Cosa accade se per anni si cercano le tracce di una figura di culto come Jorge Luis Borges? Uno stupefacente reportage di Mónica Yemayel sulla storia di Laura Rosato e Gérman Álvarez, i detective di Borges.
L’articolo è stato pubblicato originariamente su Gatopardo, e tradotto in italiano da Sara Bani per Internazionale. Lo ripubblichiamo oggi, ringraziando l’autrice ed entrambe le testate.
Le fotografie sono di Félix Busso.
di Mónica Yemayel
traduzione di Sara Bani
«Ho trovato qualcosa», ha detto Germán al telefono, a un’ora in cui nei sotterranei della biblioteca nazionale di Buenos Aires restavano solo i libri e lui. Diversi piani più in alto, nella Sala del Tesoro, Laura non ha avuto bisogno di fare domande.
Germán aveva tra le mani una rivista dalla copertina arancione, aperta alla pagina in cui cominciava un racconto. In quella pagina qualcuno aveva fatto delle cancellature con una stilografica e aveva lasciato un foglio su cui si leggevano alcune righe scritte a mano. Germán tremava dall’emozione. Conosceva quella grafia a memoria. La cercava come un segugio da più di dieci anni. Era la sera di un giorno di luglio del 2013.
Jorge Luis Borges aveva pubblicato per la prima volta il racconto «Tema del traditore e dell’eroe» nel febbraio del 1944 sul numero 112 della rivista Sur, diretta da Victoria Ocampo. Germán aveva scoperto, tra centinaia di riviste coperte di polvere, le correzioni che Borges aveva fatto sulle pagine stampate e il pezzo di carta su cui aveva scritto di suo pugno il nuovo finale del racconto, che sarebbe stato pubblicato quello stesso anno sulla prima edizione di Finzioni.
«Un Borges nascosto»: nel settembre del 2013 i giornali sono usciti con questo titolo, quando la biblioteca nazionale ha reso pubblica la scoperta. Il manoscritto con il finale di «Tema del traditore e dell’eroe» è diventato la reliquia più importante dello scrittore delle pochissime in mano allo stato argentino. La maggior parte appartiene alla Fondazione internazionale Jorge Luis Borges diretta da María Kodama; altre sono state vendute a collezionisti privati. Un anno dopo, il sistema di ventilazione rinfresca l’aria dei sotterranei della biblioteca nazionale.
«Era su quello scaffale», dice Germán, che passa i polpastrelli delle dita sulle costole arancioni di Sur. Si muove piano e parla per monologhi lunghi e dolci, una strategia che gli serve a nascondere la timidezza. Il silenzio sepolcrale è rotto dal ritmo allegro di cumbia che arriva da un registratore che hanno acceso due dipendenti appena arrivati che ci salutano da lontano.
«Dimmi se questa non è la scenografia perfetta per diventare superstiziosi. Un bunker sotterraneo quasi sempre deserto, con i corridoi stretti tra gli scaffali. Alcuni dipendenti sono convinti che questi scavi così in profondità abbiano risvegliato degli spiriti. Dodici piani più in alto potrebbe succedere di tutto e qui non ne sapremmo niente».
Germán ha passato in questo sortilegio la maggior parte degli ultimi anni, in piedi o in ginocchio, a cercare i libri di Borges e quelli che ha consultato. Lo scrittore era stato direttore della biblioteca nazionale nella sua vecchia sede, in calle México, dal 1955 al 1973. Con il trasloco nel nuovo edificio molti dei suoi libri sono andati persi. Ritrovarli equivale ad accedere agli appunti che lo scrittore ci ha lasciato, alle tracce inconfutabili della straordinaria macchina da lettura borgesiana.
«Eravamo già passati di qui», dice con naturalezza. «Devo aver controllato questa zona mille volte e ho sempre la sensazione che mi sia sfuggito qualcosa».
La scoperta del manoscritto è probabilmente la parte più visibile di un lavoro primitivo, faraonico, cominciato per caso alla fine degli anni Novanta. All’epoca Laura Rosato e Germán Álvarez erano due impiegati della biblioteca nazionale. Lui lavorava all’archivio storico istituzionale, lei alla Sala del Tesoro. Entrambi sapevano che settanta libri della biblioteca personale di Borges erano stati rinvenuti in alcuni scatoloni abbandonati negli scantinati dell’edificio.
