Pubblichiamo oggi un intervento di Martina Testa, traduttrice del libro, su Ultima uscita per Brooklyn. Il pezzo è uscito originariamente su Tuttolibri della Stampa e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autrice e della rivista.
«Un grido in cerca di una bocca»: così definiva Hubert Selby Jr. il suo Last Exit to Brooklyn in un’intervista a Lou Reed del 1989. Un’espressione che rende bene l’idea della potenza viscerale di questo romanzo, uscito negli Stati Uniti nel 1964 per Grove Press (casa editrice «trasgressiva» per eccellenza, che aveva in catalogo Henry Miller e William Burroughs) e subito circondato dal clamore: in America suscitò in uguale misura ammirazione e sdegno, nel Regno Unito la prima edizione fu bandita dal commercio e solo nel 1966 una sentenza d’appello ne autorizzò nuovamente la pubblicazione. Anche da noi il libro scatenò un processo per oscenità contro il suo editore, Feltrinelli – coraggioso omologo italiano di Grove Press.
Ci voleva coraggio, davvero, per pubblicare un romanzo così dirompente: un ritratto vivido e durissimo della vita quotidiana nelle zone popolari di Brooklyn alla fine degli anni Quaranta. Le pagine brulicano di prostitute e prostituti, tossici, ladruncoli e teppisti, operai rassegnati allo sfruttamento, marinai e soldati ubriachi, sbirri aggressivi: un’umanità lasciata ai margini dalla middle class trionfante del dopoguerra, che rifluisce verso l’animalità dei pestaggi e degli stupri, marcisce nell’impotenza economica e nella frustrazione sessuale, o evade grazie all’alcol, all’erba, alla benzedrina. Tutto ciò Selby lo descrive con la ricchezza di dettagli di chi quel mondo l’ha conosciuto in prima persona; nato e cresciuto nel quartiere di Bay Ridge, a pochi isolati di distanza dalle strade che racconta, ci tornò proprio sul finire degli anni Quaranta, dopo che una tubercolosi contratta mentre era in servizio presso la marina mercantile lo aveva costretto a una penosa degenza in ospedale, minandogli per sempre la salute. Poco più che ventenne ma senza le forze e le competenze necessarie a trovare un vero lavoro, Selby passò anni di povertà, malattia e tossicodipendenza, nel corso dei quali però scelse una volta per tutte il suo destino: «Sapevo di non poter tornare a scuola», dichiarerà in un’intervista nel 2000. «Ma l’alfabeto lo sapevo. E allora mi dissi che potevo scrivere».
Da completo autodidatta, convinto di non avere alcun talento naturale, Selby si mise ossessivamente alla macchina da scrivere, consumando infinite notti e risme di carta in sedute estenuanti di scrittura e riscrittura, alla ricerca di una pagina che avesse autentico valore. È da questa ossessione, da questo desiderio febbrile di affermare la propria precaria esistenza, e non da un qualche antecedente letterario, che nasce quasi miracolosamente la voce di Last Exit to Brooklyn.
Ed è l’incontro fra uno sguardo e una voce a fare la grandezza del romanzo. Lo sguardo è quello di un testimone vicinissimo ai fatti, che registra senza battere ciglio la violenza, la disperazione, la perversione, la perdita di controllo (una ruvidità di approccio che, tra il finire degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, incontrerà perfettamente il gusto del pubblico «alternativo» e riaccenderà l’attenzione sul romanzo facendone un libro di culto). Ma è la voce l’elemento che rende davvero straordinario Last Exit. Uno stile torrenziale e jazzistico, fatto di lunghissime cavalcate scandite per pagine intere solo da virgole; una lingua mimetica, traboccante di volgarità e colloquialismi, colorata dalle particolari inflessioni dei personaggi (neri o italiani, effeminati o sguaiati: ciascuno suona perfettamente distinto e inconfondibile, tanto che Selby può rinunciare alla banalità di specificare chi parla, e persino all’uso delle virgolette); la stessa irregolarità della grafia, che elimina gli apostrofi, storpia le parole per meglio imitarne il suono, le attacca fra loro o le scrive tutte in maiuscolo per decine di righe. Nulla di tutto questo è studiato ma nulla è casuale, e il risultato è una musica sincopata e travolgente che redime la brutalità del mondo raccontato consegnandolo a una forma bizzarra ma innegabile di bellezza. Una cosa è raccontare uno stupro di gruppo, una cosa è raccontarlo per quattro pagine senza mai usare un punto fermo.
Che sfida, tradurre un romanzo così. Il primo a cimentarsi nell’impresa, in Italia, è stato nel 1966 Attilio Veraldi, uno dei più noti traduttori di letteratura americana del secondo Novecento (Henry Miller, John Updike, Raymond Chandler sono solo alcuni degli scrittori su cui ha lavorato). Si tratta di una grande traduzione autoriale, in cui l’originale fa a volte più da traccia che da vero e proprio modello: Veraldi si prende ampie libertà (ad esempio volgendo al presente intere sezioni scritte al passato, per maggiore immediatezza), e inventa a sua volta una lingua particolarissima, espressionistica, deformata, persino più lontana dall’italiano standard di quanto quella di Selby lo fosse dall’inglese di ogni giorno. È con questa lingua che il romanzo si è stampato per cinquant’anni nell’immaginario dei lettori italiani.
Che sfida ancora più grande ritradurlo oggi, con l’intento di farne scoprire il fascino a un pubblico per il quale, a decenni di distanza, la lingua di Veraldi rischia di essere diventata troppo arcana (quanti capiscono che «cimice» sta per «soldato», che un «lacerto» è un dollaro, che «è la cassazione» significa «è la fine del mondo»?). Rinunciando a ricreare un linguaggio colloquiale anni Cinquanta o Sessanta per timore di imbalsamare il romanzo e ridurlo a un documento d’epoca, ho scelto di usare una lingua contemporanea e viva, in grado di produrre sul lettore di oggi lo stesso effetto di immediatezza senza filtri a cui puntava l’autore. Ho ridotto le irregolarità ortografiche, a cui l’inglese si presta per natura ma che in italiano risultano più artificiose e forzate. Ho soprattutto provato a tradurre il più possibile di getto, riproducendo il flusso incalzante della scrittura di Selby, e riletto decine di pagine a voce alta, cercando di mantenermi fedele in primo luogo alla formidabile partitura ritmica dell’originale.
Last but not least, nella nuova traduzione ho cambiato il titolo: la exit dell’originale non è una fermata d’autobus o di metropolitana, ma una rampa autostradale: l’ultima, appunto, da cui si può accedere a Brooklyn prima di attraversare il Verrazano Bridge e ritrovarsi nel New Jersey. Ultima fermata a Brooklyn è diventato quindi, più filologicamente, Ultima uscita per Brooklyn. Un doveroso tributo di esattezza a un autore che fra le vie, le stanze e i bar all’ombra di quell’autostrada è nato e ha vissuto – e ha fatto nascere e vivere (per sempre) i suoi personaggi.
© Martina Testa, 2017. Tutti i diritti riservati.
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