo capitolo che si apre dicendo, più o meno, che si tratta di una serie di letture, che è un omaggio a Gogol’, che è basato su certe riflessioni prodotte dalla lettura di un libro prodigioso su Rabelais di Michail Bachtin che in italiano si chiama: L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale. C’entrano anche alcune circostanze che erano già presenti, come il mio ritorno in Messico, che mi faceva pensare a personaggi esiliati, che dopo aver vissuto in Europa, si stabiliscono in piccole case di campagna negli stati di Morelos e Veracruz e cercano di tendere un ponte tra questo ritorno e quello che hanno vissuto, vedendo i ricordi passati con un certo umorismo un po’ selvaggio, la cui pratica e il cui esercizio devo soprattutto ad alcuni amici, in particolare a Luis Prieto e a Carlos Monsiváis. L’esercizio della parodia portata ai limiti più grotteschi l’ho trovato nella conversazione, nei modi da scherzo costante, con questi due grandi amici: Monsiváis e Luis Prieto.
MAQ: Ha detto che La divina era un romanzo volutamente teatrale.
SP: In La divina ho utilizzato alcune forme quasi sceniche: un luogo campestre, una casa nei dintorni di Tepoztlán, che è come un palcoscenico. I personaggi sono posizionati come in un’opera drammatica e d’improvviso irrompe uno straniero, uno strano trasgressore che rompe le abitudini di queste persone. La relazione tra i personaggi e il lettore è teatrale. C’è un monologo centrale che è quello di un uomo che racconta tutte le peripezie reali e inventate di un viaggio a Istanbul che gli hanno cambiato la vita, e l’eco, come di un coro, che i personaggi della casa emettono. È una fusione di forme narrative, di alcuni elementi che generalmente vengono utilizzati nel teatro.
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