el-pudor-del-pornografo-alan-pauls-L-LfG6Un

La letteratura mi ha fatto diventare intelligente: intervista ad Alan Pauls / 1

redazione Alan Pauls, Autori, Interviste, SUR

El pudor del pornógrafo

«El pudor del pornógrafo»: prima edizione, Sudamericana, 1984.

In attesa dell’uscita di Storia del denaro, pubblichiamo oggi la prima parte di un’intervista di Walter Lezcano ad Alan Pauls, in occasione della nuova edizione del suo primo romanzo, scritto quando aveva appena ventun anni: El pudor del pornógrafo (Anagrama). 

di Walter Lezcano
traduzione di Francesca Signorello

Quando scrisse il suo primo romanzo, lo scrittore, saggista e sceneggiatore Alan Pauls (Buenos Aires, 1959) aveva appena ventun anni. Gli diede come titolo En el punto inmovil e lo spedì a un concorso letterario. Non vinse. Ma ottenne comunque il suo premio: Enrique Pezzoni, allora editor di Sudamericana, si mostrò interessato a pubblicarlo. Pauls era felice, tranne che per un particolare: doveva cambiargli il titolo. Nel giro di poco tempo, gli venne in mente il titolo definitivo della sua opera prima: El pudor del pornógrafo. Il libro uscì nell’anno 1984, con un quadro poco conosciuto di Klee in copertina e la quarta firmata da Luis Chitarroni. Oggi, trent’anni dopo, la casa editrice Anagrama ha appena terminato la nuova edizione.

El pudor del pornógrafo è un romanzo epistolare contenente le lettere che il sessuologo di una rivista pornografica scrive a Úrsula, il suo adorato oggetto d’amore. Un romanzo di genere, caratterizzato da un certo spirito anacronistico, e da un’intensità sentimentale ed espressiva che sembra quasi sfiorare il ridicolo, per i tempi che corrono, ma che è indispensabile per poter vedere e apprezzare questo libro come oggetto documentario, e pietra inaugurale dell’edificio di un’opera che si andò espandendo e consolidando col passare del tempo. A dimostrarlo, due esempi che sono pietre miliari nella letteratura argentina contemporanea: El factor Borges e Il passato.

Dice Alan Pauls nella postfazione inedita a El pudor del pornógrafo: «Una nuova edizione, fosse anche nel regno immaginario, scioglie o mitiga i dubbi dell’esordiente: sono uno scrittore?, che tipo di scrittore sono?, ecc. Ma, con trent’anni anni di ritardo, il processo funziona al contrario. Scuote – diana brutale – tutto un battaglione di dubbi assopiti e li fa scattare in piedi. Gli schizza in faccia l’acqua gelida dell’inverno e li chiama alle armi… Ma a che scopo?, mi domando io».

WL: Cos’hai provato a rileggere il tuo primo romanzo dopo trent’anni?

AP: Mi è piaciuto. Credo sia un libro molto speciale. Mi stupisce come a ventun anni abbia potuto scrivere un libro così strano, così idiosincratico. E, al tempo stesso, credo sia un libro che ha molti legami con tutto quello che ho scritto dopo. Cioè, pur nella sua unicità di opera prima, contiene qualcosa che profetizza quello che avrei scritto in seguito.

WL: Com’è stato scrivere un romanzo a ventun anni?

AP: Successe tutto molto rapidamente: in quattro o cinque mesi. Un po’ pressato dalla scadenza di un concorso letterario. A quei tempi era normalissimo vedere le scadenze dei concorsi come date entro cui terminare i testi. E poi, questo romanzo, lo scrissi anche in una specie di trance. In quel periodo prendevo tutto un po’ così. Nel libro ci sono parecchi riferimenti alle mie letture di allora. Ma si tratta anche di un romanzo sperimentale: contiene molte letture, molti problemi letterari e filosofici che stavo affrontando in altri ambiti del mio lavoro, con la critica, per esempio.

WL: Il libro ha una componente passionale esasperata. Nel processo di scrittura hai utilizzato qualche elemento della tua biografia, della tua vita, della tua esperienza?

AP: Se ci ho messo qualcosa della mia vita, l’ho fatto in maniera inconsapevole. Non ho lavorato di proposito con materiali miei, né con la mia esperienza personale. Quello che invece è un elemento molto personale presente nel libro, e messo in scena, è la mia passione devota per la scrittura. Il protagonista sembra vivere in uno stato di esaltazione, quasi schiavizzato dall’atto della scrittura, tanto da non poter fare nient’altro. È costretto a scrivere il suo amore perché non può metterlo in pratica. Questo è un nucleo personale forte, nel senso che, per quello che riesco a ricordare di quel periodo della mia vita, di quando avevo venti, ventun anni, io non facevo altro che scrivere. Se dovessi dire quale pezzo della mia vita ho inserito nel libro in maniera abbastanza consapevole, sceglierei proprio questo. La sensazione di una specie di sacerdozio letterario. Perfino il personaggio del romanzo ricorda un po’ un monaco, nel senso che vive rinchiuso in questa sua stanza-chiostro. Come se si trattasse di letteratura sacra, no?

WL: Da questo deriva anche la scelta del genere epistolare?

AP: Sì, un po’ anche da questo. Mi interessavano i generi che allora erano considerati minori perché comprendevano lettere, diari, testimonianze, cronache personali. Insomma, tutta la non-fiction in prima persona. Questa mi aveva sempre incuriosito. Il libro, poi, si intreccia con l’epistolario di Kafka, che è uno di quelli che mi piacciono di più. La forma epistolare, l’ho sempre trovata interessante per le idee di Derrida su questo tema. Mi interessava il genere, e una certa drammaticità che è quasi un tratto stilistico.

