Intervista a Roberto Bolaño

Raul Schenardi Autori, SUR

Pubblichiamo un’intervista a Roberto Bolaño di Raul Schenardi pubblicata nel 2003 su Pulp.

Nel maggio del 2003, pochi mesi prima di morire, Roberto Bolaño venne al Salone del libro di Torino per presentare I detective selvaggi, appena uscito con Sellerio. In quella occasione lo intervistai per Pulp (n. 44) e approfittando della sua squisita disponibilità, proseguii poi una lunga chiacchierata a registratore spento. Mi presentai a lui come un fan, chiedendogli di firmarmi una copia maltrattata dell’edizione spagnola, e credo che la cosa lo abbia ben disposto nei miei confronti. E nonostante la confusione imperante nello stand, le interruzioni di lettori che chiedevano autografi (ricordo lo staff di minimum fax, religiosamente in coda), e l’evidente stanchezza di Roberto, assillato dalla sete (una delle prime cose che mi disse fu che non stava bene, ma io pensai a un malessere passeggero, allo stress del viaggio e della Fiera), riuscì a trovare la concentrazione per rispondere alle domande e la voglia di aprire ampie digressioni, quando l’argomento gli sembrava abbastanza coinvolgente. Perché il Bolaño conversatore, come lo scrittore, era torrenziale, ellittico, reciso nelle affermazioni e nelle negazioni.

Roberto, mi ha colpito in apertura del tuo romanzo la citazione da Sotto il vulcano, di Malcolm Lowry. Sei d’accordo che si tratti di un grande “romanzo messicano”, nonostante l’abbia scritto un inglese, e in anticipo rispetto al boom latinoamericano degli anni ’60?”
Assolutamente sì. La citazione è lì proprio per questo. Lowry ha scritto il grande “romanzo messicano”, non c’è dubbio.

Anche I detective selvaggi in fondo è un romanzo messicano, molti lo hanno paragonato a Rayuela (Il gioco del mondo) di Cortázar, in effetti ci sono assonanze non solo formali. Ti eri forse proposto di scrivere la Rayuela degli anni Novanta?
La mia ammirazione per Cortázar è enorme, appartengo a una generazione cresciuta leggendo Cortázar a diciassette anni, e in un certo momento incarnava il punto più alto cui si potesse arrivare. In modo un po’ irrazionale, perché non c’è mai un “punto più alto”, e non è nemmeno necessario arrivare a un punto più alto, ma siccome eravamo giovani, e ai giovani si consentono queste esagerazioni, Cortázar rappresentava il massimo cui potevamo aspirare. Col tempo il mio autore preferito in lingua spagnola è diventato Borges. Cortázar ora è il secondo, diciamo che continuo ad amarlo e a leggerlo con grande piacere. Io non sono mai stato d’accordo con la falsa dicotomia fra il Cortázar autore di racconti e il romanziere. Io penso che se c’è stato qualcuno al mondo che sapeva come strutturare un libro, dal punto di vista teorico, era Cortázar. Ne sapeva molto di più di García Márquez, che scrive quasi intuitivamente, soprattutto se paragonato a Cortázar, molto più di Donoso… Vargas Llosa, c’è stato un momento in cui aveva un senso della struttura più o meno chiaro, ma al livello di Cortázar nessuno. E del resto uno scrittore non può mai tentare di scrivere un romanzo o un racconto “alla maniera di…”, anzitutto perché in qualche misura ciò implica un parricidio, e io non ho mai visto Cortázar come un padre, tutt’alpiù come una specie di fratello maggiore, nonostante la grande differenza di età. Lui aveva la virtù della gioventù permanente, dell’energia permanente, e anche dell’ingenuità permanente. Io l’ho conosciuto quando avevo 22 anni, in Messico, e già allora non ero d’accordo con molte sue posizioni politiche, soprattutto per quanto riguarda Cuba, o per quella che Cortázar riteneva dovesse essere la posizione dello scrittore di fronte ai compagni di una determinata lotta. Io credo che uno scrittore non debba chiedere il permesso a nessuno per scrivere, tanto meno a dei militanti, che di solito sono quelli che ne sanno meno di queste cose. Ma lui era molto impegnato nella lotta politica, e oltre tutto leale nei confronti del suo impegno – cosa che mi sembra degna di lode -, e quindi aveva di questi problemi, che io invece non ho mai avuto, anzitutto perché dai pochi gruppi di sinistra nei quali ho militato sono stato cacciato.