Il paese stava lentamente sprofondando in quella che sarebbe stata una delle peggiori crisi economiche e politiche della sua storia, e la violenza per strada aveva contagiato la biblioteca: i dipendenti denunciavano le pessime condizioni di lavoro e l’inerzia della direzione che metteva a rischio il patrimonio culturale. Nel 2002, Germán e Laura cominciarono a vedersi più spesso perché militavano nello stesso sindacato dei dipendenti statali che aveva organizzato una mensa popolare nello spiazzo davanti all’ingresso della biblioteca. Loro cucinavano e servivano i piatti senza sapere di covare la stessa passione. Un giorno si confessarono il loro segreto: entrambi sgattaiolavano via dai loro uffici per cercare altre tracce. Se avevano trovato settanta libri, perché non potevano essercene altri cento, cinquecento, mille? E se avessero lavorato insieme? E se, oltre a cercare i libri, avessero trascritto gli appunti di Borges? Perché non cercare di scoprire il destino di quelle idee «rubate» ad altri autori?
I primi due anni sono stati i più fecondi: hanno trovato quasi ottocento libri. Nel 2005 avevano già tra le mani moltissimi appunti e nel 2006 hanno catalogato la collezione. Un lavoro anarchico, da detective, che hanno sistematizzato per più di dieci anni e che ha dato un prestigio insolito a due dipendenti che, senza una formazione accademica, sono riusciti a riscattare dall’oblio più completo un migliaio di libri annotati da Borges nel suo periodo come direttore della biblioteca nazionale.
Nel 2010 l’istituzione ha pubblicato il primo volume di Borges, libros y lecturas, un catalogo che raccoglie la metà dei mille libri trovati, una collezione superata solo dai tremila volumi della Fondazione Borges. Il testo si apre con uno studio preliminare degli autori; poi il catalogo riporta in ordine alfabetico i libri della collezione, la trascrizione degli appunti di Borges su ogni libro e infine i riferimenti ai saggi e ai testi narrativi in cui Borges riversò quelle letture.
Nel 2005 è cominciata l’ultima fase di questo lavoro. Germán, intrigato, si chiedeva: «È possibile che Borges sia un grande plagiario?» Non ci ha messo molto a capire di avere tra le mani, allo stato puro, la prova materiale di una tesi da sempre sostenuta dalla critica: la letteratura di Borges è una messa in scena intertestuale. Adesso Laura e Germán scrivono su riviste specialistiche, intervengono insieme agli esperti ai convegni internazionali e viaggiano per il paese per raccontare, attraverso quegli appunti sui libri, la storia dello scrittore. Nel frattempo preparano l’edizione del secondo volume che uscirà a breve e includerà anche gli appunti di Borges trovati nelle loro ricerche in altre biblioteche frequentate dallo scrittore.
Un mese prima di quell’incontro con Germán nei sotterranei della biblioteca, ci eravamo dati appuntamento in un ambiente molto diverso: la Sala del Tesoro, al terzo piano. Uno spazio dall’atmosfera museale, pieno di antichità di epoche e stili diversi. Un luogo eclettico, pieno di legno scuro, quadri dalle cornici dorate (un ritratto di Borges è appeso vicino alla porta d’ingresso e al metal detector), lampade da lettura in vetro verde, luci basse, scrivanie signorili, vetrine con gli incunaboli, e un enorme tavolo ovale al centro della sala su cui un ricercatore, munito di guanti di lattice, studiava un libro antichissimo quando Laura e Germán sono entrati. Quel giorno, seduti una davanti all’altro, hanno ascoltato la mia proposta di scrivere questo articolo, con le mani poggiate sul tavolo ovale. Intrigati, divertiti, forse scettici, si sono guardati a lungo come se stessero decidendo il da farsi a colpi di sguardo. Laura ha 46 anni, è sposata da venticinque anni e ha due figlie adolescenti. Indossava una tuta comoda di cotone grigio e non era truccata. Portava i capelli alle spalle, ondulati e chiari. Germán ha 37 anni, è identico a Laura, ma è separato dal 2010.