WL: Una volta che è già stato pubblicato, e tenendo conto che è stato il tuo primo romanzo, in che modo El pudor del pornógrafo ha modificato o ampliato il tuo lavoro con la narrativa?

WL: Secondo me, la cosa più importante è che mi ha fatto capire che potevo scrivere un romanzo. Quando cominciai a scrivere, non mi ero ancora reso conto che potevo scriverne uno. Scrissi testi brevi, poesie, racconti. Ma un romanzo che avesse un certo respiro, e che si reggesse in piedi, era una cosa che, a priori, non pensavo di poter fare. Amavo leggere romanzi e sognavo anche di scriverli. Per di più, questo è stato il primo. Non è che ne avessi già scritti tre che non mi erano piaciuti. In pratica, mi ha dato questa certezza: ah, bene, posso scrivere un romanzo. E poi, ovviamente, mi è venuta voglia di scriverne altri. E quindi questo libro mi ha anche avviato verso un progetto specifico. Che è stata una bella cosa, perché scrivere mi ha sempre divertito molto. I mesi che passai a scrivere El pudor furono intensissimi, ma divertenti. Una sorta di rapimento alieno. E volevo ripetere questa esperienza.

WL: Ti è venuto facile intraprendere gli altri progetti di romanzo?

AP: Uno scrittore sta sempre lì a scrivere, ad abbozzare testi o a prendere appunti che poi metterà da parte. C’è sempre una base su cui si comincia a scrivere. Non ci sono pagine bianche: la pagina bianca non esiste. Il sogno degli scrittori è proprio questo: arrivare alla pagina bianca. Perché il punto di partenza non è mai una pagina bianca, ma una pagina troppo scritta. Quindi, quello che dici tu non è mai un problema. Almeno per me. Il vero problema, ammesso che esista, non ha niente a che vedere con il tema o il materiale, ma è legato piuttosto a un altro tipo di incognita. Ha a che fare con quei momenti in cui uno, per un motivo qualsiasi, vuole rinnovare i principi che sono alla base della propria scrittura. E credo che questo spieghi benissimo certi silenzi degli scrittori. A volte gli scrittori non sono abbastanza soddisfatti degli strumenti con cui scrivono, di certi valori o principi che prima avevano permesso loro di farlo, oppure può anche accadere che alcune credenze o superstizioni gli si ritorcano contro, e allora a quel punto smettono di scrivere. O forse hanno solo esaurito le idee e sono stanchi. E lì si accende la speranza di poter riprendere forza. Se devo dire la mia, io scrivo sempre su qualcosa che ho già abbozzato. Non ho problemi in questo senso.

WL: Pensi che il tempo aiuti uno scrittore a scrivere meglio?

AP: No, no. Non esiste l’esperienza nel senso cumulativo della parola. Almeno per quanto mi riguarda. Non c’è un capitale che si va accumulando e che ti permette di risolvere con più facilità i problemi della scrittura. Per me, ogni nuovo libro pone problemi specifici, che richiedono soluzioni anch’esse specifiche. La difficoltà è che esistono. Nel mio caso, la soluzione consiste sempre nel creare un problema. Ma se non cominci a scrivere il libro, non puoi impostare il problema. Per me, ogni libro è un problema, un enigma, un gomitolo, un nodo. E c’è qualcosa all’interno di questo nodo che bisogna sbrogliare. È necessario trovare una soluzione specifica, perché questa ha a che vedere con il mondo che si inventa. Per ogni libro bisogna pensare in maniera diversa. Perciò, accumulare è difficilissimo. Anzi, credo che col tempo scrivere mi sia venuto sempre più difficile. Voglio dire: ormai non è più naturale. El pudor del pornógrafo sembra quasi scritto in modo spontaneo, e invece è tutto il contrario. È un libro molto studiato, con un personaggio che crede che la scrittura sia un processo autocosciente. È un libro molto letterario. Ecco cosa significa scrivere un libro. Non importa quanto il romanzo sia bello o brutto. Basta che ci sia una consapevolezza letteraria. Eppure è un libro che sembra scritto in uno stato di grazia, quello tipico dei vent’anni. Col tempo ho cominciato a perdere la certezza che la scrittura fosse una cosa naturale. Ora faccio un gran lavoro di fabbricazione, invenzione, elaborazione, e niente mi sembra più ovvio. Tanto per cominciare, ho iniziato a prendere in considerazione la possibilità di smettere di scrivere un giorno. Questa è una cosa che a vent’anni non avrei mai pensato. Mi è passato per la mente che forse a sessanta o settant’anni non avrò più niente da scrivere, o che la scrittura in sé non sarà più la lingua che sceglierò per pensare. Mi sembra una cosa possibile. Forse è improbabile, perché la mia vita è molto legata alla scrittura. Proprio per questo, secondo me, l’esperienza è tutto il contrario di dare per scontato ciò che si fa. Io, a scrivere, ho molti più problemi adesso che ai tempi di El pudor, che è un libro scritto senza la benché minima ombra di dubbio. Io, poi, ero un idiota: non capivo niente, non sapevo fare niente. Il fatto è che scrivere è l’esperienza stessa della scrittura. Significa non sapere cosa si scriverà. Significa sbagliare, perché non si sa cosa si butterà giù. La scrittura è fatta di tutte le strade sbagliate che si imboccano, di tutti gli errori che si commettono, di tutte le speranze che si covano, di tutte le novità che si scoprono e che lanciano il progetto in mille direzioni, costringendoti a rifare tutto daccapo.

Condividi