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Cronache dell’altro mondo: Paradiso

Mario Luzi Autori, José Lezama Lima, SUR

La nuova edizione di Paradiso di José Lezama Lima sta per arrivare in libreria, nella curatela di Glauco Felici. Arricchita da una prefazione di Chiara Valerio e da una nota di Julio Cortázar, esce cinquant’anni dopo la pubblicazione originale, avvenuta nel 1966.
Pubblichiamo oggi una recensione di Mario Luzi alla prima edizione italiana, uscita per il Saggiatore nel 1971.

di Mario Luzi

Fuori di Cuba solo i pochi puntuali conoscitori di poesia avevano messo gli occhi sulle dense liriche di José Lezama Lima; pochissimi addetti ai lavori avevano potuto apprezzare l’intelligenza acuta e dilatatrice dei suoi saggi. La personalità che si esprimeva nelle une e negli altri era stata, è vero, determinante per la cultura letteraria cubana, tanto più che si era approntata uno strumento maieutico di grande efficacia con la rivista Orígenes, oggi celebrata come «la più bella del Sudamerica». Tuttavia solo quando nel 1966 apparve Paradiso la letteratura continentale, Julio Cortázar in testa, si accorse di avere tra le sue file, fino ad allora relegato nel piccolo ghetto di Cuba, uno straordinario creatore. Paradiso si affaccia infine sull’Europa e si presenta in Italia nella versione firmata da Arrigo Storchi e da Valerio Riva per le edizioni del Saggiatore. Il testo, foltissimo, è preceduto da un saggio introduttivo scritto da Cortázar nel fervore e nella letizia della scoperta: è una precauzione presa opportunamente perché il lettore possa superare senza sgomento la dismisura materiale e poetica dell’opera. Il quale lettore, va detto, potrebbe dapprima perfino ingannarsi e credere di camminare in territori non troppo difformi dalle sue più alte abitudini.

Si profila, infatti, all’inizio una storia di famiglia cubana dei primi anni del secolo e, parallelamente, un classico romanzo di formazione accentrato sull’infanzia e sull’adolescenza di José Cemí, evidente proiezione autobiografica dell’autore. Sia chiaro, questa prima immagine non è illusoria e ha tutto il diritto di persistere anche quando la selva tropicale del seguito sembra averla cancellata. Sarà bene non perderla di vista, dunque, e seguirne lo sviluppo che potrebbe essere a un dipresso questo: l’esperienza di José Cemí procede attraverso la realtà storica e la realtà profonda polarizzate nell’amabile e succoso universo della famiglia e in quello assai più inafferrabile dell’amicizia. Si potrebbe forse aggiungere che dal primo riceve la nozione prevalente di morte, dal secondo la rivelazione misterica del sesso: e, dall’una e dall’altra, un’iniziazione alla poesia. Ma, tracciato questo schema, non avremo detto niente dell’intreccio proliferante di stati, dai più carnali ai più sottili, e d’intuizioni, dalle più dense alle più rarefatte, per cui passa lo svolgimento; fino al punto da farlo risultare subalterno nei confronti di uno svolgimento più fondamentale che frattanto si va attuando: e cioè il manifestarsi dell’oscura profondità orfica dove le ambiguità confluiscono nell’unità e presumibilmente nella divinità del principio.

A questo svolgimento più fondamentale concorrono ugualmente il versante realistico nel quale si consumano, tra affetto e ironia, episodi di domestica proporzione, non esclusa la spicciola e grottesca trafila erotica, e l’altro speculativamente infiammato che non sopporta compromessi con la verosimiglianza narrativa e scavalca i contorni umani di chi lo percorre: avventuroso e spesso trionfale excursus verso l’eros assoluto per i rami, si direbbe, della dottrina angelica che ha delibato ogni dottrina. Concorrono anche tutti i modi possibili di scrittura che tale complessità consente: il racconto diretto orchestrato in un sapiente movimento di archi, il soliloquio interno, il dialogo, se si può chiamare dialogo l’esposizione e il confronto di tesi speculative a regime mentale pieno e altissimo tra persone che sono, sì, reali ma che sono allo stesso tempo tutte ermeneuti: in primis i due giovani amici Foción e Fronesis che compongono con Cemí un trio inseparabile. E poi l’assunzione di storie remote, apparentemente estranee; l’apparizione di personaggi intemporali.

L’aspetto che presenta a prima vista questa animata e capillarmente accesa massa poetica è bifronte: di sensualità e di mistagogia, perfino di mistica. Poi ci si accorge che le due facce non sono opposte ma svariano l’una nell’altra e il processo alchemico della trasmutazione è opera del linguaggio che nel suo duttile e inesauribile metaforismo connette tra loro i piani più distanti, perfino l’osceno con il sublime.

Dire a quale modello attuale o possibile di arte letteraria corrisponde un’opera come questa non è semplice. A poco serve, mi sembra, chiedere soccorso agli universi narrativi complessi, autonomi e polivalenti di cui il nostro secolo ci ha fornito l’esempio. La demiurgia di Proust, Musil e di Joyce nasce da una intuizione primaria sulla natura profonda dell’uomo ma è anche ordinata intorno a un criterio, per così dire, formante. In questi maestri del romanzo europeo moderno la profondità è la dimensione in cui vive l’eroe dissociato dalla normalità del mondo, ma è anche l’origine di un sistema implicito di conoscenza e di relazione con il mondo. L’opera si apre variamente sugli abissi della psiche ma si ricompone e assume una forma modellandosi su quel sistema interno.

Sebbene questi autori siano stati tutti invocati per dare una parentela a Lezama Lima, non vedo niente di tutto questo in Paradiso. In primo luogo non c’è qui un retroterra di crisi e di frustrazione, ma siamo anzi nel pieno di un atteggiamento salutare e sapienziale. La tendenza ad ammettere, a coinvolgere il mondo nella sua totalità di tempi e di modi non obbedisce a un movimento di recessione vorticosa della coscienza, ma a un naturale movimento di espansione e di conquista verso un’ultima possibile completezza. Suppongo sia per questo che il libro non ha una forma, ma è proiettato in tutte le direzioni della sua crescita, simile a un esplosivo frondosissimo albero della conoscenza in cui si riconnettono, al di sopra degli spazi e dei tempi, fasi e alternanze del pensiero filosofico, magico, religioso.

Forse è un errore considerare Paradiso una di quelle imprese che si risolvono nell’estetica e sia pure una nuova estetica. Meglio guardarlo come una di quelle summae in cui l’uomo mette tutto ciò che ha accumulato e gioca su di esse l’unica definitiva partita dell’intelligenza, un libro o meglio il Libro, nell’accezione quasi medioevale e gotica che la modernità ha talvolta ritentato, e di rado con tanta ricchezza di poesia.

© Mario Luzi, 1971. Tutti i diritti riservati.

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