Per tua fortuna…
Per mia fortuna. Tornando all’opera da imitare, o da superare… mai, mai…. Sono estremamente modesto rispetto alla mia opera e faccio molta fatica a pensare che I detective selvaggi possa essere paragonato a Rayuela. Per parte mia sarei felicissimo se gli arrivasse al ginocchio, ma credo che non gli arrivi nemmeno al tallone. I detective è un romanzo (credo che si noti) molto autobiografico. In pratica quello che faccio è raccontare la biografia mia e di un carissimo amico a un’età nella quale abbiamo smesso di essere giovani, a vent’anni, abbastanza per smettere di esserlo. Ed è una riflessione, o tenta una riflessione, su una generazione di latinoamericani – e non solo – che ha creduto nella rivoluzione… e probabilmente, se la rivoluzione in cui credevamo avesse trionfato, saremmo finiti in un gulag. E la cosa non è affatto simpatica [ride]. Insomma, sono avvenimenti reali romanzati, alcuni per ottenere maggior verosimiglianza, e altri per ragioni unicamente di ordine estetico . L’unico che non è mai esistito in realtà è García Madero, un personaggio simbolico che per me rappresenta la purezza con cui un ragazzo entra nel mondo della letteratura. E che sia simbolico è chiaramente dimostrato – o se ne da l’indizio – dal fatto che nella parte centrale del romanzo scompare totalmente. Com’è possibile che nessuno ricordi l’unico poeta realvisceralista che accompagna Belano e Lima nel viaggio a Sonora? Com’è possibile che assolutamente nessuno parli di lui? È un simbolo, è il “giovane poeta”. Lupe invece è esistita davvero, e le sorelle Font, quasi tutti… È uno dei motivi per cui preferisco non tornare in Messico [ride].

Un personaggio a un certo punto dice: Ho smesso di scrivere poesia e da quel momento tutto è diventato molto grigio.
La poesia nei Detective è fondamentalmente la metafora della fragilità e della portatilità della letteratura. Non c’è arte più facile – solo all’inizio, dopo diventa la più difficile di tutte – che scrivere una poesia, che fare poesia. Ricordo che a quel tempo in qualche ambiente circolava addirittura l’idea che la poesia potevano scriverla anche quelli che non sapevano scrivere, perché bastava mettere giù parole in libertà. La poesia d’avanguardia era molto di moda e si associava spesso all’idea di cambiare la vita e di cambiare vita, e per me in fondo la poesia – perlomeno come la vedevo all’epoca in cui ho scritto I detective, è già passato del tempo – è una metafora della fragilità. Una fragilità assoluta. Gente che non solo dal punto di vista letterario, ma nemmeno da quello economico, non aveva futuro, e si aggrappava alla poesia, e faceva bene a farlo… però aggrapparsi alla poesia durante un naufragio è come aggrapparsi al tappo di una bottiglia di champagne: non ti terrà a galla. La poesia poi è un’arte portatile: per leggere un romanzo servono tempo e una serie di comodità minime, mentre un sonetto puoi leggerlo in mezzo minuto. Altro problema è capirlo. Così, per me la poesia quando scrivevo i Detective era la porta d’ingresso nell’ignoto, e in quella materia sconosciuta, probabilmente, stavo aspettando la vera poesia, ma anche la porta d’ingresso stessa era poesia, una poesia bastarda, poco rigorosa, esagerata…

Si ha l’impressione che, pur avendo profonde radici nella tradizione letteraria latinoamericana, tu sappia dialogare anche con altre, in particolare quella nordamericana…
Per essere sinceri, io, modestamente, come diceva Vittorio Gassman, ho letto moltissimo, e da molte letture ho tratto profitto. In questo senso ho debiti nei confronti di parecchie letterature. Non credo che ci sia un’influenza diretta di quella nordamericana, ma sicuramente c’è un’influenza che riguarda di fatto tutti gli scrittori latinoamericani e che proviene dai due rami fondamentali del romanzo nordamericano, Melville e Twain. I detective ha senz’altro un debito con Mark Twain. Belano e Lima non sono altro che una trasposizione di Huckleberry Finn e Tom Sawyer. È un romanzo che scorre secondo un moto costante, che è il Missisippi. Insomma, il mio debito con Twain è enorme, anche perché è un autore che amo moltissimo. Ho letto molto anche Melville, e mi affascina. In effetti, per civetteria, preferirei credere di essere più in debito con Melville che con Twain, ma sfortunatamente penso di dovere di più a Mark Twain. Melville è un autore apocalittico… Twain è il giorno e Melville la notte, e la notte impressiona sempre molto di più. Ma per quel che riguarda la letteratura nordamericana moderna, la conosco poco e male. La conosco abbastanza fino agli scrittori della generazione precedente a Bellow. Updike l’ho letto abbastanza, ma non so perché lo facessi, sicuramente era un atto masochista, perché ogni pagina di Updike mi porta sull’orlo dell’isteria. Mailer mi piace più di Updike, anche se ritengo che come scrittore, come prosista, Updike sia più solido. Credo che gli ultimi scrittori nordamericani che ho letto a fondo e che conosco bene siano quelli della “generazione perduta”: Hemingway, Faulkner, Scott Fitzgerald, Thomas Wolff. Mi sento molto più in debito, in qualche misura, con gli europei, nel senso che le mie prime letture sono state di poesia e io leggevo soprattutto poeti europei, e passare dalla poesia europea alla narrativa europea è stato molto facile.

