In attesa di Una domenica pomeriggio, il prossimo littleSUR dedicato a Roberto Arlt, ecco la seconda parte di una lunga prefazione di Abelardo Castillo alle Acqueforti di Buenos Aires, che ripercorre l’intera opera dell’autore. Potete leggere la prima parte qui.
«Arlt, il barbaro» / 2
di Abelardo Castillo
traduzione di Elisa Montanelli
L’altra superstizione: l’ignoranza di Arlt.
Tutti, almeno una volta, ne abbiamo parlato. Juan Carlos Onetti, anche se per esaltarlo, lo vede come un analfabeta illuminato e geniale. Arlt stesso fomentò questa leggenda. Amava ripetere che lo avevano espulso da scuola perché incapace. Diceva di essere arrivato fino alla terza sebbene, in realtà, avesse terminato il ciclo primario in una di quelle scuole dove non esisteva la sesta. Laura Isola recupera una aguafuerte del 1930 dove lui dichiara: «Mi infuria perché sono onoratissimo di essere Roberto Arlt. Certo che preferirei chiamarmi Pepont o Henry Ford o Edison…»[1]. Cosa che significa semplicemente: «Non mi interessa essere Valéry, Gide o Pirandello»; e quindi, non fa altro che tirarsi fuori da solo dalle lettere e dalla cultura. Julio Cortázar, senza uno scopo preciso, condanna Arlt perché a quattordici anni non leggeva i libri che leggevano lui e Borges. Cortázar cita la prima pagina di Il giocattolo rabbioso dove il narratore dice che lo iniziò alla letteratura bandoleresca un vecchio calzolaio andaluso, e si chiede: «Che cosa leggevamo io e Borges a quattordici anni?» Tralascio il malessere che causa questo manicheismo vanesio (da una parte, il povero Roberto Godofredo, dall’altra, niente meno che «io e Borges») e mi limito a segnalare la sua ingenuità. Credere seriamente che Arlt fosse Silvio Astier perché Il giocattolo rabbioso è scritto in prima persona, è la stessa cosa che credere che Kafka fosse un orangotango perché scrisse Una relazione per un’Accademia, dove il narratore è, notoriamente, una scimmia. E credere che sia possibile scrivere, bene o male, ma in generale molto bene, I sette pazzi senza aver letto nient’altro che Rocambole, è credere troppo alla favola che ogni scrittore si inventa per mettersi in mostra davanti al mondo. Cervantes commise l’errore di dire che era un pessimo poeta e nessuno rilesse mai i suoi versi. Baudelaire, che per vari aspetti era quasi un santo, si vantava di essere così perfido che finirono per metterlo in prigione. Roberto Arlt nominò Rocambole e noi lo abbiamo rocambolizzato per sempre.
Le avventure di Rocambole che questo ragazzino illetterato aveva letto a quattordici anni comprendono quaranta tomi, dettaglio che di solito non viene tenuto troppo in considerazione. Le citazioni o le allusioni letterarie delle prime cinquanta pagine de Il giocattolo rabbioso non sono innocenti. Riconosco Baudelaire, Fenimore Cooper, la Storia della Francia di Guizot, Chateaubriand, Lamartine, Le Dantec, Darwin, Le opere e i giorni di Esiodo, Las montañas del oro, leggo tre o quattro dialoghi in perfetto francese e mi imbatto nella seguente affermazione, a pagina quindici: «Da quel giorno fino alla notte del gran pericolo, la nostra amicizia fu paragonabile a quella fra Oreste e Pilade». Non vi chiedo a quale tragedia si riferisca Arlt in questo paragrafo, o perché scelga Pilade per simboleggiare questa amicizia; vi chiedo di notare la familiarità con cui allude a questo legame. Che cosa devo pensare? Che Arlt simulava una certa cultura libresca? Che gli sembrava elegante citare i greci? E perché dovrei pensarlo, se vista la struttura di questo capitolo avrebbe potuto trarre esempi da qualsiasi libro d’avventura? Quello che invece penso è che il rapporto fra Pilade e Oreste gli appariva tanto stretto ed eloquente almeno quanto lo sarebbe per chiunque di noi quello fra Martín Fierro e Cruz, fra Achille e Patroclo e magari quello fra Gilgamesh ed Enkidu, o, per farla più semplice, quello fra Batman e Robin. Arlt fa dialogare due personaggi in francese. Dovrei pensare che ignorasse completamente quella lingua e che, come farebbe d’altra parte qualsiasi altro scrittore, si prese la briga di chiedere a qualcuno di inventargli un dialogo corretto? Ma perché dovrei pensarlo? Se crediamo a Borges quando cita in tedesco, se crediamo a Umberto Eco quando cita in latino, se credo a Cortázar, a Bioy Casares o a qualsiasi rocchettaro quando citano in inglese, perché sospetto che Arlt non sappia che cosa sta dicendo? C’è una sola risposta: perché a priori non mi fido di Arlt, perché ho candidamente creduto che sia possibile arrivare fino alla terza elementare, e poi, senza leggere neanche un libro, scrivere I sette pazzi. Perché sono, insomma, un cretino o uno che ignora irrimediabilmente cos’è il lavoro segreto, spirituale, la formazione intima di uno scrittore. E se di credulità si tratta, perché non cominciare a credergli un po’ quando, smettendo di giocare a fare l’inventore analfabeta, dice con brutale sincerità: «Sono il miglior scrittore della mia generazione e il più disgraziato. Forse proprio per questo sono il migliore».