Tutti conoscono Laura. Quel giorno lei e Germán hanno detto di essere come cane e gatto, di aver litigato come due pazzi, di essere come marito e moglie sul lavoro, di non riuscire a immaginare di fare le cose da soli. Di avere paura, soprattutto, che la ricerca stesse per giungere alla sua fine. «Il lavoro è stato un rifugio per entrambi», dice Laura. «Eravamo alla fine del governo di Fernando de la Rúa, il paese era nel caos e vivevamo un inferno. Ci avevano ridotto del 30 per cento lo stipendio e stavano svuotando la biblioteca. Cosa potevamo fare? Ci siamo messi a leggere da dietro le spalle di Borges. Dal 2004 con la nuova gestione è iniziato il “programma di ricerca e rinvenimento dei fondi borgesiani”. Quando Horacio González è diventato direttore della biblioteca gli abbiamo parlato della nostra ricerca e delle trascrizioni che avevamo cominciato a fare. Gli abbiamo chiesto di farci lavorare a tempo pieno sul progetto, per fare un lavoro più sistematico».
Quando hanno consegnato la versione finale del libro hanno litigato e non si sono parlati per una settimana. Un giorno, quando Germán non è presente, Laura dirà: «La tensione era fortissima. Io sono testarda e lui è autoritario. Un giorno gli ho detto: “Se tu non fossi un ragazzino di merda ti darei un ceffone”».
«Il libro sarebbe un colabrodo se lo avessi fatto da sola. Senza di me, Germán non l’avrebbe mai finito. La collaborazione è decollata quando ho accettato l’idea che lui era la star e io la sua manager».
«Tieni, leggi. È un gorila, ma è lo scrittore argentino migliore». Per il suo tredicesimo compleanno, il padre di Laura le regalò L’Aleph con questo avvertimento sulla posizione politica dello scrittore, identificato con la destra gorila, radicalmente antiperonista. Quella lettura iniziatica la spinse a farne altre e poi altre ancora, e mentre studiava nelle scuole pubbliche di Ciudad Jardín, a trenta chilometri dal centro di Buenos Aires, diventò una lettrice insaziabile. Aveva sempre voluto scrivere. Ha studiato lettere e poi cinema, ma ha lasciato gli studi prima di laurearsi. Suo padre era un sindacalista dello zoccolo duro del peronismo, e anche se lei premeva perché le facesse avere un posto, è stato un amico di famiglia che l’ha fatta entrare alla biblioteca nazionale. Era il 1987. «Avevo 18 anni e la sede era ancora in calle México 564, nel quartiere meridionale di Monserrat».
Era lo stesso edificio in cui si trovava la biblioteca quando Borges era direttore. Lo scrittore passava qui giornate intere con Bioy Casares, e la trasformò nella sua «Biblioteca di Babele», il racconto pubblicato nel 1941 che comincia così: «L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente». Sulla scala di legno della biblioteca di calle México è stata scattata una foto in cui si vede Borges che saluta cordialmente l’ammiraglio Rojas, un protagonista del colpo di stato del 1955 che rovesciò il governo democratico di Juan Perón, portò alla proscrizione assoluta del peronismo fino al 1973 e mise Borges alla direzione della biblioteca nazionale. Pare che quel gesto di simpatia nei confronti di Rojas fu sufficiente per guadagnarsi il rancore dei dipendenti, tutti sostenitori di Perón e di Evita. «Forse Borges lo sapeva e lo fece apposta. Borges amava l’edificio della biblioteca in calle México. Venivano da tutti gli angoli del mondo per vederlo nella sua Babele. Lui rimaneva nel suo tempio del primo piano e più in basso c’erano i dipendenti, che inscatolavano i libri senza nessuna logica. L’edificio era sull’orlo del collasso, non c’era più posto per i libri e li mandavano in deposito senza catalogarli, per conservarli negli scatoloni. Sono andati avanti così per trent’anni. Centinaia di libri ritrovati vengono da