Tu sei cileno, vivi da molti anni in Spagna, ti muovi a tuo agio in quella che un tempo si chiamava “Patria grande”, ma sei piuttosto diverso da quegli intellettuali latinoamericani che ricercano uno statuto da “scrittore nazionale”, sorta di “papi laici” pronti ad assumere funzioni ufficiali, istituzionali…
Io credo che sia soprattutto per paura che García Márquez si vede come il più grande scrittore colombiano di tutti i tempi, o Vargas Llosa come il miglior scrittore peruviano. Tutti gli scrittori latinoamericani, e penso anche gli spagnoli, in fondo hanno molta paura e cercano di assicurarsi il pantheon post-mortem. Io non ho mai avuto paura della morte e inoltre non credo nel pantheon. Guarda, quando finisce è finita e non resta niente, perciò io sto con Borges quando disse: Dopo la morte, verrà l’oblio, e molte teste di cazzo gli dicevano: Ma no, Maestro, dopo la sua morte resteranno i suoi libri. Lui li ascoltava e doveva pensare: guarda che branco di imbecilli! Perché lui alludeva all’oblio nel senso più ampio del termine, vale a dire: la Terra finirà, il Sole finirà, tutto finirà, l’oblio è un destino comune di tutto quanto, non solo degli esseri umani, e in questo senso gli scrittori latinoamericani che si pongono sempre questo obiettivo che sta fra il clericalismo e la vigliaccheria, be’, cercano di assicurarsi il pantheon post-mortem, e il modo migliore per farlo è diventare lo scrittore nazionale di un paese. Io invece credo nella povertà intrinseca dell’essere umano. Un animale come noi, provvisto di viscere e muscoli, pochi, ossa debolissime, privo di esoscheletro… avere lo scheletro dentro invece che fuori mi sembra una cazzata assoluta… Guarda, si muore ed è finita, fanculo, non credo nel pantheon degli uomini illustri, e non voglio essere lo scrittore nazionale di nessun posto, e in questo senso non mi hanno mai preoccupato la nazionalità o cose del genere. L’unica cosa di cui mi preoccupo quando scrivo è di salvaguardare una certa verosimiglianza negli idiomi che impiego. Voglio dire: quando parla un peruviano dev’essere un peruviano che sta parlando, e quando parla un messicano o un centroamericano dev’essere un messicano o un centroamericano.

Ti renderai conto che si tratta di una sfida micidiale per qualsiasi traduttore…
Sì, per i miei traduttori dev’essere un incubo, più che una sfida.

Un altro aspetto che colpisce dei Detective è la polifonia, che mi ha fatto subito pensare a Tre tristi tigri di Guillermo Cabrera Infante, anche perché in entrambi i romanzi prevale un’atmosfera di suspence, di attesa…
Grande libro. A me piace molto Cabrera Infante, e soprattutto questo romanzo, che è il suo capolavoro. Non ti sbagli affatto: se c’è un romanzo polifonico della generazione del boom è Tre tristi tigri. C’è la lingua parlata dell’Avana, ma non solo. Non so se ricordi quel lunghissimo capitolo sulla morte di Trotzky raccontata da diversi scrittori cubani, da grandi scrittori cubani, a cui lui deve molto, ma con un senso dello humour, con un atto di desacralizzazione della scrittura magnifici. C’è uno stare, un vivere le cose che stanno succedendo all’Avana, è molto sensuale, in questo senso… lasciare che le cose succedano, e godere del momento. Carpe diem.

E del tuo alter ego Belano che ne farai in futuro? Una volta hai minacciato di farlo suicidare… Compare nel romanzo che stai scrivendo?
Nel nuovo romanzo no. C’è in un racconto di Putas asesinas, si trova in Africa, 5-6 giorni dopo che è scomparso nella foresta insieme a un fotografo madrileno, che cercava la morte e l’ha trovata, mentre Belano è vivo. È solo, malato, ma vivo. E ho un racconto scritto a metà, in cui Belano fa un viaggio in Messico, tempo dopo, per visitare la tomba di Ulíses Lima, che invece è morto; voglio dire, la persona che chiamo così nel romanzo era un poeta, Mario Santiago, il mio miglior amico.

