È uscito per la collana BIG SUR Il tuffo, il terzo romanzo dell’autore britannico Jonathan Lee e il primo a essere pubblicato in italiano. L’intervista che segue è apparsa per la prima volta su Guernica, che ringraziamo.
di Kyle Lucia Wu
traduzione di Davide Trovò
Nell’ottobre 1984 al Grand Hotel di Brighton, in Inghilterra, esplode una bomba piazzata settimane prima e regolata per l’arrivo di Margaret Thatcher. La Thatcher sopravvive, muoiono cinque altre persone e l’accusa ricade sul membro dell’IRA Patrick Magee: questa è la storia che conosciamo. L’ultimo romanzo di Jonathan Lee, Il tuffo, immagina ciò che potremmo non sapere. All’epoca si vociferò di un secondo attentatore che avrebbe aiutato Magee, e nel suo libro Lee dà un volto a questo ipotetico complice: un diciottenne volontario dell’IRA di nome Dan. Il romanzo vede intrecciarsi la storia di Dan, registratosi all’albergo sotto il nome di Roy Walsh, con quella del personale del Grand Hotel, passando da Moose, il vicedirettore che spera in una promozione, a Freya, l’apatica figlia adolescente addetta alla reception.
Il tuffo è ambientato nel prima, anziché nel dopo, una pietra che la storia non ha ancora rivoltato del tutto. Lee è un narratore strepitoso, di quelli che seguiresti ovunque; la sua prosa è ricca di spirito e di un’empatia sorprendente, capace di catturare l’attenzione con la massima facilità. I personaggi sono incredibilmente rifiniti, imperfetti e familiari, e ciascuno è alle prese con una perdita personale e un potenziale ancora da raggiungere. La storia si snoda con rapidità e naturalezza, trascinandoci nel vortice degli altri crucci che ruotano attorno ai personaggi: famiglia, carriera, amori vecchi e nuovi. La tensione di ciò che ticchetta al loro fianco cresce passo passo. Il fatto di sapere in partenza come ne uscirà la Thatcher non sminuisce il nostro coinvolgimento nella sorte dei personaggi ideati dall’autore.
Jonathan Lee si è trasferito a New York dall’Inghilterra qualche anno fa avendo già pubblicato due romanzi nel Regno Unito: Who Is Mr. Satoshi? e Joy. Il tuffo è il suo primo libro pubblicato negli Stati Uniti. In occasione dell’uscita, abbiamo parlato dell’amore per l’inganno della letteratura, dello spazio tra la banalità e l’orrore e del suo sogno infantile di diventare un wrestler.
Guernica: Che cosa ti ha spinto a scrivere sull’attentato di Brighton?
Jonathan Lee: Sono cresciuto in una città di pendolari fuori Londra, ma credo che sotto sotto i miei avessero sempre voluto abitare sul mare. In estate, quand’ero bambino, ci capitava spesso di fare una gita in giornata a Brighton. Passavamo il pomeriggio sulla spiaggia a guardare il mare, mangiare fish and chips e sfuggire agli attacchi dei gabbiani. Io leggevo Roald Dahl e pensavo a quant’ero incompreso, e se avevo qualche probabilità di coronare il mio sogno di diventare un wrestler della World Wrestling Federation. Ero alto un metro scarso. È vero che se la memoria fosse uno scrittore la sua specialità sarebbe la narrativa, ma mi sembra proprio di ricordare che in quelle gite d’infanzia dalla spiaggia vedevo il Grand Hotel, questo palazzone a forma di torta nuziale che guardava verso la Manica. Erano i primi anni Novanta, dopo che l’albergo era stato ricostruito. Un giorno venni a sapere che nel 1984 l’IRA aveva piazzato una bomba là dentro allo scopo di uccidere Margaret Thatcher. La cosa m’incuriosì. Era proprio il genere di evento drammatico di cui la mia infanzia era totalmente priva, e la Thatcher era un personaggio di cui si discuteva molto in casa nostra. Per mia madre era fantastica, mio padre invece la detestava, così nascevamo delle dispute che trovavo interessanti da origliare.
GU: Come hai scelto i personaggi sui quali volevi concentrarti?