lì». Quando nel 1992 è cominciato il trasloco da calle México alla nuova sede, nel quartiere di Recoleta, Laura ha avuto il compito di ordinare gli archivi e i documenti importanti. Nel 1971, Borges pose la prima pietra di questo nuovo edificio sul terreno su cui sorgeva la casa di Eva e di Juan Perón prima di essere demolita dai militari. A Borges non piaceva il quartiere Recoleta e meno ancora il progetto dell’architetto argentino Clorindo Testa, che prevedeva sei piani in superficie e sei interrati: ai piani alti le sale di lettura, in profondità i depositi. «Non capisco come i libri possano essere conservati così lontano dai lettori», si lamentava Borges, prevedendo problemi con i montacarichi e gli ascensori. Laura è stata la prima dipendente del nuovo edificio. Nel 1995 lavorava alla Sala del Tesoro. A quel punto erano già stati scoperti settanta libri che Borges aveva donato quando aveva lasciato la direzione della biblioteca e che giravano da un ufficio all’altro, senza essere stati catalogati e fuori dalla portata del pubblico. Nel 1999, per celebrare il centenario della nascita dello scrittore, fu organizzata una mostra itinerante per esibire quella collezione. Quando i libri tornarono alla biblioteca nazionale si accorsero che ne mancava uno. «Per proteggerli decisero di custodirli nella Sala del Tesoro, e io lavoravo lì. Nessuno amava molto Borges. Nessuno se ne interessava. Allora mi sono offerta e ho cominciato a catalogare i libri. Una questione complicata, perché non sono bibliotecaria e solo i bibliotecari catalogano libri». Si sentì un’usurpatrice. Una sensazione che sarebbe riaffiorata quando cominciarono a lavorare sulla genesi del testo borgesiano: nessuno dei due è filologo o esperto di critica genetica. Nei momenti di difficoltà hanno consultato gli specialisti. Li hanno coinvolti nel loro gioco e hanno creato una sorta di club di amici di Borges che dalle principali università del mondo li ha aiutati a delucidare gli appunti più oscuri, quasi inintellegibili, molti dei quali erano scritti in latino, tedesco, francese, italiano e inglese. Laura parla di nuovo del momento prodigioso, nei primi anni del nuovo secolo, in cui si è resa conto che quei settanta volumi erano la punta dell’iceberg. «C’erano l’Inferno e il Paradiso danteschi. Era impossibile che non ci fosse il Purgatorio. Ma dov’era?»
Nei depositi c’era all’incirca un milione di libri e solo il 30 per cento era stato digitalizzato. Allora è cominciata la ricerca. Laura saliva al sesto piano e cercava sui terminal riservati agli studiosi. Un giorno ha visto Germán: era davanti a uno di quei computer e anche lui cercava, assorto. Aveva letto sui giornali dei settanta libri dell’autore che lo teneva sveglio a leggere fin da bambino. Aveva poco più di vent’anni e da un anno e mezzo lavorava in biblioteca. Sottraeva ore al suo lavoro per cercare quei libri. «Gli chiedevo cosa ci facesse lì e lui restava sul vago. “Dove vivi? I tuoi genitori cosa fanno?” Mi piaceva molto il suo look, ero intrigata. Credo di avergli rotto così tanto le scatole che un pomeriggio ha abbassato la guardia e si è confidato». Alla fine Germán le ha detto cosa stava cercando. Allora Laura, vittoriosa, superba nel suo olimpo, sapendosi padrona del tesoro, ha sussurrato: «Quei libri li ho io».
La prima volta che Germán Álvarez ha sentito parlare di Borges aveva otto anni, era andato a trovare i nonni nel loro vecchio appartamento a Boca, e suo zio, che era libraio e distributore della casa editrice Larousse, stava parlando a suo padre di alcuni manoscritti appartenuti a Borges, dei racconti scritti sui fogli sulla carta intestata della biblioteca comunale Miguel Cané dove lo scrittore aveva ottenuto il suo primo lavoro.