All’inizio dell’intervista, parlando del parallelo stabilito da molti critici fra I detective  selvaggi e Il gioco del mondo di Cortázar, e di quanti contrapponevano il Cortázar scrittore di racconti all’autore dei romanzi, presuntamente inferiore, Bolaño ha sviluppato un’acuta analisi del celeberrimo racconto di Borges L’Aleph:
C’è un racconto di Borges che si intitola El Aleph, e come tutti i racconti di Borges, è costruito in una maniera esemplare.. Vale a dire che racconta una storia, o due storie, ma racconta anche come si costruisce una storia o qulasiasi storia. Nell’Aleph abbiamo la storia d’amore fra Borges e Beatriz Viterbo, poi c’è la morte di Beatriz, nel fiore della gioventù, appassionata, superba, affascinante, e oltretutto muore lasciando Borges con un palmo di naso perché lui non riesce mai ad averla in nessun modo. La prima parte è purissima, nella seconda c’è frustrazione, morte, agonia, e c’è un amore non corrisposto. Poi c’è la terza storia: come Borges cerca di far rivivere nei gesti quotidiani il ricordo di Beatriz, e ci riesce andando a visitare una volta l’anno la sua casa. Quarta storia: l’apparizione di Carlos Argentino Daneri, cugino di Beatriz e la sua successiva amicizia con Borges. Poi viene la quinta storia, e ormai non è più questione di Borges né di Beatriz Viterbo, ma di Daneri e dei suoi tentativi poetici. Sesta storia segreta soggiacente: Carlos Daneri come una satira di Pablo Neruda e del suo tentativo di creare un’opera d’arte totalizzante (in quel periodo Neruda stava scrivendo il Canto generale). Daneri è, diciamo, il ritratto speculare e assolutamente infernale di Neruda. Settima storia: la realizzazione di Daneri nell’Aleph. Borges scende e contempla l’Aleph, e diciamo che questa storia è il nucleo principale del racconto. Ottava storia: vendetta dell’innamorato rifiutato, ergo Borges, sul cugino, che probabilmente aveva avuto una relazione carnale con Beatriz Viterbo. Ultima storia: distruzione della casa, che porta con sé la distruzione dell’Aleph, e una nota finale sui destini letterari di  Borges e di Carlos Daneri: Daneri vince un secondo premio a un concorso di poesia e Borges resta a bocca asciutta. Insomma, in un racconto di dieci pagine ci sono già dieci storie, mi dici come cazzo si fa a scrivere un romanzo di oltre seicento pagine con una sola storia? È assolutamente impossibile, chi pensa una cosa del genere è un idiota. Ogni romanzo è una successione di storie che si vanno intrecciando. Stendhal l’aveva già visto con una chiarezza solare, la letteratura, un libro, è uno specchio, uno specchio che non se ne sta quieto però, ma si muove su una strada, e sullo specchio si rifletteno via via le cose che succedono durante il percorso, e ogni cosa può restare in sospeso, con un punto interrogativo, oppure può finire. In questo senso Il  gioco del mondo di Cortázar, che racconta moltissime storie, non fa che seguire la legge naturale del romanzo. Nemmeno lo scrittore più monotono potrebbe scrivere un romanzo dove vi sia una sola storia. Il romanzo, in questo senso, sarebbe una successione di racconti, perché la vita è una successione di racconti. Di fatto, un anno è la successione di quattro stagioni, un anno in realtà non è un anno, sono quattro stagioni, e un giorno non è un giorno, c’è il mattino, il pomeriggio, il tramonto, la notte. E cosa fa un romanziere? Una successione di racconti… Certo, poi possiamo discutere della struttura, della forma che si da a questa successione, ma su un piano assoluto non si tratta di nient’altro che di una successione di racconti.”

Quando gli ho chiesto degli scrittori latinoamericani che sentiva affini o di cui apprezzava comunque il lavoro, ha risposto:
L’argentino Rodrigo Fresán, che è mio amico, sta scrivendo cose interessanti, lo sento molto vicino, c’è un altro argentino che si chiama Alan Pauls, poi ci sono i messicani Daniel Sada, Carmen Boullosa, il guatemalteco Rodrigo Rey Rosa, forse attualmente il migliore autore di racconti, lo stilista più raffinato della mia generazione. Il Guatemala è un paese estremo, c’è una miseria… una violenza che fa rizzare i capelli in testa… nessuno dovrebbe scrivere, dovrebbero essere tutti analfabeti… sembra una situazione senza vie d’uscita. Eppure ogni trenta o quarant’anni tira fuori uno scrittore straordinario: prima Miguel Angel Asturias, poi Arturo Monterroso, oggi c’è Rodrigo Rey Rosa.

Condividi