JL: A me interessa scrivere della gente che sta ai margini degli eventi pubblici, gente che, se mai finisce nei libri di storia, viene relegata alle note a piè pagina o racchiusa tra parentesi. Scrivendo Il tuffo ho capito subito che la Thatcher doveva essere una specie di fantasma al centro del libro, un personaggio appena intravisto, un’assenza ancor più vivida di una presenza, come un vuoto pneumatico. I personaggi su cui volevo concentrarmi dovevano essere miei, creazioni mie, e dovevano essere quel genere di persone che la posterità tende a dimenticare. Il primo a venirmi in mente credo sia stato Philip Finch, detto «Moose», l’ex tuffatore che è il vicedirettore dell’albergo e va in giro con il badge appuntato vicino al bavero, in modo che rimanga seminascosto dalla cravatta: una promozione senza il relativo stipendio e senso di orgoglio. È così che l’ho immaginato la prima volta. E poi Freya, la sua figlia adolescente, confinata tutta l’estate dietro al bancone della reception. Una volta stavo leggendo un saggio sull’attacco terroristico dove si diceva che forse al Grand Hotel c’era stato un secondo attentatore, mai rintracciato. Qualcuno del personale ricordava di averlo visto. Chi era costui? Agli occhi della storia non esiste. Così è diventato il mio terzo personaggio cardine… Mi sono calato nei suoi panni. L’unico modo di raccontare questa storia per me era la forma romanzo, perché c’è molto di romanzesco in quei fatti: un drappello di persone in Irlanda del Nord ideò una trama, dandosi nomi falsi e inventandosi un passato personale, al solo scopo di uccidere il primo ministro britannico.
GU: Dato che la bomba era a scoppio ritardato, programmata per scattare dopo tre settimane, ci sta a meraviglia che l’azione cresca a poco a poco, con l’esplosione a far da finale. Secondo te cos’è che rendeva il crescendo più interessante delle conseguenze?
JL: C’è un bellissimo saggio di Susan Sontag intitolato «L’immagine del disastro». È un’analisi del successo dei film di fantascienza durante la Guerra Fredda, in particolare quelli che carezzavano l’idea di apocalisse. Il saggio comincia più o meno così: «La nostra è un’epoca di estremismi. Perché viviamo sotto la costante minaccia di due destini ugualmente spaventosi ma all’apparenza opposti: una banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile». Mi è stato di grande utilità mentre scrivevo il libro. Lo stesso vale per alcuni articoli di Camillo Boano sulla filosofia del disastro e il recupero dal disastro, e altri dei professori Emma Hutchinson e Roland Bleiker sul trauma da disastro e sulle culture dell’inospitalità, queste cose qui. Con Il tuffo volevo proprio esplorare lo spazio tra la banalità e il terrore, quello a cui allude la Sontag, che è un miscuglio di spazi privati e spazi pubblici, di riservatezza ed esibizione, di autenticità e messinscena. Cioè, non è che piazzi una bomba senza avere delle forti convinzioni personali, giusto? Allo stesso tempo però non la piazzi a meno che non vuoi che la tua azione venga notata. Un aspetto connaturato nel terrore è il desiderio di trovare un pubblico ed è questo che ha suscitato il mio interesse: gli estremi di vita privata e pubblica che stavano alla base dei «Troubles» nordirlandesi. Stesso motivo per cui mi interessano gli alberghi. Sono luoghi di segreta intimità, ma anche spazi di esibizione: sono arene di accoglienza, di svago pubblico.
La maggior parte dei racconti catastrofici cominciano con un’esplosione e ne esplorano le conseguenze, a me però sembrava più interessante illustrare la vita quotidiana, in tutto il suo colore, nella sua riservatezza preziosa e imperfetta, prima che l’attimo di terrore senza ritorno colpisca. Se proprio avevo un’intenzione precisa quando mi sono imbarcato in questo libro, era quella di cercare di dare un volto umano al prima: quei momenti e quei personaggi marginali che rimangono all’ombra dei grandi eventi.
GU: Come titolo, Il tuffo sembra alimentare quest’idea.
JL: Vero. C’è un’espressione usata dai tuffatori per indicare il lasso di tempo in cui stanno in aria prima di immergersi. Lo chiamano «il volo del tuffo». A un certo punto ho capito che era quella la mia trama. Volevo mostrare il volo del tuffo a partire dal primo slancio – i piccoli gesti e le parole dai quali può scaturire un tentato omicidio – passando per tutti gli avvitamenti e le capriole, fino al momento irreversibile dell’impatto. Come facciamo a sapere cosa va perso in un atto terroristico se non guardando a fondo quello che c’era prima? Ce ne dimentichiamo, in continuazione, di guardare a fondo, perché non intuiamo la gravità di ciò che ci aspetta dietro l’angolo. Siamo troppo presi da noi stessi. O almeno per me è così. L’apatia e l’egocentrismo sono diventati parte integrante della mia tematica. Nel racconto «L’ambasciata di Cambogia», Zadie Smith a un certo punto dice: «Sicuramente ci sono dei vantaggi nel tracciare un cerchio intorno alla propria attenzione e rimanerci dentro. Ma quanto dev’essere grande questo cerchio?» Credo sia la domanda cruciale della vita. Fino a che punto ci battiamo per qualcosa che non sia noi stessi?