Sappiamo che la madre di Arlt gli recitava Dante e Torquato Tasso, sappiamo anche che fra gli scrittori che ammirava il giovane Arlt non c’erano solo i russi – considerando che russo, qua, significa Dostoevskij, Cechov, Andreev, Gorki, Tolstoj, Turgenev, Gogol, vale a dire un capitolo considerevole della letteratura contemporanea – , sappiamo che Arlt stesso dichiarava la sua ammirazione per Baudelaire e Proust, sappiamo che nel prologo de I lanciafiamme cita un’azione narrata da Joyce nel quarto capitolo dell’Ulisse, e non serve essere una volpe per capire che aveva letto abbastanza teatro, in particolare quello di Pirandello, sebbene, per le stesse ragioni per cui citava Rocambole, lo negasse. Se a tutto questo aggiungiamo l’opinione selvaggia che aveva di tutti gli scrittori argentini della sua epoca, che senza dubbio aveva letto, e se teniamo in considerazione il fatto elementare che uno scrittore ha letto sempre moltissimi più autori di quelli che gli servono o che vuole citare, l’immagine di Arlt ignorante, quasi analfabeta, del Goya di periferia, comincia a essere alquanto meno credibile di quella dell’Arlt che abbiamo sempre creduto tutti: un lettore vorace e disordinato, un autodidatta alla maniera – ma in un’altra direzione – dei tanti che ci ha dato la letteratura argentina, a partire da Sarmiento e Hernández, passando per Lugones e Martínez Estrada, per finire con Borges. Non sto rovesciando il mito. Non voglio rimpiazzare l’Arlt somaro espulso da scuola e che veniva intontito a suon di botte da un padre brutale, con un Arlt proustiano che ascoltava i rumorosi versi di Tasso dalla bocca di una madre italiana e melodiosa e che, di nascosto, leggeva Platone in greco o versificava in alessandrini francesi. No: dico che Roberto Arlt fu, essenzialmente, uno scrittore colto almeno quanto qualsiasi altro scrittore che ha trovato il suo destino di scrittore.
La semplice enumerazione dei libri – molti di questi in francese – citati da Arlt nel suo saggio sulle scienze occulte, scritto a vent’anni, finirebbe di provare quello che qui posso solo segnalare. Fra altri cento, leggo i nomi di Swinburne, Verlaine, Poe, Darío, Walt Whitman, Valle Inclán, Maeterlinck, Oscar Wilde.
Ho già parlato molte volte dell’altro Arlt, quello che davvero sembrava non aver bisogno di nessun libro altrui per essere chi era, del suo esistenzialismo naturale, del parallelismo quasi inconcepibile di certi personaggi e scene dei suoi libri con personaggi e scene che in seguito avrebbero scritto Sartre e Camus (il Cesare de El desierto entra en la ciudad e Caligola, personaggi che osservano una donna nuda come se fosse un oggetto o si inchiodano una mano al tavolo, Erdosain che si arrampica su un albero per guardare la gente dall’alto come l’Erostrato sartriano lo fa da un balcone, titoli di capitoli come “Essere” per mezzo di un delitto che sembrano presi dall’Essere e il nulla). Ho anche già detto qual era il suo proposito esistenziale. Essere felice. «Io scrivo per essere felice», diceva, «scrivo per sapere in che modo si può raggiungere la felicità, dentro o fuori la legge».
Quell’Arlt non è l’argomento di questa pagina, quell’Arlt si è collocato per sempre al di là della letteratura.
[1] Roberto Arlt, Acqueforti di Buenos Aires, trad. di Marino Magliani e Alberto Prunetti, Del Vecchio Editore, 2014.
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