Sua madre non era una grande lettrice, ma lo aveva iscritto alle due biblioteche popolari di Adrogué, la zona meridionale dell’area metropolitana di Buenos Aires in cui vivevano, quasi ancor prima che cominciasse a camminare. Suo padre lo contagiò con l’entusiasmo – molto borgesiano – per le enciclopedie. Lo zio libraio lo riempiva di libri e quando suo fratello di dieci anni più grande comprò l’opera completa di Borges, pubblicata dalla casa editrice Emecé in volumi dalla copertina rigida e blu, Germán glieli rubò. Tlön, Uqbar, Orbis Tertius è stato il primo racconto che ha letto. In quel testo Borges crea un universo di finzione che nelle ultime righe del racconto invade, minaccioso, il mondo reale.
«Quel giorno mi dissi: “Che bello!” Avevo dodici anni e non avevo capito niente. Ma dentro di me era nato qualcosa. Ho deciso di seguire le tracce dei libri che citava nel racconto e li ho letti».
Ha cominciato a studiare farmacia e biochimica, forse perché suo padre lavorava in un laboratorio. Poco dopo è entrato a lavorare nella biblioteca, e in seguito alla pubblicazione del libro ha abbandonato gli studi. Gli mancavano tre esami per laurearsi.
Fa venti passi, tira fuori un libro, e dice che quel volume non sarebbe mai potuto essere di Borges. Ne fa altri venti, indica un altro volume e dice: «Questo invece sì». Con il tempo ha capito qual era la fisionomia dei libri che piacevano allo scrittore: rilegature di qualità, prime edizioni in lingua originale, edizioni antiche, caratteri gotici, case editrici classiche come Oxford, Faber & Faber e MacMillan, Penguin Classics e Pelican Books. E i timbri delle librerie che frequentava: Mackern’s, Mitchell’s Book Store, Pigmalión, Viau y Cía., Verbum, e le uniche che sopravvivono nel centro di Buenos Aires, Eusebio Rodríguez e Goethe.
«La ricerca è un lavoro dei sensi. Non è solo questione di leggere, ma di scoprire con il tatto, con la vista. Il libro ti parla, lo devi guardare in faccia».
Arriviamo nella sezione dell’emeroteca. «Avevamo una lista delle riviste su cui aveva pubblicato Borges. Ci sono diversi numeri doppi di Sur. Come questi», e passa il dito sulla costola delle copertine arancioni. «Non so quante volte sono passato davanti a questi scaffali. All’improvviso, un anno fa, mi fermo, mi chino, prendo dall’ultimo scaffale tutti i numeri 112, li apro, comincio a sfogliarli ed eccoli lì: le cancellature, il foglio con la fine del racconto, la grafia da insetto di Borges».
Se Germán avesse considerato conclusa la ricerca dopo la pubblicazione del primo libro nel 2010, non avrebbe trovato il manoscritto che oggi è patrimonio pubblico e orgoglio nazionale.
La porta può essere oltrepassata solo da pochi dipendenti autorizzati.
I libri sono disposti su uno dei tavoli da lettura della Sala del Tesoro. Gli appunti con la grafia di Borges, o quella di sua madre Leonor Acevedo. Pre-testi che Laura e Germán maneggiano con scioltezza. Per un normale lettore alcuni riferimenti sono molto familiari, altri estremamente sofisticati. Su un testo di Sant’Agostino, la citazione che Borges usò per confutare la dottrina dell’eterno ritorno di Nietzsche; su uno di Christian Walchs, la bozza dell’indice di Inquisizioni; su un’enciclopedia divulgativa di matematica, una descrizione di alcune notazioni scientifiche e una citazione di Archimede che Borges avrebbe usato per sviluppare la nozione dell’infinito in Il libro di Sabbia. Wilde, John Donne, Shakespeare, Dante, Melville, Poe, Rabelais, Cartesio, Schopenhauer.