GU: Moose ha un ricordo dell’ex moglie Viv, di quando se l’è presa con lui per il suo discorso di matrimonio accusandolo di mancare di autenticità. Ciascun personaggio del libro interpreta una parte… L’accoglienza stessa dell’albergo è una messinscena. Dan interpreta Roy Walsh. In che modo queste maschere influiscono sui personaggi?
JL: Ottima domanda. C’è un brano in La luna e sei soldi di Somerset Maugham, vediamo se me lo ricordo… Dovrebbe essere così: «A volte un individuo porta la maschera che ha assunto a una tale perfezione, da diventare davvero la persona che sembra». Nel libro, Dan, come molti giovani cattolici di Belfast, prende parte alla battaglia per l’indipendenza irlandese. Penso sia il miglior esempio all’interno del romanzo di qualcuno che vuole contribuire significativamente a plasmare il mondo, ma per riuscirci deve indurirsi e calarsi in una parte. A un certo punto si guarda allo specchio e vede i propri tratti leggermente cambiati, non c’è più espressività emotiva. È privo di empatia, ormai, ma non al punto da non capire cos’è che gli manca: è questa la sua tragedia, se mi è concesso usare una parola tanto pomposa. Ha dovuto stabilire una certa distanza dentro di sé, una distanza tra la propria coscienza e le proprie azioni, e man mano che la distanza si amplia con il procedere del libro, la sua stessa umanità comincia a essergli di grande impaccio. Perciò l’annienta, o almeno ci prova.
La Thatcher è un esempio analogo, secondo me. Per essere presa sul serio come politica, per arrivare dov’è arrivata, ha dovuto mettere una grande distanza tra il suo io pubblico e il suo io privato e questa distanza ha finito per inibirle l’empatia, la capacità di mettersi nei panni altrui. In fondo non è mai riuscita a immedesimarsi nei cattolici irlandesi di Belfast discriminati, né in chi faceva lo sciopero della fame, né nella gente di colore vittima dell’apartheid in Sudafrica, né nei minatori che scioperavano in patria. Non c’era posto per loro nella sua rappresentazione del mondo. Hai ragione quando dici che tutti gli altri personaggi del Tuffo sono coinvolti in una messinscena di qualche tipo. Hanno tutti un io pubblico, il volto che mostrano agli altri. Maschera deriva da «mascherata», no? Un travestimento da indossare a una festa pubblica. Il romanzo passa in rassegna una serie di momenti privati che confluiscono in un evento pubblico, quando ormai la maschera di ognuno si è fissata.
GU: L’emozione che domina costantemente in Freya è la noia, il che infastidisce Moose, perché è tormentato dai propri sogni irrealizzati e spera in qualcosa di più per lei. Secondo te è una domanda che ci perseguita, quella di come fare a conciliare il modo in cui crediamo si evolverà la nostra vita e il modo in cui si evolve effettivamente?
JL: Credo sia il tema essenziale di tutta l’arte. Gli occhi attraverso i quali vediamo il mondo sono i nostri, perciò è normale considerarci leggermente più tridimensionali e ricchi di potenziale rispetto a un tale che troviamo in fila da Starbucks… pardon, al Blue Bottle Coffee. Invecchiando, tutti quanti cominciamo a capire che ci sono alcune cose che non faremo mai, dopodiché capiamo che ci sono moltissime cose che non faremo mai, ed è questa la principale fonte del comico e anche del tragico che troviamo nei libri, nei film e negli spettacoli teatrali. Se le cazzate che combiniamo non sono catastrofiche, la storia della nostra vita sarà una commedia. Se i nostri errori finiscono per condurci a un’insanabile rovina, la nostra storia sarà una tragedia. Le opere di Shakespeare seguono quasi tutte questo schema. E anche i film dei fratelli Coen. Adoro i fratelli Coen. Adoro come non si fanno problemi a mescolare il disperatamente triste con il disperatamente assurdo, il terribilmente divertente con il terribilmente terribile. Lo stesso vale per Lorrie Moore, Joy Williams, Don DeLillo, Robert Walser, William Maxwell, Javier Marías, Grace Paley, Robert Musil, Dickens… Tutti gli scrittori che amo.
GU: Nel tuo ritratto di Dan c’è molta empatia, ma senza volerlo giustificare. Mi è piaciuto soprattutto il suo contrasto con Freya: entrambi hanno perso un genitore, in un modo o nell’altro, e per questo si sentono alla deriva e prendono la strada di una ribellione, sebbene nel caso di Dan molto più estrema. Sei mai stato combattuto su come volevi ritrarre Dan?
JL: Sono molto combattuto su come ritraggo ogni mio personaggio. È un conflitto che a quanto pare non vuole saperne di sparire, a prescindere da quanti anni passo su un libro. Tanti scrittori dicono che, a un certo punto, i loro personaggi si animano di vita propria e cominciano a prendere decisioni proprie, per creare una trama propria. Per me non è mai stato così. Lo scrittore è sempre il burattinaio, tutto sgorga sempre consciamente o inconsciamente dal cervello o dal cuore della persona che impugna la penna, e mi viene difficile credere nell’idea romantica che un personaggio su pagina abbia una vita propria. Però è anche vero che a un certo punto durante il processo di scrittura i tuoi personaggi – pur restando animati da te, l’autore – vogliono staccarsi un po’, vogliono respirare e vivere discosti. Ottengono un grado non di autonomia, ma di fantasia: cominciano a fantasticare l’indipendenza. Quando il libro finisce, quando l’autore passa a un nuovo progetto, certi personaggi si rifiutano di affondare con la nave.
A metà stesura del Tuffo speravo che Dan non facesse ciò che sapevo avrebbe fatto. Ma ormai era così come l’avevo creato io. Il suo degrado, i passi che muove verso la distruzione propria e di altre vite, erano più o meno inevitabili a quel punto. Stavo scrivendo le sue ultime scene – ero io a tenere la penna in mano – ma tutto a un tratto le opzioni che avevo erano molto limitate. Non è possibile costruire personaggi basati su idee preconcette, secondo me, e dire: «mettiamoci un pizzico di questo e un pizzico di quell’altro». Mi sa di falso. Io comincio semplicemente a scrivere e vedo come va avanti, e a un certo punto non ho altra scelta che ritrarre i personaggi così come sono… Guardo da lontano, hanno sono solo una o due strade plausibili da imboccare. O qualcosa del genere, comunque.
GU: Il libro è ambientato perlopiù al Grand e i piccoli dettagli della vita alberghiera sono molto specifici e accurati. Avevi già esperienza nel settore?
JL: Oh, no. Ho lavorato in ristoranti e negozi e in diverse industrie di servizi, ma in un albergo mai. Un’estate ho riparato orologi. È stato bello. Ti diverti alla grande, mi diceva sempre il capo. Era un buon lavoro, non fosse per il modo in cui continuava a ripetermi quella frase. Ma il bello della letteratura è che a volte, se sei fortunato, riesci a creare un mondo talmente aggressivo nella sua specificità da far credere che scaturisca da un’esperienza diretta. L’anno scorso ho letto un bellissimo racconto di Téa Obreht intitolato «The Laugh», è ambientato in Tanzania ed evoca magnificamente la sensazione del luogo. Ho incontrato Téa poco tempo dopo averlo letto. Le ho detto che mi sarebbe sempre piaciuto fare un safari da qualche parte in Africa. E lei mi fa: «Anche a me». La Tanzania non l’aveva vista neanche col binocolo. Non riuscivo a crederci, tanto era bello e preciso il suo racconto. Conclusione: rimango sempre incantato dalla specificità fraudolenta di tutta la buona letteratura.
GU: Com’è che hai preso dimestichezza con il Grand?
JL: C’è un momento in cui le ricerche devono fermarsi per lasciar posto all’intuizione e all’immaginazione, ma prima di arrivare a quel punto ho avuto la fortuna di poter gironzolare un po’ al Grand, parlare con varie persone e visitare la stanza dove pernottò Margaret Thatcher. Il Grand del romanzo è una specie di versione fantasma di quello reale, segue la logica di un sogno piuttosto che una pianta storica, ma per dargli una parvenza di realtà sono comunque necessari i piccoli dettagli. Quando osservo un bravo receptionist o direttore d’albergo, mi vengono in mente gli scrittori. Accolgono le persone nel mondo di cui si sono presi cura, le accompagnano in giro, sperano che se la passino bene. Gli scrittori fanno lo stesso. Invitano i personaggi nelle loro storie, come ospiti temporanei. Negli alberghi c’è un qualcosa che vuole includere delle persone ed escluderne altre, o no? Le norme di questi piccoli mondi-albergo hanno cominciato a rappresentare per me una vaga metafora di qualcosa: Belfast, l’occupazione del territorio, l’esclusività, il classismo, le divisioni tra spazi cattolici e spazi protestanti, comunità incluse ed escluse. Così la vedo io, almeno. A volte certe idee ti vengono solo quando hai già finito il libro. Facile millantare chissà quali intenti.