Quando finisce il suo lavoro e scende la sera, Laura torna a Once, un quartiere commerciale, trafficato e popolare del centro di Buenos Aires. «Non mi piace vivere lì. Io vengo da Ciudad Jardín, un posto pieno di alberi, uccellini, sole e casette con i tetti rossi. Once è orribile, sporco, grigio, ma è centralissimo. Mi sono fatta convincere dalla posizione». D’estate le piace sedersi in terrazzo a leggere al sole con i gatti che le gironzolano attorno e le piante vicino, per avere «l’illusione di trovarsi in un ambiente naturale». Di sera, quando finisce di pulire e tutti dormono, si siede in cucina a godersi «la casa pulita e silenziosa, una rarità per la mia famiglia». La sua scrivania è uno spazio che si è ritagliata in un corridoio luminoso. «L’ho dipinta di giallo e adesso ho un posto in cui scrivere». L’anno scorso ha cominciato a pubblicare i suoi racconti in una rivista del quartiere dove viveva da bambina.
Laura e Germán non si vedono mai fuori dal lavoro, se non quando viaggiano per presentare le loro scoperte. Siamo a inizio di ottobre e sono appena tornati dalla provincia del Chaco, nel nord dell’Argentina. Una biblioteca pubblica è stato lo scenario prescelto per allestire la mostra e parlare di libri. In ogni viaggio, quando finiscono il loro intervento, escono insieme per mangiare o camminare, e Laura lo sorprende bevendo «come un cosacco» mentre cerca di contagiarlo con il suo spirito festivo. Laura ha un prontuario di eccessi che non nasconde, «frutto di una ricca esperienza». Adesso, chiaramente, è madre e quindi si modera. Senza dirlo apertamente, si preoccupa per Germán. Dice di essere quella infedele tra i due, la più distaccata. Dopo la pubblicazione del libro, Laura ha abbandonato Germán per un anno per collaborare quasi a tempo pieno alla nascita del museo del libro, un’iniziativa della biblioteca nazionale, che ha sede in un edificio adiacente. Germán, invece, non è riuscito a fermarsi. Una sera Laura gli ha dato un appuntamento per un caffè e gli ha detto che per lei era diventato difficile continuare a dividersi tra i due lavori.
«Germán pensava che fosse un addio, ma io volevo dire esattamente il contrario, che tornavo alla biblioteca per cominciare a lavorare al secondo volume. Il giorno dopo si è presentato con un libro in regalo».
Il libro era Escribir en colaboración. Historias de dúos de escritores, di Michel Lafon e Benoît Peeters, tradotto da César Aira.
«Quel giorno ho sentito che stavamo siglando un patto».
Hanno cominciato a preparare il secondo volume del libro. Insieme hanno cominciato a cercare in altre biblioteche. Si illumina quando ricorda la biblioteca del professore che aveva lavorato con Borges quando aveva vinto una cattedra di letteratura inglese all’università di Buenos Aires.
«Immagina una villa idilliaca, all’inglese, con un giardino pieno di lapacho e jacaranda, uccelli che svolazzano e noi due che parliamo delle Mille e una notte mentre scende la sera».
Non è facile abbandonare la ricerca, ma Laura comincia a sentire che il lavoro su Borges sta volgendo al termine. Tra pochi giorni andranno a Las Flores, a un congresso su Bioy Casares, e poi a Mar del Plata, per il congresso di letteratura ispanoamericana. Allestiranno la mostra itinerante su Borges alla biblioteca centrale dell’università. A breve la rivista specializzata in studi su Borges, Variaciones, pubblicata dall’università di Pittsburgh, pubblicherà un articolo che hanno scritto su un piccolo manoscritto trovato in un libro della collezione. Quest’anno la biblioteca nazionale pubblicherà un’edizione facsimile del manoscritto di «Tema del traditore e dell’eroe», con un prologo di Horacio González e un’introduzione di Laura e Germán. Nel secondo volume del libro includeranno testi trovati in altre biblioteche oltre a quella nazionale, ma Germán ammette che le ricerche non stanno dando grandi frutti. Anche se né Germán né Laura lo dicono esplicitamente, resta sempre la speranza che a un certo punto per loro si apra la Babele gelosamente custodita dalla Fondazione Borges.
«Negli ultimi anni», dice un giorno Germán, camminando nei sotterranei, «mi sono reso conto che è più importante cercare che trovare. Cercare ti dà un senso, è come un gioco a ripetizione».
Adesso, e chissà fino a quando, il centro della loro vita è questa ricerca frenetica.
© Mónica Yemayel, 2015. Tutti i diritti riservati.
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