GU: Il tuo secondo romanzo, Joy, pubblicato nel Regno Unito, racconta gli strascichi del suicidio di una giovane avvocatessa di talento. Il tuffo è un po’ il contrario, il crescendo anziché la ricaduta?
JL: Non avevo pensato a questa complementarietà tra i due libri, ma penso di sì. Joy passa dall’ultimo giorno di vita della giovane avvocatessa alle conseguenze del suo apparente suicidio, dove abbiamo tutte le varie voci dei colleghi che offrono i loro punti di vista contrastanti su ciò che le è successo e su che tipo di persona fosse, rivelando inconsciamente più di sé stessi che di lei. Nella struttura di Joy c’è una sorta di altalena tra il prima e il dopo, quindi. Per Il tuffo pensavo alla spiaggia, al mare che va e viene… La narrazione compie di nuovo questo movimento in avanti e indietro, anche se tutti gli eventi principali precedono l’attentato. Se c’è una cosa che sembra legare tutti i miei libri, è l’idea che non si può conoscere mai nessuno fino in fondo. E che quando qualcuno, per sua scelta o per causa altrui, muore o è ridotto al silenzio, tutte le sue storie non raccontate muoiono con lui. Non ho idea del perché questa cosa sembra ossessionarmi, ma tant’è.
GU: Il tuffo è un tipo di romanzo diverso rispetto ai due precedenti, dal momento che affonda le radici in un evento storico preciso. Quali differenze ci sono state nello scrivere un libro basato su un evento reale?
JL: Be’, anche scrivere Joy è stato delicato, per certi aspetti, perché quando avevo vent’anni e facevo l’avvocato a Londra, una giovane collega di talento è morta in quello che sembrava un suicidio. L’idea mi ha ossessionato, e insieme a me la mia scrittura, per un bel po’. È stato il seme di Joy. Hai ragione, però. Il tuffo tutto sommato si sviluppa entro un quadro di fatti storicamente avvenuti, diversamente dagli altri miei libri, e questo l’ha reso impegnativo e stimolante. Si ha una maggiore responsabilità nel rendere giustizia alle cose… Non in termini di fattualità, ma di verità emotiva. Ho deliberatamente ambientato il libro in un quartiere di Belfast che non esiste, e la cosa pare aver scocciato almeno un recensore in patria, e Moose frequenta una piscina che non c’è mai stata a Brighton. Tutti i personaggi fanno riferimento a luoghi che sono luoghi fantasma, o fittizi, e a gente che non è gente reale. Siamo in un romanzo, è pieno di mie invenzioni. Mi sono concesso la libertà di calarmi nei buchi tra i fatti conosciuti, per cominciare a inventare. E di buchi ce n’erano tantissimi. Enormi. Sappiamo ben poco sull’attentato.
GU: C’è un personaggio del Tuffo che senti più vicino? Io personalmente ho sentito una certa affinità con Freya.
JL: Mi fa piacere che tu lo dica. È un anno o giù di lì che ho finito le revisioni del romanzo, ed è stato anche per me il personaggio al quale ho continuato a pensare di più. Credo che in ogni romanzo ci sia probabilmente un personaggio – e forse più di uno – che racconta la verità, e che quindi dà l’impressione di essere il futuro: la persona che porterà avanti la storia, al di là dell’ultima pagina, una volta chiuso il libro. Per me è Freya. In parte, la tristezza che ho provato dopo aver finito il libro è stato il dovermela lasciare alle spalle. Bambini non ne ho, e lei aveva cominciato a sembrarmi una figlia, una persona che amavo davvero, con la quale avrei voluto passare un sacco di tempo a cercare di capirla. Ma sta bene. Freya è simpatica. Ha il senso dell’umorismo. È questa la chiave per sopravvivere alla maggior parte delle cose, non trovi? Il libro è finito, ma Freya è ancora lì. Non è affondata con la mia nave.
© Kyle Lucia Wu, 2016. Tutti i diritti riservati.
Kyle Lucia Wu fa la scrittrice e abita a New York. È caporedattrice della rivista Joyland e ha conseguito un master in scrittura creativa presso la New School.
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